Giulio Gasperini
AOSTA – Le famiglie sono un luogo inospitale. Le famiglie sanno essere dispotiche e tiranniche, anche laddove si notano amore e devozione. Le famiglie sono spesso alle base di ogni problematica si sviluppa negli individui con il trascorrere del tempo. Il primo romanzo della giovanissima Manuela Melissano, edito da Lupo Editore nel 2013, ne è una narrazione dettagliata: in “Alla ricerca di un cuore” una ragazza appena ventenne di Lecce parte per la Francia con l’obiettivo di ritrovare sua sorella, scomparsa quando era molto piccolo, della quale non si avevano più notizie.
Manuela Melissano cura la scrittura, costruisce solidi personaggi a tutto tondo, sviluppa una trama che tiene appassionati anche se cede, qualche volta, a una specie di rassicurante ingenuità. Gli incontri sono fondamentali perché rischiarano lo sviluppo della storia e lo fanno proseguire a ritmo sostenuto e determinato. Sono proprio i personaggi che si caratterizzano per spessore e determinazione, in un’umanità densamente e fittamente popolata ma che offre esempi di tutte le tipologie e di tutte le variabili. I legami e i rapporti sono analizzati e discussi, quasi passati sotto la lente di uno scienziato. Anatomizzati con la fredda lama di un bisturi.
La narrazione, anche se ancora un po’ acerba, prosegue compatta e si dà forza mentre lentamente la protagonista, Elisa, scopre l’assenza di una sorella mai conosciuta e si delineano i rapporti di gelosie e di vendette che avevano covato nella sua famiglia, sotto le ceneri, come un incendio mai domato. Quella di Elisa non è soltanto un’indagine fortunata ma anche una ricognizione nei luoghi del dolore che appartengono a ogni nucleo familiare, a ogni relazione umana, a ogni contatto e scambio di sentimenti. E tutta la narrazione viene inquadrata in una cornice narrativa ben più ampia, in cui la scrittrice (che è Manuela Melissano) viene spinta dallo “spirito” di Elisa (la narratrice) a raccogliere le sue memorie di questa storia tanto strana quanto ahimè potenzialmente comune.
La ricerca della sorella diventa indagine persino di sé stessa, una sorta di formazione continua per l’edificazione di nuova “io”; la presa di consapevolezza che al mondo esistono percorsi accessori e impervi, che ci troviamo spesso di fronte a un bivio, a una strada a forma di “y”, come Elisa stessa confida nel libro. E sullo sfondo ci sono la disperazione e il dramma di una famiglia alla quale sparisce una figlia: storia simile a molte storie vere che sono accadute e che accadono nel nostro paese e che hanno popolato le cronache nere di riviste e telegiornali, dalla piccola Angela Celentano alla più recente Denis Pipitone.
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“Cucinare con i piedi” storie di cene mondiali e ricette cruciali
Giulia Siena
PARMA – Pierpaolo Lala, giornalista e scrittore con una sfrenata passione per lo sport e la cucina, dopo il successo di 50 sfumature di fritto e Una frisella sul mare, torna in libreria e lo fa in occasione dei Mondiali di calcio 2014. Cucinare con i piedi, storie di cene mondiali è la nuova, insolita raccolta di storie, racconti, aneddoti, ricette e curiosità che legano lo sport più amato dagli italiani alla cucina. Pubblicato nella collana Fornelli Indecisi – che è anche un concorso di “cucina dozzinale” – della Lupo Editore, Cucinare con i piedi ci accompagna alla scoperta di Brasile 2014 percorrendo storie di sport raccontate a tavola.
