“Ritorno al mondo nuovo” e il bisogno della libertà

Dalila Sansone
GRAZ – “Ritorno al mondo nuovo” è una riflessione sulla società incastrata a metà novecento, un’analisi in prospettiva alla luce di un pericoloso avanzare nelle direzione delle distopie di inizio secolo. Nel 1932 Aldous Huxley aveva scritto una favola futuristica, descritto un mondo in cui gli uomini nascono in provetta e il condizionamento riflesso è pratica educativa; dove l’ordine sociale è garantito dalla cancellazione del bisogno e dell’emozione. Non organizzazione ma trasformazione degli individui in organismo, entità unica in cui l’individualità corrompe e viene spinta all’autonegazione. Fratello maggiore meno noto di “1984” di Orwell, il “Mondo nuovo” appare molto più vicino alla realtà moderna. Tra il suo libro più famoso e questa raccolta di saggi passano il secondo conflitto mondiale, genocidi, eugenetica, propagande più o meno totalitarie, l’affermazione del consumo di massa: anno 1958. L’autore mette in evidenza l’inquietante parallelismo tra le dinamiche osservabili nella società contemporanea e la descrizione del suo mondo fantastico, una deriva apparentemente incontrollabile condizionata dall’eccesso di popolazione e dalla tendenza alla super-organizzazione, nella quale si affermano forze tutt’altro che occulte ma estremamente abili nell’utilizzare le conoscenze che derivano dal progresso della scienza nell’imprimere una qualsivoglia data direzione. Huxley dà prova, come consueto nella sua saggistica, di profonda conoscenza della scienza del tempo, cita esperimenti, studi, risultati e coincidenze tra prove di laboratorio e concretizzazioni storiche. L’effetto è quello di un documentario virato seppia, un passo più in là del bianco e nero ma ancora troppo precoce per la definizione dei colori. Huxley è una di quelle menti che ha visto sempre oltre la contemporaneità, di cui aveva imparato a leggere le sfumature e a prevedere ogni implicazione, soprattutto a coglierne dinamiche sottili, apparentemente innocue ma di ferocia inaudita. I poteri forti non si affermano permanentemente con la coercizione e la brutalità: il potere è assoluto solo quando capace di non farsi riconoscere come tale e mimetizzarsi in ordine naturale. L’individuo non si obbliga si educa.
La chiave di volta, esattamente come in natura, sta nella diversità, condicio sine qua non per l’affermazione della libertà. Libertà che è prima individuale poi collettiva: non esiste resistenza che non passi per il riconoscimento di principio della libertà individuale fondata su diversità e unicità. Ma la libertà deve anche essere conquista e difesa costante, incentrata sulla constatazione dei fatti e l’enunciazione di valori. La difesa dell’umanità dalle derive totalitarie dell’educazione (e del consumo) di massa non può che passare attraverso l’educazione (o contro educazione) individuale alla libertà a cui va riconosciuto il rango di valore supremo.
Non c’è spazio per le impressioni, ottimistiche o pessimistiche, conoscenza ed educazione individuale alla libertà equivalgono alla costruzione di spirito critico, l’unico a cui fare appello per osservare circostanze e fatti e trarne le dovute conseguenze. La storia insegna che la categoria dell’assolutismo di giudizio è fondamentalmente sbagliata ma anche che l’unica forza di opposizione alle derive assolutiste è l’osservazione critica. Chi crede nella libertà come valore supremo non si trincera dietro l’enunciazione di un diritto astratto ma rinnova costantemente le condizioni che ne rendendo effettivo il riconoscimento. Per necessità, per dovere e per istinto di sopravvivenza.