Giulio Gasperini
ROMA – “Torre dello Spavento”. Così era chiamata una delle torri che modellano il profilo contro il cielo della città di Aosta. Cambiò il suo nome in “Torre del Lebbroso” quando, comprata nel 1773 dall’Ordine Mauriziano, vi fu rinchiusa una famiglia ligure affetta da lebbra, affinché non entrasse in contatto con la cittadinanza aostana. L’ultimo a morire fu Pietro Bernardo Guasco: fu lui il modello per la figura de “Il lebbroso della città di Aosta” (“Le lépreux de la cité d’Aoste”), racconto edito nel 1817 da Michaud, a Parigi, e scritto da François-Xavier de Maistre, artista e personalità poliedrica, nato in Savoia. Lo scrittore conobbe personalmente il malato, ricreando codesta particolare situazione anche nella finzione narrativa: sicché “il lebbroso” dialoga con un soldato che, per caso, durante la Campagna delle Alpi (1797), si trovò a passare da Aosta e, per incauta curiosità, penetrò nel proibito giardino, sorprendendo un uomo respinto dal mondo.
Il malato viveva segregato tra le mura della sua torre, coltivando il suo giardino e cercando di rendere quella sua prigione il più bel angolo di mondo. Ma non si può essere felici in una prigione, con il peso dei propri dolori addosso, nel totale silenzio di voci e di confidenze; non ci si riesce quasi mai. L’unico affetto del lebbroso fu, per un periodo, la sorella, perché anche lei affetta dal medesimo virus. Il rapporto con lei era complesso e difficile: entrambi si amavano, ma riuscivano con estrema difficoltà a dimostrarselo. Era un sostegno fatto di piccoli gesti, di preghiere incessanti ma private, di dimessi sguardi e attenzioni premurose. Rimaneva, comunque, la difficoltà di superare il dolore, di vincere lo scoramento, di non lasciarsi sopraffare dall’assurda e inspiegabile domanda sul perché proprio a loro fosse toccato quel calvario.
È un racconto prezioso, quello di Xavier de Maistre. Perché ci fa riscoprire una scrittore brillante e dal suo tono tipico e particolare: è un racconto sulla solitudine e sulle sue complesse sfaccettature, perché dimostra come si possa essere violentemente soli anche in compagnia ma come, nel contempo, sia così difficile trovare una compagnia che colmi effettivamente la solitudine. Perché la solitudine non è soltanto quella fisica, quella della separazione, della segregazione, dell’allontanamento; la solitudine è anche quella più intima, quel senso di vuoto che difficilmente si colma, che lascia sempre voragini nella coscienza e che non permette, alla fine, di farsi conoscere come uomini completi. L’esclusione fa inasprire l’uomo e il grido di dolore del lebbroso è quello che provano tutti i reietti di una società ipocrita e superficiale: “Io non ho mai suscitato null’altro che la compassione!”; sicché l’esclusione diventa sconfitta, sia per chi la provoca che per chi la subisce.
De Maistre ci parla dell’isolamento, della fatica nel sopportarlo, della difficoltà dell’amore, della tristezza che si prova a sentirsi esclusi per una causa che non dipende dai noi stessi, ma per un accidente che nessuno vorrebbe attirare su di sé. Xavier ci parla di un’amicizia che dura il tempo di un dialogo; ci parla di un rapporto che si chiude con lo scatto di una serratura e che pare lasciare vuoti e soli più della solitudine furiosa.
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