Il pericoloso “circo” della Truffa

Luigi Scarcelli
Parma – Alzi la mano chi, alla parola truffa, non pensa alla scena del film TOTO’TRUFFA ’62 in cui il celebre attore napoletano tenta di vendere ad uno sprovveduto turista italoamericano la Fontana di Trevi. Un modo comico di rappresentare un reato molto presente nella nostra società, forse perché è una distorsione dell’arte di arrangiarsi di cui noi italiani siamo maestri.

Lo scrittore Giuseppe D’Alessandro, avvocato esperto prevalentemente di materia penale e responsabilità professionale, ha voluto riprendere lo stesso tono ironico di quel film per raccontare il mondo della truffa nostrana nel libro “Truffe, truffati e truffatori”, pubblicato da Angelo Colla Editore.

 

Il libro è diviso in capitoli a seconda del tipo di truffa trattato (immobiliare, di gioco, a sfondo sessule…) permettendo al lettore di iniziare la letture in maniera “arbitraria” dal capitolo contente l’argomento più di suo interesse.
Ogni truffa viene descritta tramite una lunga serie di casi reali presi da sentenze o dalle cronache giornalistiche. La scrittura è volutamente ironica e affronta in tono leggero, ma comunque informativo, un problema molto presente nella società moderna.  Gli esempi descritti, come detto, sono molti e forse in qualche punto l’autore avrebbe potuto soffermarsi in maniera più dettagliata su un numero minore di casi in modo da dare più “respiro” alla lettura. Il risultato comunque  è molto buono dato che la scelta stilistica si sposa bene al tema della truffa che di per se è tragicomico.
Quello che scaturisce dal libro è un mondo fatto di astuzie, ingenuità, malizia e soprattutto furbizia, anzi  mi si passi il termine “furbettizia” riferendomi a quel tipo di furbetti tanto di moda nel nostro Paese che cercano in maniera scorretta o sleale di aggirare ostacoli di qualsiasi tipo allo scopo di trarne un vantaggio personale. Il bello è che i furbetti non sono solo i truffatori, ma anche i truffati stessi, che abboccano a promesse di facili “guadagni” di qualsiasi tipo rimanendo vittime della loro stessa ingordigia da finti “dritti”.
L’autore descrive prevalentemente casi dell’epoca recente, soffermandosi anche in paragoni con sentenze per truffa dell’inizio del secolo scorso. Il lettore potrà notare la palese differenza di gravità tra quelle che erano considerate (e punite come tali) le truffe negli anni ’30 (ad esempio il caso di una persona condannata nel 1933 per il “riutilizzo” di una busta per lettere affrancata) e quelle di oggi. Se ciò sia dovuto ad un profondo cambiamento della nostra mentalità e del nostro stile di vita (magari più egoistico e smaliziato) o solo al diverso sistema giuridico dell’Italia di allora (ricordiamo che si parla dell’Italia Fascista) può essere un ulteriore spunto di riflessione per il lettore di questo libro, che non mancherà di far riflettere sorridendo.

“Delitto a Villa Ada”, il movente poetico di un omicidio

ROMA “E più sono intelligenti più sono pericolosi, creda a me che li conosco. Quello che è successo a Villa Ada si spiega solo così”. 

A differenza di tutti quelli che a Villa Ada ci vanno solamente per la corsa mattutina, Vasco Sprache nella villa ci vive e lo fa come un barbone. Nonostante sia un poeta conosciuto e un uomo di bell’aspetto, Sprache ha fatto del parco la sua casa e personalizza i viali appendendo agli alberi le sue poesie. Un giorno, però, viene ritrovato morto. Da questo delitto partono le indagini del commissario Sperandio, figlio di professori universitari e ultra quarantenne con il pallino per la poesia. Sperandio, infatti, è tra coloro che tutte le sere, dopo lavoro, si dedicano a comporre versi e la mattina, prima di recarsi a lavoro, con qualsiasi clima, si reca a Villa Ada per correre. E Sperandio conosce bene il parco e i suoi anfratti e, attraverso gli interrogatori per scoprire il colpevole del delitto, conosce anche tutti coloro che corrono e hanno un qualche rapporto con la poesia. Tra questi c’è Giorgio Manacorda, il professore universitario in “odore di nobel” che ha ritrovato il cadavere di Vasco Sprache.

 

Giorgio Manacorda in “Delitto a Villa Ada” – pubblicato da Voland – diventa personaggio, maggior indiziato per l’omicidio e forse vittima anche lui di un mistero che si gioca sul filo del verso poetico.