Si parte con una rapido riscaldamento a prova di donna: il regolamento semiserio del giuoco calcio viene spiegato in maniera elementare (terreno di gioco, inno nazionale, arbitro, cartellini, divise, punizioni e rigori) per poi partire alla volta dei ricordi con la grande storia: “40 anni di Coppa del Mondo da Germania 1974 a Brasile 2014″. Già Brasile 2014, nonostante la voce fuori campo del curatore a ricordarci che ” I libri sui mondiali ancora da giocare sono come gli album di figurine stampati un mese prima di avere la lista ufficiale. La maggior parte dei giocatori sono giusti, ma c’è sempre qualcuno inserito ma escluso oppure qualcuno non inserito ma in campo” l’Italia, già dopo poche partite, è fuori dai giochi. Ma la precoce uscita di scena dell’Italia da questi Mondiali di calcio non deve influenzarci troppo perché Cucinare con i piedi è un viaggio a più voci e la gloria e i disastri del passato si mescolano agli odori succulenti di pranzi, cene e merende calcistiche. Dall’Olanda dei Mondiali del ’74 al “codino magico” di USA ’94 passando per la grandiosa Spagna in Sud Africa 2010 si arriva a questi giorni di Brasile 2014 in una carrellata di emozioni, voci, episodi e momenti che in qualche modo – più spesso di quello che pensiamo – si intrecciano a sapori e gusti che avevamo archiviato nella memoria. I sapori sono quelli delle cene, grigliate, teglie e occasioni luculliane che ogni buon appassionato di calcio abbina alla sua partita del cuore; se poi questi banchetti sono in occasione di Europei o di Mondiali il ricordo – e il languorino – si fa più forte. Il libro si chiude, perciò, con un ricco e divertente ricettario.
“Il tesoro di Sant’Ippazio”, l’esordio letterario di Alberto Colangiulo
Alessia Sità
ROMA – Una Chiesa, un prete, una villa abbandonata e un tesoro segreto.
Sono questi gli ingredienti de “Il tesoro di Sant’Ippazio”, l’intrigante romanzo – a tinte noir – scritto da Alberto Colangiulo e pubblicato da Lupo Editore.
Nella prima metà anni degli anni ’80, la tranquillità di un piccolo paesino del Basso Salento viene stravolta da un terribile fatto di cronaca nera. La notte fra il 14 e il 15 agosto, durante la festa patronale, qualcuno attenta alla vita di Don Gino, parroco della piccola comunità salentina. Due arzilli quattordicenni – Fischio e Vasco – diventano loro malgrado testimoni oculari dell’orribile misfatto. Turbati dalla sconvolgente tragedia, gli abitanti del posto sembrano avere una certa reticenza nei confronti delle indagini condotte da Gerardi. Ad aiutare il giovane e razionale Maresciallo – che dovrà districarsi fra riti, superstizioni e antiche credenze – ci saranno due appuntati alquanto singolari: il taciturno Nardi e il gioviale Verzin. Pochi indizi: un leggendario tesoro di cui tutti parlano, ma che nessuno ha mai visto, e una chiesa aperta che però sarebbe dovuta restare chiusa per qualche giorno. Risolvere l’intricato giallo non sarà facile.
Con uno stile semplice e scorrevole, Colangiulo riesce a creare la giusta atmosfera, un misto fra suspense e curiosità, che porta il lettore a restare col fiato sospeso fino all’ultima pagina.
Nessuno dovrà dimenticarsi de “La lunghissima notte di Portospada”.
Giulio Gasperini
AOSTA – Non si deve mai dimenticare il passato, soprattutto quando è stato doloroso e gravato da errori. Perché altrimenti si è condannati a ripeterlo. Questa lezione il genere umano non riesce a impararla. Né pare quasi biologicamente refrattario. Ed è proprio per sottolineare questra estrema verità che Paolo Valentino ci accompagna nell’avventura de “La lunghissima notte di Portospada”, romanzo per ragazzi edito da Lupo Editore (2013). Valentino crea un mondo intero, sfaccettato, un mondo geniale e gentile. Tanto da aver arricchito il volume con una cartina, raffigurata come quelle vecchie dei pirati, per rappresentare su carta il mondo affascinante di Portospada. E questa particolare attenzione iconografica trova una perfetta corrispondenza nella creazione di una storia appassionante e incalzante, una moderna favola che insegna con divertimento e con partecipazione.
