Un cantico per chi viene definito straniero

Giulio Gasperini
AOSTA – Una vicenda strettamente locale e localistica ha fatto desiderare a Teresa Charles, insegnate di francese in pensione e, per qualche anno, Assessore regionale all’istruzione in Valle d’Aosta, di scrivere una sorta di pamphlet, dedicato ai migranti. In particolare, una rivolta da parte dei cittadini di un piccolo centro in Valle d’Aosta, Donnas, che hanno cercato di opporsi in ogni modo all’apertura di un Centro di accoglienza straordinario di una ventina di persone in una casa nel borgo. Il razzismo, il terrore immotivato, il pregiudizio, la xenofobia che si sono manifestati in maniera persino drammatica in quella piccola società sono stati la causa prima della stesura de Il cantico dei migranti, edito da End Edizioni – Edizioni non deperibili.
Nel suo pamphlet, la Charles attraverso venticinque punti, porta avanti un ragionamento serio e coerente su cosa significhino le migrazioni, cosa sia l’accoglienza e quali siano le forme possibili di integrazione.

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Yahya Hassan: la poesia violenta di un’identità.

foto-20Giulio Gasperini
AOSTA – È stata la raccolta poetica più venduta in Danimarca. Accanto ai nomi di Karen Blixen, di Søren Kierkegaard, di Hans Christian Andersen, Yahya Hassan ha imposto anche il suo, che campeggia deciso, bianco su fondo nero, sulla copertina della sua silloge (Rizzoli, 2014); che non ha titolo, tranne, appunto, il suo nome. Yahya Hassan è un palestinese, classe 1995, apolide. Il suo passaporto, adesso, è danese. Ma la sua storia è quella di un ragazzo in cerca di un’identità. Una ricerca feroce e tremenda, che lo ha portato in tante comunità adolescenti (“E quanti tutti sono stati picchiati e mandati nelle stanze / si beve il caffè”), separato dai genitori e dai fratelli, in una ribellione continua a una cultura di origine che oramai era lontana e a una cultura di arrivo che lo rifiutava e non lo accettava: “A scuola non si può parlare in arabo / a casa non si può parlare danese”.
Violando qualsiasi regola della netiquette, le poesie di Yahya sono tutti scritte in maiuscolo, quasi fossero gridate dalle pagine bianche. E quello di Yahya Hassan è proprio un grido, feroce, furioso: è una protesta indocile, cruda. L’umanità viene scarnificata, ridotta all’essenziale; e l’essenziale è violenza, spesso gratuita ma in ogni caso pare imprescindibile, irrimediabile. Yahya non si fa problemi nel raccontare aspetti cruenti e mortificanti: tra le righe è però evidente il disagio, il rischio dell’annichilimento, l’ostilità verso un modo precostituito e completamente attrezzato nel difendersi contro un nemico inesistente. Il conflitto con il padre (“Cinque figli in fila e il padre con la mazza”), l’ostilità verso una nuova madre con nuovi fratelli e sorelle (“Ma sua moglie dice / che non devo toccare i suoi figli”), diventa ben presto exemplum di un’ostilità rivolta all’autorità, che comanda e bastone, che impone e obbliga, piuttosto che cercare di comprendere ed armonizzare: “Altri educatori / spaccano il vetro e mi danno una ripassata”.
La lucidità di questo diciannovenne è incredibile, sbalorditiva: “E tu dici che vorresti / non fossimo mai nati”. Meglio di qualsiasi trattato di sociologia o antropologia riesce a coinvolgere il lettore, a trascinarlo in una serie di teorizzazioni (sotto forma di poesia, ovviamente) che riguardano la nostra epoca, i nostri nuovi anni Dieci. L’integrazione fallita, il rifiuto di un modello di meticciato, l’inesistente disponibilità all’accoglienza: “È così che si muove il traffico / fatto in un autobus fermo al rosso al Digterparken / un gruppo di negri scende a Søren Frichs Vej / oltre il ponte – un altro ghetto”; e, di conseguenza, il riaffermarsi di modelli autocratici e razzisti, l’incapacità di gestire l’alterità (“Lo psichiatra controlla a tutti la testa e il culo / e le bocche vengono riempite di psicofarmaci”), l’individuazione di un capro espiatorio che sia “l’altro”, il “diverso”, la minoranza debole e scarsamente difendibile: “13 anni e ricercato salgo su un treno per la Danimarca”.
Spesso, però, come si evince da queste poesie, è la stessa minoranza che non può fare a meno di sentirsi tale: circondata dall’odio, dal disagio dell’incontro, dall’ostilità più o meno aperta rischia di diventare referente di (e a) sé stessa. E di nuovo si richiude in forme ancora più crudeli di esclusione e precarietà: “Sono sonno senza sogni / come una spia in isolamento volontario”.

