Giulio Gasperini
AOSTA – È stata la raccolta poetica più venduta in Danimarca. Accanto ai nomi di Karen Blixen, di Søren Kierkegaard, di Hans Christian Andersen, Yahya Hassan ha imposto anche il suo, che campeggia deciso, bianco su fondo nero, sulla copertina della sua silloge (Rizzoli, 2014); che non ha titolo, tranne, appunto, il suo nome. Yahya Hassan è un palestinese, classe 1995, apolide. Il suo passaporto, adesso, è danese. Ma la sua storia è quella di un ragazzo in cerca di un’identità. Una ricerca feroce e tremenda, che lo ha portato in tante comunità adolescenti (“E quanti tutti sono stati picchiati e mandati nelle stanze / si beve il caffè”), separato dai genitori e dai fratelli, in una ribellione continua a una cultura di origine che oramai era lontana e a una cultura di arrivo che lo rifiutava e non lo accettava: “A scuola non si può parlare in arabo / a casa non si può parlare danese”.
Violando qualsiasi regola della netiquette, le poesie di Yahya sono tutti scritte in maiuscolo, quasi fossero gridate dalle pagine bianche. E quello di Yahya Hassan è proprio un grido, feroce, furioso: è una protesta indocile, cruda. L’umanità viene scarnificata, ridotta all’essenziale; e l’essenziale è violenza, spesso gratuita ma in ogni caso pare imprescindibile, irrimediabile. Yahya non si fa problemi nel raccontare aspetti cruenti e mortificanti: tra le righe è però evidente il disagio, il rischio dell’annichilimento, l’ostilità verso un modo precostituito e completamente attrezzato nel difendersi contro un nemico inesistente. Il conflitto con il padre (“Cinque figli in fila e il padre con la mazza”), l’ostilità verso una nuova madre con nuovi fratelli e sorelle (“Ma sua moglie dice / che non devo toccare i suoi figli”), diventa ben presto exemplum di un’ostilità rivolta all’autorità, che comanda e bastone, che impone e obbliga, piuttosto che cercare di comprendere ed armonizzare: “Altri educatori / spaccano il vetro e mi danno una ripassata”.
La lucidità di questo diciannovenne è incredibile, sbalorditiva: “E tu dici che vorresti / non fossimo mai nati”. Meglio di qualsiasi trattato di sociologia o antropologia riesce a coinvolgere il lettore, a trascinarlo in una serie di teorizzazioni (sotto forma di poesia, ovviamente) che riguardano la nostra epoca, i nostri nuovi anni Dieci. L’integrazione fallita, il rifiuto di un modello di meticciato, l’inesistente disponibilità all’accoglienza: “È così che si muove il traffico / fatto in un autobus fermo al rosso al Digterparken / un gruppo di negri scende a Søren Frichs Vej / oltre il ponte – un altro ghetto”; e, di conseguenza, il riaffermarsi di modelli autocratici e razzisti, l’incapacità di gestire l’alterità (“Lo psichiatra controlla a tutti la testa e il culo / e le bocche vengono riempite di psicofarmaci”), l’individuazione di un capro espiatorio che sia “l’altro”, il “diverso”, la minoranza debole e scarsamente difendibile: “13 anni e ricercato salgo su un treno per la Danimarca”.
Spesso, però, come si evince da queste poesie, è la stessa minoranza che non può fare a meno di sentirsi tale: circondata dall’odio, dal disagio dell’incontro, dall’ostilità più o meno aperta rischia di diventare referente di (e a) sé stessa. E di nuovo si richiude in forme ancora più crudeli di esclusione e precarietà: “Sono sonno senza sogni / come una spia in isolamento volontario”.
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