La vicenda affonda i suoi antefatti negli anni precedenti un’età dell’oro in cui il narratore ci porta subito. Portospada è un’isola che vive una stagione bellissima, piena di amicizie e di ricchezza. Ma la tragedia pare incombente, in una sorta di accelerazione che lascia ben presto poco spazio ai dubbi. Una lunghissima notte si stende sull’isola. Il sole sorge sempre più tardi e tramonta sempre più presto. Non ci sono spiegazioni logiche, né motivazioni climatiche. Si tratta di un evento straordinario. Sarà troppo tardi quando tutti si accorgeranno che a tornare è il pirata Nero de la Loah, costretto per cinquant’anni all’esilio dall’isola grazie a un potente incantesimo di Ignazio Quantici, Supremo Maestro di Stregoneria. Ma la popolazione di Portospada ha dimenticato la ferocia, la violenza, il terrore che il vecchio pirata aveva provocato e questo finisce per indebolire la protezione. Il pirata ha inoltre dalla sua parte la strega Janis, che ottiene la sua straordinaria arte magica e i suoi inesauribili poteri dall’acqua marina.
Alcuni uomini, tra cui un vecchio pirata e un cartografo diventato stilista, si assumono il compito di sconfiggere il pirata, spezzando gli incantesimi che lo proteggono, mentre un giovanissimo cronista, Biagio del Mare, diventa attento cronista di tutti gli eventi. Grandi protagonisti, inoltre, tutti i gatti, randagi e no, di Portospada, che collaborano nel salvare la bellissima isola e i suoi gentili abitanti.
Una bella storia moderna, ricca di divertimento ironia e intelligenza, che unisce lo stupore della magia all’amore per gli animali e al rispetto della natura.
Vot’Antonio? No, Vota Socrate!
Marianna Abbate
ROMA – Chi ha detto che a sbagliare sono solo gli uomini? Anche nel disegno divino a volte possiamo trovare delle lacune. E così Socrate, uno degli uomini migliori per arbitraria decisione, non può usufruire del dono della vita eterna per un errore tecnico. Incastrato per oltre duemila anni, attende il suo turno fino a che san Pietro non si accorge del gravissimo mancamento verso il filosofo. Vogliamo lasciarci forse sfuggire la notevole conversazione tra i due? Fortunatamente nei paraggi passava la bravissima cronista Ada Fiore, che ha potuto origliare in prima persona quanto detto dal santo al filosofo e viceversa. Continua
“Scrittori brutta razza”: lo scrittore che definisce sé stesso.
Giulio Gasperini
AOSTA – Chi è lo scrittore? Tutti – soprattutto gli scrittori – si sono posti tale domanda. Come se la scrittura fosse stata inventata soltanto per far capire agli scrittori chi fossero in realtà: una sorta di tentativo continuo di risolvere la perenne crisi d’identità. Il problema, effettivamente, è che nessuno probabilmente ha mai trovato una risposta soddisfacente. E anche Luigi Saccomanno, con il suo caratteristico stile in sottrazione, fratto e frammentato, crivellato di punteggiatura, tenta di azzardare la sua definizione: e lo fa tratteggiando la figura molto particolare dello scrittore che scrive l’opera stessa, “Scrittori brutta razza”, edito da Lupo Editore nel 2013 nella collana InBox.
Definire romanzo il testo di Luigi Saccomanno è un’audacia. E anche ipotizzare una “prosa poetica” diventa anacronia. Si tratta piuttosto di un diario fluido, una registrazione completamente filtrata dall’interiorità del narratore, di una storia viva, vegeta, pulsante ma che mantiene i tratti di una visione onirica, di un viaggio in profondità nella coscienza scoperta e dolorante dei due personaggi principali, lui e lei. Entrambi poco umani e poco reali ma molto simbolici, portatori di valori che sono ben più profondi e consistenti.
Forte e severa la polemica con quegli scrittori che si tradiscono per vendere, che inficiano sé stessi e le loro opere per una firma su un contratto, per la vanità di avere pile di volumi all’entrata delle librerie e file ininterrotte di ragazze a chiederne incostanti un autografo. E nella società letteraria del nostro tempo ne potremmo individuare molti; impuniti. Lo scrittore compie un percorso di dolorosa ma necessaria catarsi: la violenza della separazione, la presunta colpa di una morte, la delusione professionale sono tutti moventi che lo porteranno, a distanza di anni, in un calendario quasi sacrale, a compiere il gesto di supremo annientamento, costringendosi e obbligandosi nella condizione più utile e irrinunciabile per il pensiero; e per cominciare quel serio percorso di teorizzazione che comunque sarà sempre mancante di qualche elemento, di qualche dettaglio. Le colpe che lo scrittore si attribuisce sono inflessibili, le tecniche svelate, i dolori denunciati; i trucchi, in definitiva, svelati, come se si trattasse di uno scarso prestigiatore, di un illusionista sfiancato e stanco. Ma, in realtà, il fatto stesso di scrivere è già un trucco che ne prevede altri, senza mai arrivare a un disvelamento completo e totale.
