Luca Vaudagnotto
AOSTA – Non si legge Carlo Villa per caso, tanto meno “I sensi lunghi”, che nella produzione dello scrittore e poeta romano rappresentano un’opera degli esordi (Einaudi Coralli, 1970). Eppure questo lavoro, che si colloca a metà strada tra un romanzo breve e un racconto lungo, già dal titolo affascina e ammorba il lettore che lo prende in mano e lo sfoglia, in modo particolare nella sua edizione originale, con una curatissima veste grafica ed editoriale.
“I sensi lunghi” è la storia, in forma di soliloquio, di un uomo ordinario, sposato e con una figlia, che a un certo punto della sua vita abbandona il lavoro e si rinchiude in casa, nel bagno, e, attraverso le tubature, ascolta e spia la vita dei condomini, in particolare di Claudia, della quale apparentemente si innamora. È un romanzo dell’ermetismo, dove l’esistenza del protagonista si richiude su sé stessa, si disgrega in tutte le sue funzioni sociali, a partire dal linguaggio, che per il nostro anti-eroe altro non è che un ammasso di «segni divenuti misteriosi e inintelligibili». E nasce uno stridente contrasto tra questa rinuncia alla verbalità del protagonista e la scrittura del suo inventore: l’italiano di Villa è una lingua difficile, estranea ai più, ermetica anch’essa ma per la sua complessità e per l’uso ardito che l’autore ne fa, che oscilla tra tecnicismi propri dell’ingegneria idraulica e picchi altissimi di poesia.
Non bisogna, tuttavia, cadere nel facile errore di considerare il protagonista alla stregua di un epigono di quei personaggi inetti a vivere, disadattati, tanto cari alla letteratura d’inizio secolo. Il nostro è un uomo che decide, consapevole, di allontanarsi dal mondo («pratico la vita per mezzo di una fuga da essa»), ma che parallelamente viola le chiusure degli altri, l’altrui intimità, raggiungendo in alcuni momenti lucidi deliri di onnipotenza («Il burattino oscilla […] ma i fili sono io che li tengo», dice, in riferimento a Claudia).
L’altra grande protagonista, di cui tutto il romanzo è intriso è l’acqua: i sensi del protagonista si allungano proprio grazie a questo medium fluido, e le parole e i verbi dell’acqua sono disseminati sapientemente da Villa in tutto il romanzo, cosicché l’elemento liquido si manifesta in tutte le sue forme e in tutti i movimenti che gli sono permessi. In questo senso, l’acqua è ascoltata, toccata, ci si immerge, è bevuta, è raccolta in speciali contenitori, è annusata. L’acqua, insomma, come sostituto d’ogni altra socialità, quel rapporto con l’altro che, oggi come allora, è segno distintivo dell’uomo, ma le cui derive diventano inferni da cui fuggire.
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“Neurosuite”: la poesia che rima con pazzia.
Giulio Gasperini
ROMA – Alda Merini poetò la sua “Terra Santa”: quelle “mura di Gerico antica” che erano il limite tra sanità e follia (anche se confuse erano le parti, se chi dentro o chi fuori). Ma la pazzia, la pericolosità dei manicomi, la perversa pretesa di guarigione che lì si covava erano già state declinate in versi. Da tante. Soprattutto femmine. Una gemma è “Neurosuite”, della dimenticata Margherita Guidacci, edito nel 1970 da Neri Pozza.
La silloge è un attraversamento delle “acque oscure”, come le appella la Guidacci stessa, a partire dalla soglia d’ingresso, da quella “Sala d’attesa” che è anticamera dell’inferno. Sicché non è un caso se anche nella poesia della Guidacci compare Dante e il suo Minosse, declinato nella figura del (nemico) dottore: “Avvìnghiati Minosse, / cingiti con la coda / anche se noi non la possiamo scorgere / perché l’hai ben nascosta / sotto il camice bianco”. In realtà, non ha neppure importanza il luogo: “Ma cosa importa dove siamo / se, essendo quel che siamo, / in nessun luogo ci sentiamo salvi?”. Lì i pazienti “entrano e ricevono / […] / un nome greco per il loro male”. Lì dentro si muore, “sepolte le stelle, la luna, / abrogata l’alba, distrutto / ogni ricordo luminoso” non c’è più una scheggia di vita, una scintilla di forza, di dignità. Le sbarre recintano l’uomo, lo delimitano nello spazio e lo sviliscono nell’animo: proprio il luogo che dovremmo pensare più sicuro ci rende più spesso prigionieri. E ci viola, violento. Tutto diventa ostile, sospettabile, anche un carrello che “non si capisce bene se col tè o l’iniezione”. E l’animo si frantuma: “Questi cocci che furono anime / non ti dicono i loro segreti”, perché “il nostro crollo non finiva mai”. Nulla conforta, neppure le arance col chiasso del loro colore, neppure le visite nell’ora del passo, perché “la solitudine / è la peggiore compagnia / come la compagnia / è la peggiore solitudine”.
La Guidacci lascia anche spazio alla polemica politica, un elegante e delicato affondo ai legiferanti: “Avemmo troppo o troppo poco – / ed il vano rimpianto / di leggi più serene”. C’è spazio per la polemica medica, per le tecniche adoperate – in particolare l’elettrochoc – che trasforma i pazienti in martiri dai segni tangibili, come sanguinanti icone ortodosse, nella “traccia degli elettrodi”. E poi c’è la polemica sociale, data dall’incontro tra un ‘cittadino’ e un ‘reduce’: l’imbarazzo che ne deriva, l’inutilità della tangenza, quella “conversazione interrotta, l’inquieto sorriso”.
Secondo la Guidacci, il malato pretenderebbe soltanto la sua dignità, pretenderebbe di non essere un numero incasellato e archiviato ma di poter sfogliare i propri diritti, di fronte all’inibizione della propria vita (“Almeno sia la morte di mia scelta!”). Quel che è più agghiacciante, però, ci confida la Guidacci, è la totale impossibilità di guarire, per l’inutilità delle cure. Non c’è cura, infatti, nel manicomio; c’è soltanto posticipo dell’inevitabile: “Si levano i nostri demoni / e vanno ad aspettarci / un po’ più in là, verso l’alba”. Non c’è nessuno che conforta, nessuno che aiuta: “Insegneresti il volo / a una farfalla murata / in secoli d’ambra?”. La disperazione è pesante, la prospettiva funesta: “Qui tante tende sbattono, / tante porte si schiudono. / Balenano spiragli, / ma tutti danno sul vuoto”. Ma un po’ di speranza affiora, filtra tra queste pieghe disperate: siamo tutti come una giovane rondine che “ubbidisce al richiamo / d’altri cieli che ancora non vide”. Perché la peggior prigione siamo noi per noi stessi: “Tu confini con l’aria, / tocchi gli alberi, cogli i fiori, sei libera, / e sei tu stessa la tua prigione che cammina”.