Giulio Gasperini
ROMA – Più enigmatico di Bashō e, in un certo senso, più metafisico fu Buson. Nelle sue “Poesie” (Acquaviva, 2004) gli eventi naturali, gli scorci e gli spaccati di spontaneità colta, non sono così chiari, non son soggetti a una facile lettura. Ogni volta paiono caricarsi di valori altri, più oscuri e profondi di quanto non potrebbero accidentalmente parere: “La tenebra è così fonda / che si può persino sentire la neve / sfaldarsi”. In questa cornice, l’uomo diventa anch’esso più enigmatico e problematico, mai chiaro né semplice da risolvere e la natura finisce per diventare un mero espediente, privandosi della sua carica propulsiva: “Mi diverto a dipingere / un ventaglio da niente / con la linfa dell’erba”. Ma la natura sa essere anche protagonista, in un doppio ruolo che in Buson si fa addirittura stridente, per l’ampio potere di cui è dotata; la natura, infatti, sa anche nobilitare e soggiogare coi suoi incantesimi irresistibili: “Che luna meravigliosa, / il ladro si ferma / e canta”. È una natura che sa tracimare, che sa invadere tutti gli ambiti dell’uomo, regalando la sua magia dovunque, comunque, a chiunque: “Le rondini, / sotto le grondaie dei castelli, / sotto i tetti dei tuguri”. Sa persino la natura, in qualche caso, costituirsi panteismo inscindibile: “Pioggia d’autunno, / anche l’anima dell’uomo / se ne diventa una goccia d’acqua”.
Buson fu pittore eccellente e la continua e multipla sollecitazione sensoriale si fa evidente nei suoi haiku, che si materializzano come leste pennellate di colore, di corposa tinta: “Cadono i fiori di ciliegio / sulle acque delle risaie, / stelle in una notte senza luna”. Gli attimi si cristallizzano con una potenza sensoriale che forse mai prima di lui in queste schegge di componimenti era stata raggiunta: “Vento di primavera, / gli alberi di pesco / fremono di gemme”. Qualche astrattismo (“Il pesco d’inverno, / sembra uno spettro / arrabbiato”) e surrealismo (“Vorrei avere in mano / una farfalla, / come in un sogno”) poetico e pittorico anima la sua visione della natura e del mondo, in un connubio artistico che in lui manifesta pienamente i possibili punti di tangenza. Il viaggio anche per Buson è una condizione d’esistenza imprescindibile, irrinunciabile, che si può caricare di valenze complesse, fin anche opposte: “Guardo il fiume d’estate, / con i sandali in mano / son felice”.
Più dolente la poesie di Buson, più consapevolezza del tempo che passa e che passando priva l’uomo di opportunità, confinandolo nelle effimere consolazioni della memoria e del ricordo: “Ieri è già andato / oggi se ne va, / s’incammina via pure la primavera”. Più dolente la nota della solitudine, che si connota di riflessi quasi amari, come di un abbandono che non sia ricercato ma imposto, soprattutto quando si ricordano i vecchi affetti trascorsi: “Nella mia camera / calpesto il pettine che fu una volta / di mia moglie, un morso affonda nella mia carne”. E mentre l’attesa si fa vana, il rimpianto può avvelenare l’animo: “Sento lontano i rumori dei passi / sulle foglie morte / di chi sto aspettando”.
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