La vicenda narrata nel romanzo diventa un vero e proprio espediente narrativo. Le figure che compaiono, poche, pochissime, sono dei vettori, degli acceleranti per le ultime pagine del romanzo, quelle dove più che in altri luoghi si riflette e si teorizza su chi (e cosa) sia realmente e concretamente uno scrittore. Domande alle quali, come si evince anche dall’opera di Saccomanno, non è per nulla facile rispondere.
Le tante “Corde” delle nostre vite.
Giulio Gasperini
AOSTA – I 14 racconti di Dario Bellucco, editi da Lupo Editore (2013) nella collana Incipit, sono delle incursioni sapide in vite al limite, in esistenze accelerate verso una capitolazione tutt’altro che eroica. Queste storie sono popolate di droghe, alcol, dipendenze, rapporti malati e fraintesi, prospettive deviate e legami spezzati: tutte “Corde”, tanti lacci, che imprigionano, che costringono, imbavagliano e disarticolano. I protagonisti dei racconti sono moderni inetti, ovvero personaggi che si dibattono in una vita nella quale stanno come passivamente, trasportati dalla corrente furiosa, incapaci di reagire; si tratta spesso di finto godimento, di illusioni e fate morgane che allettano per il tempo di un errore ma che lasciano poi amari e delusi. Ci sono tutte le inquietudini, le insicurezze, i timori dei nostri nuovi anni; ci sono le crisi, i traumi, i tentativi goffi e fallimentari che intere generazioni avevano creduto di aver trovato per combattere quello che spaventava e che tuttora spaventa. Le città, a volte tratteggiate altre volte descritte quasi carnalmente, diventano il setting correlato alle vicende frammentarie ma dure, difficili in certi punti da leggere, perché feroci nella loro asprezza.
Le vite durano poco, sono trattate come merce di scambio, senza valore. Sono in tanti che muoiono, spesso per scelte volontarie, magari esasperate, come accade in “Un’ultima volta”. Anche i rapporti familiari non riescono a significare queste esistenze spesso definite dall’errore stesso, senza nessuna possibilità di redenzione (“Scusa, papà” e “Una buona causa”). La gioventù è devastata, distrutta in un’ansia di incognito: sono così i ragazzi protagonisti di tanti racconti, da “Racconto giovanile di un tragico evento” a “I ragazzi che dovettero pagare”, in cui per divertirsi si è pure pronti a pagare un dazio tremendamente alto. Neanche l’amore serve a nulla, è un sentimento che punisce e fa soffrire, che non dà nessun piacere, nessuna gioia, nessun orgoglio, come si racconta in “Dobbiamo giocare con le spade” e “Amore”. L’ansia e la fame di Dio covano nel profondo, alimentando una ricerca che pare superficiale ma in realtà è metodica e interessata. Nel racconto “Dio” il piano del male pare assumere il sopravvento, fino a un epilogo dove l’accelerazione all’autopunizione esplode in un gesto estremo, radicale. Il linguaggio è scarno, essenziale, quasi a riflettere i caratteri delle maschere in scena. Tutto in sottrazione, dove i silenzi, i suggerimenti, contano forse anche più degli svelamenti. Tanto si immagina, in queste storie, tanto si congettura: l’incognita crea ancora più ansia, più angoscia soffocante.
In tutti questi racconti non pare esserci una consolazione, né la possibilità di una fuga. Mostrano però le colpe della nostra società, i suoi punti di forza, le irresistibili tentazioni, e parallelamente ne suggerisce anche le colpe, le aperte strategie. E, per combattere e opporsi, la prima regola è sempre scoprire i punti deboli.
