Giornata Mondiale della Poesia: Milano rende omaggio ad Alda Merini con il un Premio di Poesia

Alda_Merini-MILANO – Si avvicina il 21 marzo, Giornata Mondiale della Poesia e Milano ricorda la grande poetessa Alda Merini proprio nel giorno del suo compleanno lanciando il Premio Casa Museo Alda Merini. Ideato e organizzato dall’associazione culturale La Casa delle Artiste che gestisce la Casa Museo di via Magolfa, il Premio verrà presentato proprio lunedì 21 nella Casa Museo con l’apertura ufficiale del bando e il reading di “Sono nata il ventuno a primavera”.

Il premio letterario, alla sua prima edizione, avrà portata e risonanza nazionale: verranno coinvolti e parteciperanno poeti di ogni nazionalità (senza limiti di età – partecipazione gratuita) Continua

“Alla fine è la parola” che fa sopravvivere agli esili.

Alla fine è la parolaGiulio Gasperini
AOSTA – Hilde Domin ha trascorso la sua vita in fuga, migrando di città in città, di nazione in nazione; di cultura in cultura: dalla Germania dei suoi padri ebrei a Roma e Livigno, dall’Inghilterra alla Repubblica Dominicana. La sua produzione poetica, fiorita negli anni di questo lungo esilio, fu per lei il tentativo concreto di difendersi dalla disgregazione e dall’ansia della persecuzione. Del Vecchio Editore ha intrapreso il Progetto Domin, la ripubblicazione delle sue poesie più interessanti e significative; nella collana Poesia è uscito, per questo, nel 2013, “Alla fine è la parola / Am Ende ist das Wort”. Questa antologia poetica raccoglie i componimenti più significativi e potenti delle sue raccolte, in particolare da “Solo una rosa a sostegno” e “Rientro delle navi”.
La lontananza è la materia feconda della tensione poetica della Domin, l’addio e l’abbandono ne sono costanti alimenti: “Scherziamo con gli addii, / collezioniamo lacrime come biglie / e proviamo se i coltelli tagliano”. Il verso della Domin è breve, estremamente asciutto, fiorito di parole quotidiane e piane, dense di significati e di prospettive: “Alla fine è la parola, / sempre / alla fine / la parola”. Una parola che, però, è costantemente frustrata dalla transumanza, dal percorrere terre straniere, dove si parlano altre parole, dove i concetti sono magari gli stessi ma incomprensibili a un primo ascolto: “Di dimora in dimora / oblio. / Il tuo nome / diventa qualcosa di estraneo”. La sua condanna è inesorabile, manca di difesa concreta: “Sono la straniera, / che parla la loro lingua”.
Tra le figure poetiche più intense ci sono sicuramente gli alberi, che si concretano come fondanti correlativi oggettivi: ogni diversa specie, attentamente nominata e individuata, ha un valore e un significato particolare, dalla distanza alla dimenticanza, dal ricordo al bisogno di vita: “Sono stata qui. / Passo, / senza traccia. / Gli olmi sulla strada / mi fanno cenno al mio arrivo, / un saluto d’oro verdeblu / e mi dimenticano / prima che vada oltre”. L’esistenza è, per Domin, leggera e senza peso, quasi volesse non provocare il minimo rumore, il più inatteso fastidio: “Prendi in mano una candela / come nelle catacombe, / la piccola luce respira appena”; anche in amore: “Il tuo nome sulle mie labbra, / sempre ai bordi dell’urlo, / non deve cadere a terra”.
Suo desiderio ultimo è sentirsi a “casa”, nutrendo il bisogno intimo di una terra con la quale poter avere un legame di profonda corrispondenza intima: “E da ciò riconosci / che qui / sei un po’ più / a casa / che in altri luoghi”. Hilde Domin ha, allo stesso tempo, bisogno di un forte ancoraggio a una terra che sia luogo definitivo (“Costruiscimi una casa”; “Le stanze in cui metterò le rose / perché ci sia qualcosa di mio”) ma conosce anche il bisogno di saper individuare, nelle lontananze, delle immagini comuni, delle esigenze universali: “Ovunque il fieno / accatastato in modo diverso / ad asciugare / sotto lo stesso / sole”.
Il ritorno è la sua ansia, la sua più forte tensione emotiva: “Vado / verso un’isola senza porto, / butto in mare le chiavi / già alla partenza. / Non arrivo da nessuna parte. / La mia vela è come una ragnatela al vento, / ma non si strappa. / E oltre l’orizzonte, / dove i grandi uccelli / asciugano le ali al sole / alla fine del volo, / c’è una terra / dove mi si deve accettare / senza passaporto, / con l’avvallo delle nuvole”. Se il migrare coatto, costretto, ha in sé un’idea struggente di vergogna (“Chi ha pianto sulla soglia di casa / come neanche un mendicante straniero. / Chi ha passato le notti sulle assi / a fianco del proprio campo. / Chi ha pregato i morti / di distogliere lo sguardo dalla sua vergogna”), il ritorno nutre in sé la scintilla della felicità: “Tu non sali. / La felicità non è un aereo, / non ha orari / né aeroporti. / È un grande uccello / che ne accoglie uno piccolo / sotto le sue ali”. Perché spesso ogni migrazione è, in realtà, un doloroso esilio.

