Giulia Siena
ROMA – Deserti naturali, povertà di affetti, scontro di civiltà, silenzio e polvere: la lotta umana in un mondo alla resa dei conti. Tutto quello che doveva succedere è successo; Neghentopia – recensito qualche giorno fa tra queste pagine – ne fotografa il vuoto, l’assenza, gli ultimi bagliori di luce prima del buio più profondo. Nessuna pietà, nessuna nuova possibilità; qui finisce tutto e non è stata, certo, una sorpresa. Matteo Meschiari usa il proprio linguaggio per fotografare un presente grottesco e tragico. L’autore di Neghentopia in un’intervista di ChronicaLibri.
Neghentopia è un quadro dalle tinte fosche, è premonizione, è un esercizio per esorcizzare la paura, è scrittura di fantascienza e realtà. Cos’è Neghentopia per Matteo Meschiari?
Un libro per poter parlare con le persone che incontro di due o tre problemi seri che dovremmo cominciare ad affrontare. Un testo politico prima che letterario. Il neoliberismo cannibale, l’esaurimento delle risorse, il collasso ambientale, ad esempio.
Lucius, il protagonista, è un giovanissimo umano che viene messo alla prova da una società ormai al capolinea. Lucius deve trovare la vita attraverso la morte guidato da un passero che è realtà e coscienza. E’ il personaggio che ti ha indicato la storia oppure serviva una storia a questo personaggio?
In fondo non c’è una storia vera e propria in Neghentopia. C’è un personaggio che si muove in deserti naturali e umani e compie azioni che servono solo a farlo andare più avanti. Ma il personaggio è solo un pretesto. Quello che mi interessava mostrare era un mondo che per me è già qui.
Lo scenario è quello in cui vi è il “trionfo della morte”: città rase al suolo, testimonianze di arte e progresso spazzate via da uno scontro tra civiltà non più civili; è l’estremizzazione del reale? Questo è lo scenario fantastico di una società reale?
Basta spostarsi in altre parti del pianeta, uscire dall’eurocentrismo che ci attanaglia, per rendersi conto che milioni di persone stanno già vivendo l’apocalisse. I luoghi di Neghentopia sono ispirati a luoghi reali, qui e adesso. L’Artico, l’Asia, la Siberia, l’Africa…
Le parole che usi – scelte, calcolate e limate – rendono il viaggio di Lucius in questo mondo, tra queste pagine, una sospensione del tempo e una lotta umana e generazionale. Che ruolo ha la lingua in questo libro?
Non so bene. L’ho scritto così perché contemporaneamente ad affrontare temi seri volevo fare una parodia del copione cinematografico. Poi però nelle descrizioni d’ambiente, nonostante la paratassi, l’assenza di virgole e una generale asciuttezza, mi spingo più in là rispetto a una scrittura solo visiva. Forse se dobbiamo trovare un ruolo alla lingua di Neghentopia potrei rispondere “creare claustrofobia”.
E le immagini, illustrazioni di Rocco Lombardi, sono anch’esse espressione di questo bisogno di raccontare?
Le immagini di Rocco sono tutto il senso del libro secondo me. Io ho scritto un testo buio. Lui ha tirato fuori da quel buio una luce e una speranza nelle quali io non credo. Quindi sì, le sue immagini sono un contro-racconto. E no, non rafforzano il messaggio, lo rovesciano.
Anche nella disperazione più profonda, tra queste strade polverose e dimenticate, inserisci piccoli sprazzi di colore, filamenti che riportano al passato e che creano legami con un futuro che non può smettere di esistere. Neghentopia è anche speranza?
Non per me.
Nel 2016, sempre per Exòrma, Matteo Meschiari pubblica “Artico nero”: come in “Neghentopia” l’ambientazione è nel territorio artico, ancestrale e buio. Come mai questa scelta?
Per le stesse ragioni per cui ho scritto Neghentopia. Avevo bisogno di raccontare quello che è successo nell’Artico. Genocidio culturale. Collasso ambientale. Colonialismo.
Le tre parole che preferisci.
Quattro no? “Amore”, “Cane”, “Bambino”, “Anarchia”.