“Io. e l’Ilva” il monologo di un metalmeccanico
Marianna Abbate
ROMA – L’Ilva non rispetta le regole sull’impatto ambientale. L’Ilva è la causa di infiniti tipi di morbi, patologie, formazioni cancerose e problemi respiratori. L’Ilva porta sulla tavola di tutta Taranto un piatto di pasta. Coperto da uno strato sottile di diossina. L’Ilva ti fa comprare la macchina nuova. Che importa se è coperta dal medesimo strato di diossina?
È la “grande contraddizione di Taranto” quella al centro del “Monologo metalmeccanico- Io e L’Ilva” di Giuse Alemanno. pubblicato da Lupo editore. Sì, perché da una parte l’Ilva è il male, dall’altra non si può vivere senza Ilva.
Che poi Ilva è un concetto vago, troppo generalista. Dentro il più grande stabilimento d’acciaieria d’Europa si snodano settori, reparti, calore, facce, tecnologie e arretratezze. Un microcosmo vivace e vivo, estremamente autoreferenziale agli occhi di Alemanno: “partigiani dei cazzi propri”. Gli operai hanno perso quel senso di comunità che li aveva resi forti nelle rivolte socialiste. Ognuno guarda il suo benessere, inclusi i sindacati che cercano l’accordo a tutti i costi, pur di guadagnarci una promozione e tanta tranquillità.
Eppure senza Ilva, il destino di Taranto sarebbe segnato. “C’è uno psichiatra in sala?” continua a chiedersi l’autore del monologo, in un misto di disperazione ed impotenza. Non c’è soluzione neanche agli occhi di quell’operaio acculturato, di quello che conosce tutte le questioni interne ed esterne, che è Giuse Alemanno.
Un vicolo cieco. Un enorme, bruciante, polveroso e ricco vicolo cieco.
“Restare, partire”: quando la vita potrebbe essere ovunque
Giulia Siena
ROMA – “La verità è che non esistono puerto escondido. E restare o partire spesso è la stessa cosa. Ci vuole coraggio in entrambi i casi”. Mimmo cerca il coraggio per andare altrove e aspetta motivi o risposte per rimanere. Andare via da Taranto o rimanere a Taranto? Rimanere e intraprendere ogni sabato il forzato tour per i locali insieme a una combriccola di finti amici oppure partire? Sicuramente non rimarrebbe per Carmy, la sua fidanzata dai capelli color arancio, con il pallino per le Y e per le parole abbreviate. Mimmo vorrebbe fuggire da tutto questo ma è sempre stato il codardo; lui non risponde, non sbraita, non alza la voce. Lui, più semplicemente, partirebbe per allontanare lo sguardo deluso della madre e per allontanarsi dai continui rimproveri del padre. Mimmo partirebbe per fotografare il mondo.
“Restare, partire”, il romanzo di Massimo Stragapede pubblicato da Lupo Editore parte da un interrogativo arcaico: restare o partire? E’ lo stesso interrogativo che si pone Domenico Cazzato, per tutti Mimmo, un venticinquenne (o quasi) che vive al Sud, a Taranto. Mimmo non ha lavoro, Mimmo non ha niente; deve elemosinare l’auto di suo padre e continuare a scattare foto con una vecchia macchina di ferro e plastica. Mimmo non ha sogni, non ha niente. Mimmo ha un’unica possibilità, accogliere le raccomandazioni dello zio ed entrare al siderurgico. Deve ingoiare le sue perplessità e infilarsi la tuta, timbrare il cartellino e fotocopiare il prospetto turni in tre copie: per lui, per mamma e per Carmy. Mimmo comincia così la sua vita scandita dai turni, dalle rate per la nuova macchina, dalle rate per il telefono di Carmy e dalla voglia crescente di dimenticare tutto e tutti. Tutto o quasi.
Un giorno intercetta lo sguardo e la caparbietà di Miriam, una donna diversa, una donna. E poi quel volantino: concorso fotografico Restare, partire. Tutto cambia. Ora è lui che deve prendere in mano la propria vita e fotografarla e cambiarla.
