Marianna Abbate
ROMA – L’Ilva non rispetta le regole sull’impatto ambientale. L’Ilva è la causa di infiniti tipi di morbi, patologie, formazioni cancerose e problemi respiratori. L’Ilva porta sulla tavola di tutta Taranto un piatto di pasta. Coperto da uno strato sottile di diossina. L’Ilva ti fa comprare la macchina nuova. Che importa se è coperta dal medesimo strato di diossina?
È la “grande contraddizione di Taranto” quella al centro del “Monologo metalmeccanico- Io e L’Ilva” di Giuse Alemanno. pubblicato da Lupo editore. Sì, perché da una parte l’Ilva è il male, dall’altra non si può vivere senza Ilva.
Che poi Ilva è un concetto vago, troppo generalista. Dentro il più grande stabilimento d’acciaieria d’Europa si snodano settori, reparti, calore, facce, tecnologie e arretratezze. Un microcosmo vivace e vivo, estremamente autoreferenziale agli occhi di Alemanno: “partigiani dei cazzi propri”. Gli operai hanno perso quel senso di comunità che li aveva resi forti nelle rivolte socialiste. Ognuno guarda il suo benessere, inclusi i sindacati che cercano l’accordo a tutti i costi, pur di guadagnarci una promozione e tanta tranquillità.
Eppure senza Ilva, il destino di Taranto sarebbe segnato. “C’è uno psichiatra in sala?” continua a chiedersi l’autore del monologo, in un misto di disperazione ed impotenza. Non c’è soluzione neanche agli occhi di quell’operaio acculturato, di quello che conosce tutte le questioni interne ed esterne, che è Giuse Alemanno.
Un vicolo cieco. Un enorme, bruciante, polveroso e ricco vicolo cieco.