“Lettere da Sodoma”, dove l’amore è feroce.

Lettere da SodomaGiulio Gasperini
AOSTA – “Un reietto, un rifiuto della società costituita, un borghese che è sceso fino al rango fangoso dei pezzenti, dei falliti”. Fallito, soprattutto, nelle sue ispirazioni artistiche e poetiche. È questo il personaggio protagonista del romanzo epistolare “Lettere da Sodoma”, che Dario Bellezza pubblicò per Garzanti nel 1972. Attraverso missive inviate a scontornati destinatari, Marco narra la storia della sua condizione, di questo strazio di vivere che si tesse con un più profondo supplizio d’amore: “Ho orrore della mia condizione di maniacalmente depresso che desidera l’orrore dell’euforia: fra questi due poli oscilla la mia vita”. E la sua vita è una continua lamentazione, un inarrestabile cadere in spazi d’ombra interiori, dove tiranneggia “la tragicità fanatica del quotidiano”. È un continuo ripensare ai suoi fallimenti, affliggersi con legami sadici e furenti: “Vivere di progetti non mi basta più”, ma neanche il sogno ha più spazio nella sua vita, neanche un amore che sia sano e maturo, puro e coraggioso.
Il tiranno per eccellenza, che spadroneggia e infuria, è Luciano, un ragazzino che si prostituisce per capriccio e avidità, che si diverte in un gioco perverso a tormentare e torturare il fragilissimo amante. La soluzione, Marco, l’ha ben chiara: “Mi ripeto che per farlo stare con me lo devo fare mio prigioniero”. È un amore cannibale, un amore tormentoso, una continua violenta prevaricazione e . Le parole di Marco sono velenose frecce, affondi feroci e violenti, ma anche consapevole che l’altro abbia un’armatura resistente e tenace, possegga una capacità innata di difendersi semplicemente con il potere della sua esistenza svagata e indisciplinata: “Lo scandalo di questa solitudine in cui mi costringi mi ucciderà. Attenta al rimorso. Ma tu sei troppo superiore a tutto”.
Marco sceglie la lettera, una forma di lettera poetica, per indagare il proprio scontento e lanciare anatemi e violente requisitorie contro i suoi amici, i suoi amanti, i suoi nemici, i suoi amori tribolati; la lettera gli dà compagnia, gli concede la possibilità di fingere una sciarada, una ricostruzione aleatoria e fittizia di una vita che lui desidererebbe intensamente non fosse la sua: “Ecco perché almeno queste lettere mi fanno un po’ di compagnia: sorelle della mia futura morte. Sono la mia ultima occasione, dove, niente essendo autobiografico, tutto lo sembrerà, senza rimedio”. Ma la lettera è strumento di strenua difesa, l’unica possibilità – fallito il tentativo letterario – per significare il suo io più profondo e concedersi una giustificazione d’esistenza: “Sono attaccato a queste lettere come un naufrago alla sua zattera che forse lo porterà a salvazione. Soprattutto le scrivo per uccidere il tempo, la noia”. La sua è una confessione, un tentativo di espiazione (“Mi sto laicamente confessando”). Ma abita a Sodoma, e pare non esistere per lui nessuna promessa di redenzione.

“Grazie per il fuoco”: la distruzione e l’inizio

grazie per il fuocoDalila Sansone
AREZZO – Da qualche parte ho letto che la tensione di “Grazie per il fuoco” si muove tra il prologo e l’epilogo, qualcosa di simile all’andamento di una funzione tra due punti di massimo insomma. A me piace vederlo come un arco voltaico, una scarica tra due poli opposti. Mario Benedetti lo pubblica nel 1965 ma in Italia arriva solo nel 1972 (Il Saggiatore), poi scompare e torna nel 2011 con le edizioni laNuovafrontiera dietro quel fiammifero spento, ancora fumante, sulla copertina di cartoncino ruvido. Ruvido.
Il tatto… c’è qualcosa di assolutamente sensoriale in questo libro dove la narrazione in senso proprio manca e i fatti prendono corpo e si fanno spazio nel fluire continuo, incessante di pensieri sparsi.
Di temi ne affiorano tanti tra il convenzionale e il meno convenzionale ma non sono il potente conflitto generazionale, ideologico, o lo sfondo che attanagliano la mente e catturano ipnoticamente l’attenzione. No, è il flusso di pensieri incastonato in una informe decadenza allo stesso tempo sociale, morale, individuale.
Un padre e un figlio, distanti, allontanati da un disprezzo che ha smesso di avere cause. Il bisogno di liberarsi da entrambi le parti, anche esso senza ragioni precise, se non quella del raggiungimento di una condizione diversa dall’adesso. Una costruzione narrativa perfetta nel mettere davanti al lettore l’evidenza: l’unicità di interpretazione non esiste, i sensi ci limitano e la mente si chiude su una o poche idee rendendoci incapaci di cogliere sfumature che non sappiamo vedere, perché non pensiamo nemmeno di farlo. Per questo compaiono voci fuori campo ed il pensiero continuo del protagonista si intervalla a attimi della mente di altri personaggi, donne. Tutte donne quelle che ascoltano riflessioni e amarezze mai espresse fuori da una alcova diventata metafora di una auto reclusione inconsapevole dalla vita, o che costruiscono pensieri inconfessabili persino a sé stesse. Sono questi punti di vista alieni che piombano a interrompere il crescendo dell’azione, obbligando il lettore a osservarla neutralizzando ogni giudizio.
Poi la pelle. Compare nei ricordi, nell’adesso, la pelle. Quella membrana assente alla percezione mentale eppure filtro della percezione reale. I sensi assorbono la mente, la attraversano, la incanalano, la distraggono e poi è li che si risolve tutto: in qualche modo l’essere pensante annegato in sé stesso si allontana dall’essere vivente, fino al richiamo dei sensi. E’ un richiamo materiale (un rumore, un colore) o mentale (un ricordo), troppo a lungo intermittenti o deboli per essere un qualcosa di duraturo nella vita di un uomo… fino a che divampa il fuoco, perché qualcuno ha saputo accenderlo, perché qualcuno bruciando dello stesso combustibile ha permesso che la distruzione si trasformasse in un vero inizio. Tanti singoli inizi.