“Restare, partire” è una scommessa e la scommessa – in questo caso – è soprattutto nella storia. Dal titolo non diresti mai che oltre alla tematica sempre un po’ in ombra dei “nuovi nomadi” c’è la storia di un ragazzo – come tanti – che cerca la propria strada. Non diresti mai che così come Mimmo molti di questi ragazzi non parlano mai dei propri dubbi, non conoscono il confronto e il conforto con genitori, amici e conoscenti. Non diresti mai che si sopravvive aspettando, mentre tutto passa. Non diresti che Mimmo sì, è un personaggio silenzioso, remissivo e rassegnato ma quando arriva Miriam la storia prende vita e comincia una lenta e decisa presa di coscienza. Mano mano che la storia prende vita, Mimmo e Miriam diventano gli unici protagonisti, gli altri personaggi sfumano. Quello che rimane e che resta è la verità di Mimmo.
“Interrogato il morto”, un omicidio inaspettato nelle colline brianzole
Silvia Notarangelo
ROMA – Direttamente mutuata dalle perizie necroscopiche, “Interrogato il morto” è la singolare formula che dà il titolo all’ultimo e piacevole romanzo di Renato Cogliati, pubblicato da Lupo Editore. Con uno stile personale e ironico, capace di alternare più registri linguistici, l’autore si immerge nella realtà di fine anni Cinquanta, riuscendo a ricreare un’atmosfera suggestiva e a tratti paradossale, animata da caratteristici personaggi.
Siamo a Brivio, un paesino di confine tra le provincie di Como e Bergamo. Come è facile immaginare, chiacchiere e pettegolezzi sono all’ordine del giorno, ma tutti sanno bene come funzionano le cose: qui non accade nulla “senza il consenso del sindaco, del parroco, del medico condotto e del maresciallo dei carabinieri”.
Ed è proprio all’interno di una delle istituzioni, la caserma, che si muovono i protagonisti della storia. Dall’alto del suo “metro e cinquantacinque centimetri”, il comandante Salvatore Inverso è ormai prossimo alla pensione. Nel tempo, ha saputo farsi apprezzare da superiori e magistrati, grazie anche ad alcuni successi ottenuti forse per bravura, più verosimilmente per pura fatalità. In ogni caso, la sua fama non è in discussione e ciò gli consente piccole quanto gradite distrazioni a bordo del suo Galletto Moto Guzzi o seduto in qualche osteria della zona ad assaporare cassöeula, verze e busecca.
Una vita, nel complesso, tranquilla e appagante in cui, all’improvviso, irrompe il maresciallo Antonio Veleno. Sarà lui a sostituirlo, un giorno, alla guida della caserma. Tra i due non è certo amore a prima vista, anzi. Arrogante e sicuro di sé, il nuovo arrivato non fa nulla per guadagnarsi la stima del suo superiore. Ma se nel lavoro Salvatore sembra riuscire a tenere a bada le aspirazioni del giovane collega, più difficile sarà per lui arginare un altro “interesse” prettamente personale. Un uragano si abbatte nell’esistenza del comandante. E visto che i guai non arrivano mai dai soli, ecco qualcosa di totalmente imprevisto: un omicidio. Un cadavere viene ritrovato nei boschi impenetrabili del Monastirolo.
Le indagini, prontamente avviate, si svolgono in un clima surreale, quasi ai limiti del grottesco. Inverso non è abituato a gestire casi simili, nessuno prima d’ora aveva mai osato commettere un delitto nei territori di sua competenza. Gli acciacchi dell’età, poi, uniti al solito, inesauribile appetito, di certo non aiutano. Eppure, tra affanni, improbabili collaboratori e l’immancabile autopsia, anche questa volta il comandante riuscirà a cavarsela.
Tirato un sospiro di sollievo, Inverso può forse riconoscere quanto sia inutile tentare di avere sempre tutto sotto controllo, nella vita come nel lavoro. Ci sono cose che accadono e basta, a prescindere dalla volontà o dai desideri di ognuno, e che poco hanno a che fare con la razionalità. L’importante è capire quando è il momento di deporre l’ascia di guerra e abbandonarsi, serenamente, al corso degli eventi.