20 giugno: la giornata mondiale del rifugiato

Tutti indietroGiulio Gasperini
AOSTA – Non tutte le persone che attraversano i confini sono alla ricerca esclusiva di un lavoro. Alcune di loro scappano dalle violenze, dalla fame, dalle guerre; molti di loro scappano per non essere uccisi, torturati, violati. E non tutti coloro che scappano possono essere rifugiati o asilanti. Ma potrebbero aver solo bisogno di una protezione umanitaria. Tutti statuti riconosciuti da una convenzione internazionale, quella di Ginevra, sottoscritta nel 1951 e ratificata da 147 nazioni. Laura Boldrini, nel suo libro “Tutti indietro” edito da Rizzoli nel 2010, fa chiarezza sulla terminologia, perché spesso l’incomprensione è l’origine di molte intolleranze: clandestino, profugo, irregolare, rifugiato, immigrato, extracomunitario, richiedente asilo sono termini che non possono essere utilizzati come sinonimi.
Concepito e nato a seguito della decisione presa dal Governo Berlusconi, nel 2009, di respingere i migranti che approdavano sulle coste italiane, soprattutto di Lampedusa, “Tutti indietro” è la narrazione appassionata di una donna che è stata, per tanti anni, portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati in Italia. E in questa veste la Boldrini ha potuto conoscere storie e situazioni di grande sofferenza umana, di profondo dolore; storie – e testimonianze – di uomini in fuga da fame e carestie, ma anche dal pericolo di morte, di tortura; dalla mancanza assoluta di prospettive o di orizzonti più sicuri e definiti, stabili e sereni. Il testo della Boldrini, attraverso i tanti punti di vista, attraverso il racconto di assurdi contrasti diplomatici (ad esempio, tra Italia e Malta) e di inconcepibili lungaggini burocratiche (come il ritardato salvataggio dei migranti appesi alle reti dei tonni, nel 2008), diventa un vero e proprio j’accuse contro una politica governativa miope e discriminatoria, colpevole di violare i principi basilari della Convenzione di Ginevra del 1951, in particolar modo il principio cardine, quello del non respingimento: perché “richiedenti asilo e rifugiati sono portatori di diritti e in quanto tali devono essere trattati”.
La Boldrini, con un argomentare lucido ma agevole ricorda come lo status di rifugiato sia esistito fin dai primordi dell’umanità: “Già Edipo mostra come parallelamente all’esilio nacque l’asilo, cioè la protezione dello straniero perseguitato”. E di come anche Dante si lamentasse della sua condizione di esule, nel canto XVII del Purgatorio: “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”. Il campionario presentato nel libro è vario, popolato di storie diverse ma sempre convergenti verso un’unica finalità: quello di approdare sani e salvi in un paese che accolga e dove si possa essere protetti, anche per consegnare e regalare un futuro migliore ai propri figli. E la Boldrini fa pratica di vita nel centro di accoglienza creato a Lampedusa: “Un centro di accoglienza rappresenta una miniera di storie, di situazioni estreme che rischiano di passare sottaciute se, nella frenesia delle cose da fare, non si ha il tempo o la curiosità di ascoltare”.
Il messaggio che la Boldrini intende diffondere è semplice, chiaro, senza possibilità di fraintendimenti: “I rifugiati non ambiscono a vivere di assistenzialismo ma vogliono rifarsi una vita, lavorare e condurre un’esistenza normale”. Al sicuro dalla fame, dalle guerre, dalle violenze.