La trama del racconto è avvincente e il libro si dipana fino all’ultima pagina arricchendosi di colpi di scena e rimandi letterari (i nomi degli indiziati sono i cognomi di poeti italiani celebri, l’amicizia dell’autore con Pasolini, il ruolo “banalizzato” della poesia e lo scontro perenne tra ispirazione poetica e qualità letteraria). Autoironico e irriverente è Manacorda che scrive una favola noir dalle sfumature linguistiche e stilistiche degne del suo nome e del suo personaggio anche fuori dal romanzo.

“VerbErrando”: The sound of silence

                                           Veruska Armonioso
ROMA
“La mia capanna è nascosta
in una foresta profonda, di anno in
anno sempre più impenetrabile.
Non uno dei rumori del mondo
mi giunge se non, talvolta, il canto
lontano di un boscaiolo.
Quando splende il sole, mi rattoppo
il vestito.
Al chiaro di luna, leggo poesie.
Se mi è consentito un consiglio:
non perdete la vita a correre
dietro a tante inutili cose”
Ryokan

Avevo considerato per anni la mia vita come palco della mia essenza e le mie parole come manifestazione della mia vita, della mia intimità e della mia anima. Il mio percorso, le mie scelte, le mie paure, le mie forze, non provenivano che dal mio esperienziale e da un’eredità trans-generazionale che mi portavo dietro come una sorta di appendice invisibile, un joy stick che  comandava i miei movimenti e le mie azioni. La mia vita era il mio paradigma e la mia mente era la mia maestra. Io potevo comandare con la razionalità ogni passo ed elaborarlo, intimamente guidata dalla saggezza della ragione ed esprimerlo con parole, all’occorrenza ferme e ponderate o vivaci e appassionate. Niente poteva interferire tra me e questo processo di esternazione, io avevo il controllo pieno e completo delle mie emozioni e della mia mente e niente sarebbe andato diversamente da come io avrei progettato per me. Avevo vent’anni.
Poi terminarono relazioni, rapporti di lavoro, famiglie. Cambiai case, uffici, letti, e scoprii le paure e che quello che mi portavo dentro non proveniva solo da me, che non era influenzato solo da me. “Devo aver vissuto altre vite, altrimenti perché tanto spavento? Le esistenze anteriori sono l’unica giustificazione del terrore. Solo gli orientali hanno capito qualcosa dell’anima[…] Espiamo in una sola vita il divenire dell’infinito.” (Cioran, “Lacrime e Santi”).  Questo era quello che Cioran mi aveva suggerito e di cui mi ero lasciata convincere. Così avevo cominciato a pensare che doveva esserci qualcosa al di fuori di me o al di là di me, fosse anche una me antecedente o parallela, che influenzava tutte quelle paure che possedevo e che non avrebbero avuto ragione di essere se fosse dipeso solo dalla me “presente”. 
Negli ultimi anni, però, una nuova paura era entrata a farsi largo. Questa paura, che non rappresentava più terrore verso qualcosa o verso qualcuno, inquietudine di vivere o di morire e nemmeno ansia di perdere qualcosa o qualcuno, era una paura inedita e, quindi, più spaventosa. Io avevo paura di essere derubata e temevo di incontrare sul mio cammino o, peggio ancora, di accogliere nella mia vita, dei ladri.
Era strano per me possedere questa paura, perché il furto era qualcosa di cui non mi ero mai curata molto. Capitava sovente che mi lasciassi derubare di qualcosa e, pur accorgendomene, decidevo di non oppormi. Mi ero accorta che ciò di cui venivo derubata cresceva progressivamente di valore;  dapprima erano cose di poco conto tipo il tempo o favori, poi erano diventate cose sempre più preziose come il sorriso, le notti, fino ad arrivare al sonno, ai sogni e, infine, la speranza. I fantomatici “ladri” avevano sempre più approfittato di questa disponibilità-noncuranza e io li avevo lasciati fare, pensando di essere ricca abbastanza per provvedere, all’occorrenza, alle indigenze altrui e restare, comunque, a pancia piena. Fu, però, quando mi accorsi di non riuscire più a sperare in qualcosa che cominciai ad avere paura: l’indigente, adesso, ero io, a me non era rimasto niente, si erano portati via tutto. Così, costruii una fortezza dentro la quale mi barricai, senza un piano ben preciso, ma con il fermo intento di diventare irraggiungibile e, quindi, non farmi portare via più niente di ciò che mi era rimasto.
