“I nipoti di Scanderbeg”, verso l’Italia, alla ricerca dell’America.

Giulio Gasperini
AOSTA – Era il 1991. A marzo ne giunsero 27.000. Ad agosto 20.000 tutti su una sola nave partita da Durazzo. In quei pochi mesi la Puglia, e Bari in primo luogo, furono il teatro di uno sbarco di massa. Tanti albanesi, soprattutto giovani uomini, fuggivano dalla loro patria, perseguitati dalla mancanza di libertà, dal bisogno di un lavoro, dalla povertà asfisiante prodotta da anni di repressione di Enver Hoxha e del suo regime. Artur Spanjolli si trovava su quella nave, la Vlora, conquistata nel porto di Durazzo, che rappresentava una breccia inattesa per partire dalla disastrata Albania con nei pensieri soltanto l’Italia, l’Europa, la libertà e la ricchezza. In “I nipoti di Scanderbeg”, edito dalla coraggiosa casa editrice Salento Books, Artur Spanjolli ricostruisce quel lontano giorno d’estate, quando si trovava con gli amici in spiaggia, in pantaloncini e ciabattine, ignaro del destino che avrebbe provato a forzare, intraprendendo una rotta difficile e nemica.
L’Italia, per molti anni, dall’altra parte dell’Adriatico, era stata immaginata come l’America. Il luogo dove tutti i sogni si realizzano; dove si mangia; dove si diventa ricchi; dove si può pensare a un domani migliore. Dove poter fuggire un destino avverso e crudele. La televisione, i programmi con Pippo Baudo, le ostentazioni di merci e prodotti: chi potrebbe resistere a insistenti canti di sirene? A perfette e sfacciate fate morgane? Quelle che nel deserto allettano (e ingannano) gli assetati. In tanti partono, sfidando prima di tutto l’esercito albanese, poi le loro ansie, le paure; abbandonando gli affetti, la sicurezza dei parenti, la familiarità del suolo natio. L’esilio è il destino di tanti: decisione sofferta e dolorosa, frustrante e selvaggia. L’incredulità ferisce, però, quando il tentativo non riesce e dall’altra parte c’è il rifiuto, il respingimento.
Perché così accadde in Italia, in quei lontani giorni assolati. E così minutamente lo descrive Artur Spanjolli nel suo romanzo che è crudele e amara autobiografia. L’Italia non li volle; il Governo, in ritiro estivo a Cortina (premier era Andreotti, tanto per cambiare), non seppe darsi coraggio e preferì contravvenire alle regole del diritto d’asilo: tutti imbarcati su un aereo, a turno, e riportati al loro paese, dalla geografia così vicina ma dalla vita sì remota. E non importava se tra i tanti albanesi ci fossero perseguitati politici, ragazzi in pericolo di vita, disperati senza nessuna prospettiva. Tutti dentro il ventre di un aereo e tutti di nuovo indietro. “I nipoti di Scanderbeg” fa riflettere su uno dei drammi più evidenti dello scorso secolo; instilla in noi il dubbio di cosa sia un’accoglienza vera, di quali siano i bisogni dell’uomo, di cosa si possa fare per rispondere. Artur Spanjolli non ha parole di condanna, per l’Italia. Quanto, piuttosto, di incredulità. Dov’è l’Europa? Dove la libertà? Dove i diritti? Dove la dignità umana? Dove la sicurezza, la protezione, il rispetto della vita? Accanto ai tanti gesti di umanità, a cui lui stesso assistette e ne fu il beneficiario, si schiera un campionario di assurdità: non ci si stupisce, però, che questi ultimi siano esclusivamente riferiti ai responsabili e ai detentori del potere. Politico, in primis.