La natura enigmatica e l’insondabile uomo.

Giulio Gasperini
ROMA – Più enigmatico di Bashō e, in un certo senso, più metafisico fu Buson. Nelle sue “Poesie” (Acquaviva, 2004) gli eventi naturali, gli scorci e gli spaccati di spontaneità colta, non sono così chiari, non son soggetti a una facile lettura. Ogni volta paiono caricarsi di valori altri, più oscuri e profondi di quanto non potrebbero accidentalmente parere: “La tenebra è così fonda / che si può persino sentire la neve / sfaldarsi”. In questa cornice, l’uomo diventa anch’esso più enigmatico e problematico, mai chiaro né semplice da risolvere e la natura finisce per diventare un mero espediente, privandosi della sua carica propulsiva: “Mi diverto a dipingere / un ventaglio da niente / con la linfa dell’erba”. Ma la natura sa essere anche protagonista, in un doppio ruolo che in Buson si fa addirittura stridente, per l’ampio potere di cui è dotata; la natura, infatti, sa anche nobilitare e soggiogare coi suoi incantesimi irresistibili: “Che luna meravigliosa, / il ladro si ferma / e canta”. È una natura che sa tracimare, che sa invadere tutti gli ambiti dell’uomo, regalando la sua magia dovunque, comunque, a chiunque: “Le rondini, / sotto le grondaie dei castelli, / sotto i tetti dei tuguri”. Sa persino la natura, in qualche caso, costituirsi panteismo inscindibile: “Pioggia d’autunno, / anche l’anima dell’uomo / se ne diventa una goccia d’acqua”.
Buson fu pittore eccellente e la continua e multipla sollecitazione sensoriale si fa evidente nei suoi haiku, che si materializzano come leste pennellate di colore, di corposa tinta: “Cadono i fiori di ciliegio / sulle acque delle risaie, / stelle in una notte senza luna”. Gli attimi si cristallizzano con una potenza sensoriale che forse mai prima di lui in queste schegge di componimenti era stata raggiunta: “Vento di primavera, / gli alberi di pesco / fremono di gemme”. Qualche astrattismo (“Il pesco d’inverno, / sembra uno spettro / arrabbiato”) e surrealismo (“Vorrei avere in mano / una farfalla, / come in un sogno”) poetico e pittorico anima la sua visione della natura e del mondo, in un connubio artistico che in lui manifesta pienamente i possibili punti di tangenza. Il viaggio anche per Buson è una condizione d’esistenza imprescindibile, irrinunciabile, che si può caricare di valenze complesse, fin anche opposte: “Guardo il fiume d’estate, / con i sandali in mano / son felice”.
Più dolente la poesie di Buson, più consapevolezza del tempo che passa e che passando priva l’uomo di opportunità, confinandolo nelle effimere consolazioni della memoria e del ricordo: “Ieri è già andato / oggi se ne va, / s’incammina via pure la primavera”. Più dolente la nota della solitudine, che si connota di riflessi quasi amari, come di un abbandono che non sia ricercato ma imposto, soprattutto quando si ricordano i vecchi affetti trascorsi: “Nella mia camera / calpesto il pettine che fu una volta / di mia moglie, un morso affonda nella mia carne”. E mentre l’attesa si fa vana, il rimpianto può avvelenare l’animo: “Sento lontano i rumori dei passi / sulle foglie morte / di chi sto aspettando”.