Ero ripartita con poco: qualche ambizione, un mezzo bicchiere di entusiasmo e un sacchetto da mezzo chilo di silenzio. Il silenzio era diventata la mia partenza. Con questi presupposti era molto  facile restare da soli, ma non ne soffrivo perché ero disposta a restare senza persone pur di non restare più senza le ultime ricchezze che possedevo. Le parole erano un valore ed erano quanto di più prezioso mi fosse rimasto, così decisi di trattenerle dentro di me e di non usarle se non quando fosse davvero indispensabile. Come diceva Sandor Marai, chi avesse voluto comunicare con me, lo avrebbe potuto fare in un altro modo, in un modo nuovo.  “Si può entrare in contatto con le persone anche senza parlare.[…] c’è un modo di entrare in contatto tra esseri umani più percettivo e affidabile della parola, fatto di sguardi, silenzi, gesti e messaggi ancora più sottili; è il modo in cui un essere umano nel suo intimo risponde al richiamo di un altro, quella silenziosa complicità che nel momento del pericolo dà alla muta domanda una risposta più inequivocabile di qualsiasi confessione o argomentazione, e il cui senso è semplicemente questo: io sono dalla tua parte, anch’io la penso così, condivido la tua preoccupazione, noi due siamo d’accordo…”  (Sandor Marai, “Liberazione”)
Poi, accadde l’imprevedibile, perché “Le anime hanno un loro particolar modo d’intendersi, di  entrare in intimità, fino a darsi del tu, mentre le nostre persone sono tuttavia impacciate nel commercio delle parole comuni, nella schiavitù delle esigenze sociali” . (Luigi Pirandelo, “Il fu Mattia Pascal”)
Qualcuno, zitto come me, cominciava ad affacciarsi e insieme a me restava zitto, cercando nuovi codici e nuovi modi per “entrare in intimità”. Così scoprivo che le mie paure erano anche le paure degli altri, che la paura di essere derubati è la più comune, ma è anche la meno facile da individuare. Che una volta che la scopri, cominci a vedere ladri ovunque. Ma scoprivo anche che se si ha paura di essere derubati, difficilmente si sarà in grado di rubare e, quindi, se si incontra qualcuno che ha paura di essere derubato, facilmente potrà essere un donatore e lo potrai lasciare  entrare. Scoprivo che la mia mente poteva essere la mia maestra, ma che senza le mie paure non avrei imparato niente e che la paura era l’alleata più importante che avessi e che l’avrei sempre dovuta tenere vicino a me.
E così ricominciai a parlare. Perché le parole sono importanti. E ricominciai a parlare a voce alta, perché i suoni devono essere echi. E non ebbi più paura di parlare a tutta la gente, perché le parole, le mie parole, erano mie, anche se qualcun altro se ne fosse appropriato.
Perché se capisci che l’unica cosa che ti serve davvero per vivere non può essere rubata, i ladri non esistono più.
Fu così che mi aprii di nuovo alla vita.
“Avendo vissuto in solitudine e nella più totale indigenza, avendo rifuggito gli onori e gli intrighi della vita mondana, Ryokan divenne il monaco zen più celebre del suo tempo. Le sue calligrafie sono conservate nei musei, le sue poesie fanno parte di tutte le antologie. Ed ecco come gli fu ispirata la sua poesia più famosa.
In una fresca notte d’autunno, Ryokan dormiva sul suo eremo di Goggò-an. Svegliato da una ventata gelida, si accorse che la sua coperta era scomparsa. Alla  luce madreperlacea della lune che rischiarava l’interno della capanna, scoprì che un ladro gli aveva portato via ogni cosa. […] Ryokan aveva capito che il ladro doveva trovarsi in un’indigenza ancora più grande della sua, visto che gli aveva trafugato anche la coperta rappezzata. Ma il Grande Idiota Misericordioso apprezzava sopra ogni cosa il poter contemplare l’astro notturno […] Allora, con un sorriso bonario, improvvisò questo haiku:
“Una cosa il ladro
Non ha potuto rubarmi:
la luna che splende alla mia finestra”  
(Pascal Fauliot, “Racconti dei saggi del Giappone”)