“I nipoti di Scanderbeg”, verso l’Italia, alla ricerca dell’America.

Giulio Gasperini
AOSTA – Era il 1991. A marzo ne giunsero 27.000. Ad agosto 20.000 tutti su una sola nave partita da Durazzo. In quei pochi mesi la Puglia, e Bari in primo luogo, furono il teatro di uno sbarco di massa. Tanti albanesi, soprattutto giovani uomini, fuggivano dalla loro patria, perseguitati dalla mancanza di libertà, dal bisogno di un lavoro, dalla povertà asfisiante prodotta da anni di repressione di Enver Hoxha e del suo regime. Artur Spanjolli si trovava su quella nave, la Vlora, conquistata nel porto di Durazzo, che rappresentava una breccia inattesa per partire dalla disastrata Albania con nei pensieri soltanto l’Italia, l’Europa, la libertà e la ricchezza. In “I nipoti di Scanderbeg”, edito dalla coraggiosa casa editrice Salento Books, Artur Spanjolli ricostruisce quel lontano giorno d’estate, quando si trovava con gli amici in spiaggia, in pantaloncini e ciabattine, ignaro del destino che avrebbe provato a forzare, intraprendendo una rotta difficile e nemica.
L’Italia, per molti anni, dall’altra parte dell’Adriatico, era stata immaginata come l’America. Il luogo dove tutti i sogni si realizzano; dove si mangia; dove si diventa ricchi; dove si può pensare a un domani migliore. Dove poter fuggire un destino avverso e crudele. La televisione, i programmi con Pippo Baudo, le ostentazioni di merci e prodotti: chi potrebbe resistere a insistenti canti di sirene? A perfette e sfacciate fate morgane? Quelle che nel deserto allettano (e ingannano) gli assetati. In tanti partono, sfidando prima di tutto l’esercito albanese, poi le loro ansie, le paure; abbandonando gli affetti, la sicurezza dei parenti, la familiarità del suolo natio. L’esilio è il destino di tanti: decisione sofferta e dolorosa, frustrante e selvaggia. L’incredulità ferisce, però, quando il tentativo non riesce e dall’altra parte c’è il rifiuto, il respingimento.
Perché così accadde in Italia, in quei lontani giorni assolati. E così minutamente lo descrive Artur Spanjolli nel suo romanzo che è crudele e amara autobiografia. L’Italia non li volle; il Governo, in ritiro estivo a Cortina (premier era Andreotti, tanto per cambiare), non seppe darsi coraggio e preferì contravvenire alle regole del diritto d’asilo: tutti imbarcati su un aereo, a turno, e riportati al loro paese, dalla geografia così vicina ma dalla vita sì remota. E non importava se tra i tanti albanesi ci fossero perseguitati politici, ragazzi in pericolo di vita, disperati senza nessuna prospettiva. Tutti dentro il ventre di un aereo e tutti di nuovo indietro. “I nipoti di Scanderbeg” fa riflettere su uno dei drammi più evidenti dello scorso secolo; instilla in noi il dubbio di cosa sia un’accoglienza vera, di quali siano i bisogni dell’uomo, di cosa si possa fare per rispondere. Artur Spanjolli non ha parole di condanna, per l’Italia. Quanto, piuttosto, di incredulità. Dov’è l’Europa? Dove la libertà? Dove i diritti? Dove la dignità umana? Dove la sicurezza, la protezione, il rispetto della vita? Accanto ai tanti gesti di umanità, a cui lui stesso assistette e ne fu il beneficiario, si schiera un campionario di assurdità: non ci si stupisce, però, che questi ultimi siano esclusivamente riferiti ai responsabili e ai detentori del potere. Politico, in primis.