E se l’uomo non fosse nient’altro che natura?

Giulio Gasperini
ROMA – La magia dell’haiku non è quantificabile nella sua semplice definizione. Un componimento breve, che parte da uno spunto naturale, e si configura in diciassette sillabe suddivise in tre versi: prima cinque poi sette poi cinque. La magia dell’haiku è data dal suo genuino potere di cogliere la scintilla, di cristallizzare il momento dell’energia e concretarlo lì, sulla carta, imprigionandolo nelle sillabe e modellando un ricordo che sia valido a discapito del luogo e dello scorrere del tempo. Bashō fu forse il più grande scrittore di haiku: la storia lo racconta e lo certifica la critica. Fu quello più legato alla natura e ai suoi impulsi poetici. Nelle sue “Poesie”, pubblicate nel 2003 dalla coraggiosa casa editrice pugliese Acquaviva, gli animali e le piante sono l’elemento imprescindibile della provocazione sensoriale, e diventano vettore trainante dell’intima scoperta umana: “È in fiore / il ciliegio centenario. / Il vecchio ricorda”.
La natura diventa anche il setting privilegiato per la scoperta, che avviene nella quotidianità più estrema ma che narra una storia più universale: “Mangiando ai piedi dell’albero / sulla minestra e sul piatto di pesce / cadono i petali di ciliegio”. La comunione tra uomo e natura è totale e non ammette deroghe né torti: “Io sono un uomo / che mangia il suo riso / in mezzo alle campanule”. Ma la natura trasmette soltanto calma e quiete, dolcezza e tranquillità. La natura è anche il luogo del dolore, che trova però sempre il modo di esser sublimato e, in un certo senso, arricchito di possibilità, di alternative: “In morte di un mio amico poeta // Scuotiti, tomba. / Il vento d’autunno / è la voce del mio lamento”. Perché la poesia Basho la ricerca nella vita quotidiana, appunto. La ritrova voltando lo sguardo, cogliendo gli aspetti della vita più semplice e pura: “Ah, come sto bene! / Ieri mi è passato ogni malore / dopo una zuppa di pesce palla”. E la ritrova, soprattutto, là dove la creatività umana e la potenza della natura si incontrano e, incontrandosi, riescono a unirsi e far gemmare qualcosa di speciale, di genuino: “L’inizio dell’arte: / la profondità della campagna / e una canzone piantando il riso”. Nella natura Bashō ritrova tutti i componenti dell’uomo, trova la possibilità d’una continua sorpresa, la promessa dell’inaspettato: “Sono stanco / e entro in una bettola. / Ci trovo fiori di glicine”. Trova persino una traccia perduta dell’amore, un desiderio rimasto incompiuto e chissà se mai avverabile: “Verrà quest’anno / la neve / che contemplai con te?”.
Sa bene, Bashō, che la poesia nacque con l’uomo, e che l’uomo con la poesia crebbe fino a superare sé stesso nelle sue previsioni, nei suoi intenti. Sa bene, Bashō, che la vita è una ricerca, un continuo esplorare per cambiare, nel tentativo ultimo di migliorare: “L’anno se ne va / mentre anch’io mi metto il cappello / e mi calzo le ciabatte di paglia”. Sa però ugualmente bene, Bashō, che la ricerca è solitudine, e che in solitudine si compie il viaggio: “Grande luna! / Ho vagato intorno allo stagno / per tutta la notte”. Ecco allora che gli ultimi suoi versi mai composti sono il suo testamento, la teorizzazione suprema di tutta la sua eterna ricerca, poetica e umana: “Ammalato nel mio viaggio / il mio sogno se ne va da solo / per le pianure desolate”.