VerbErrando: Produci, consuma…

Veruska Armonioso
ROMA
– Produci. A trentaquattro anni per una lavastoviglie in cucina.
Lavaggio eco, che ti fa sentire meno colpevole ogni volta che pigi on.
Produci. A trentaquattro anni per un lavoro a tempo indeterminato che ti permetta
di andare al cinema e a mangiare la pizza il sabato sera. Multisala a Cinisello Balsamo,
che prima era una campagna con la latteria che vendeva i formaggi di mula e adesso è una città lego piena di pizzerie bio, con ingredienti a chilometri zero, a lievitazione zero, a farina zero, a prezzi zero, eat as you can.
Produci. A trentaquattro anni per accendere un mutuo per avere la tua casa di proprietà, un’Ici da pagare, degli interessi e delle rate di mobili presi da Ikea, che giusto in una casa tua possono entrare, visto che sai di non poterli smontare mai più dopo aver girato l’ultima vite.
Produci. Figli che saranno persone qualunque, che masticano gomme a bocca aperta e ti digeriscono in faccia, ridendoci su, ‘ché tanto mica hanno ucciso nessuno che si devono vergognare.
Produci. Cambiamenti continui e perituri, psicotici, confusi. Geografici, sentimentali, di stile, di abbigliamento.
Produci. Calcare mentale, di quello che ti necrotizza il grigio delle giornate, il grigio dei ricordi, il grigio della materia.
Produci. Distruzioni. Interne, come diceva Yates in Bugiardi e InnamoratiDentro ognuno di noi- e nello spazio tra i nostri corpi e le nostre storie, ovvero in quella cosa che si chiama legame- non si dà altro che disgregazione”.
Produci. Legami, come “sostanze fisiologicamente agoniche e disgregate” perché, del resto, l’uomo è questo: “una cosa che ci illude per deluderci, un grumo, una mistura, un ordigno prepotente e fragilissimo che deve di continuo difendersi da sé stesso inventandosi miraggi e divagazioni”.  “Tutti straordinari fabbricatori di abbagli.”[1]
Produci. Misericordia e compassione, autoassoluzione e Viagra.

Consumi. A trentaquattro anni l’idea come concetto. L’ideale come motivazione. L’azione come conseguenza.
Consumi. A trentaquattro anni la fame di un’appartenenza, unica, solida, imperitura.
Consumi. A trentaquattro anni la speranza come “rischio da correre”.
Consumi. La parola. Come la voleva Majakovskij…che “… esploda nel discorso come una mina e urli come il dolore di una ferita e sghignazzi come un urrà di vittoria”.
Consumi. Lo spirito e le tradizioni. Che Yukio Mishima cercava di tenere saldi addosso a sé come valori supremi: “Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! E’ bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore  all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! E’ il Giappone! E’ il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.”[2]
Consumi. L’eroismo. Perché, come diceva David Foster Wallace ” … il vero eroismo non riceve ovazioni, non intrattiene nessuno. Nessuno fa la fila per vederlo. Nessuno se ne interessa”[3].

Crepa. Vladimir Vladimirovič Majakovskij, per amore non ricambiato.
“A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle e Veronika Vitol’dovna Polonskaja. Se farai in modo che abbiano un’esistenza decorosa, ti ringrazio. […] Come si dice, l’incidente è chiuso. La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici”[4].

Crepa. Yukio Mishima, per patriottismo tradizionalista.
“La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”[5].

Crepa. David Foster Wallace, per depressione.
“La persona che ha una così detta “depressione psicotica” e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette per sfiducia o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. Eppure nessuno di quelli in strada che guardano in su e urlano “No!” e “Aspetta!” riesce a capire il salto. Dovresti essere stato intrappolato anche tu e aver sentito le fiamme per capire davvero un terrore molto peggiore di quello della caduta.”[6]

Produci, consuma e crepa. Lo dicevano ventisette anni fa i CCCP in Morire.
In sostanza di questo si tratta. Che tu viva per la pizza del sabato o per ideali romantici, che tu combatta ogni giorno o nessuno, che te ne accorga oppure no, produrrai e consumerai sempre qualcosa e sempre, ineludibilmente, morirai. L’unica differenza la farà la volontà, di mettere fine a una vita per tua scelta o di attendere che faccia da sé. Nessuna morale o presa di posizione, semplice cronaca.
E per chi si domandasse da che parte sto, io non sto da nessuna delle due.
Io sto nell’accettazione. Della sconfitta e dei cambiamenti.


[1] Yeats “Bugiardi e Innamorati”, Minimum fax 2011

[2] Discorso prima del suicidio rituale, Tokyo 25 novembre 1970

[3] Il re pallido, Einaudi – Stile libero 2011

[4] Biglietto di addio di Majakovskij.

[5] Biglietto di addio di Mishima.

[6] Infinite Jest, Einaudi – Stile libero 1996