E se l’uomo non fosse nient’altro che natura?

Giulio Gasperini
ROMA – La magia dell’haiku non è quantificabile nella sua semplice definizione. Un componimento breve, che parte da uno spunto naturale, e si configura in diciassette sillabe suddivise in tre versi: prima cinque poi sette poi cinque. La magia dell’haiku è data dal suo genuino potere di cogliere la scintilla, di cristallizzare il momento dell’energia e concretarlo lì, sulla carta, imprigionandolo nelle sillabe e modellando un ricordo che sia valido a discapito del luogo e dello scorrere del tempo. Bashō fu forse il più grande scrittore di haiku: la storia lo racconta e lo certifica la critica. Fu quello più legato alla natura e ai suoi impulsi poetici. Nelle sue “Poesie”, pubblicate nel 2003 dalla coraggiosa casa editrice pugliese Acquaviva, gli animali e le piante sono l’elemento imprescindibile della provocazione sensoriale, e diventano vettore trainante dell’intima scoperta umana: “È in fiore / il ciliegio centenario. / Il vecchio ricorda”.
La natura diventa anche il setting privilegiato per la scoperta, che avviene nella quotidianità più estrema ma che narra una storia più universale: “Mangiando ai piedi dell’albero / sulla minestra e sul piatto di pesce / cadono i petali di ciliegio”. La comunione tra uomo e natura è totale e non ammette deroghe né torti: “Io sono un uomo / che mangia il suo riso / in mezzo alle campanule”. Ma la natura trasmette soltanto calma e quiete, dolcezza e tranquillità. La natura è anche il luogo del dolore, che trova però sempre il modo di esser sublimato e, in un certo senso, arricchito di possibilità, di alternative: “In morte di un mio amico poeta // Scuotiti, tomba. / Il vento d’autunno / è la voce del mio lamento”. Perché la poesia Basho la ricerca nella vita quotidiana, appunto. La ritrova voltando lo sguardo, cogliendo gli aspetti della vita più semplice e pura: “Ah, come sto bene! / Ieri mi è passato ogni malore / dopo una zuppa di pesce palla”. E la ritrova, soprattutto, là dove la creatività umana e la potenza della natura si incontrano e, incontrandosi, riescono a unirsi e far gemmare qualcosa di speciale, di genuino: “L’inizio dell’arte: / la profondità della campagna / e una canzone piantando il riso”. Nella natura Bashō ritrova tutti i componenti dell’uomo, trova la possibilità d’una continua sorpresa, la promessa dell’inaspettato: “Sono stanco / e entro in una bettola. / Ci trovo fiori di glicine”. Trova persino una traccia perduta dell’amore, un desiderio rimasto incompiuto e chissà se mai avverabile: “Verrà quest’anno / la neve / che contemplai con te?”.
Sa bene, Bashō, che la poesia nacque con l’uomo, e che l’uomo con la poesia crebbe fino a superare sé stesso nelle sue previsioni, nei suoi intenti. Sa bene, Bashō, che la vita è una ricerca, un continuo esplorare per cambiare, nel tentativo ultimo di migliorare: “L’anno se ne va / mentre anch’io mi metto il cappello / e mi calzo le ciabatte di paglia”. Sa però ugualmente bene, Bashō, che la ricerca è solitudine, e che in solitudine si compie il viaggio: “Grande luna! / Ho vagato intorno allo stagno / per tutta la notte”. Ecco allora che gli ultimi suoi versi mai composti sono il suo testamento, la teorizzazione suprema di tutta la sua eterna ricerca, poetica e umana: “Ammalato nel mio viaggio / il mio sogno se ne va da solo / per le pianure desolate”.