“Una buona stella”: il romanzo di Francesco De Giorgi

downloadAlessia Sità
ROMA“Se il mondo fosse più giusto, le parole ritroverebbero il loro significato. La parola libertà non sarebbe usata al posto della virgola dai politicanti che la limitano; la parola vita non sarebbe usata impropriamente rispetto a chi da anni soffre in un letto di ospedale; la parola amore non sarebbe usata come contrario della parola solitudine; e amicizia non sarebbe da pronunciare sempre e comunque, ma in alcuni casi esclusivamente particolari.”

In un mondo fatto di ingiustizie, di archetipi sociali e di pregiudizi radicati in mentalità provinciali, non sempre vi è la possibilità di riscattarsi. Una buona stella, il romanzo scritto da Francesco De Giorgi e pubblicato da Lupo Editore, è una riflessione costante sull’esistenza umana, qualunque essa sia.
Franco Quadriglia è un cinquantenne di Gallipoli insoddisfatto e infelice. La sua è una vita fatta di routine e sufficienza. Gli unici attimi di felicità nel torpore dei suoi giorni sembrano essere offerti dalla presenza di Carmela, la donna che ha sempre amato e che non ha mai avuto. E proprio quando il grigiore della sua esistenza sembra ormai destinato a sommergerlo e a soffocarlo definitivamente, arriva Stella. Una bellissima ragazza albanese, dall’aspetto etereo ma dal passato infernale. La giovane è vittima del racket della prostituzione, i cui segni non sono solo scolpiti nella sua anima, ma sono tangibili soprattutto sul suo corpo. Fra solitudini, malvagità e incomprensioni, fra i due si instaura un rapporto speciale, forse preludio di salvezza. Purtroppo, però, non sempre l’incontro ‘con una buona stella’ porta a un ‘lieto fine’. Spesso si vive solo elemosinando attimi di fugace felicità.

 

Francesco De Giorgi racconta la storia di due anime perdute che, nonostante tutto, tentano faticosamente di rialzarsi dopo i violenti colpi assestati dalla vita. Con uno stile asciutto e lineare, le sue pagine guidano il lettore alla scoperta di un mondo sommerso dall’indifferenza e lo travolgono – fino alla fine – nel desolato turbinio degli eventi dei protagonisti, sempre in attesa di qualcosa o forse di qualcuno.

Le tante “Corde” delle nostre vite.

cordeGiulio Gasperini
AOSTA – I 14 racconti di Dario Bellucco, editi da Lupo Editore (2013) nella collana Incipit, sono delle incursioni sapide in vite al limite, in esistenze accelerate verso una capitolazione tutt’altro che eroica. Queste storie sono popolate di droghe, alcol, dipendenze, rapporti malati e fraintesi, prospettive deviate e legami spezzati: tutte “Corde”, tanti lacci, che imprigionano, che costringono, imbavagliano e disarticolano. I protagonisti dei racconti sono moderni inetti, ovvero personaggi che si dibattono in una vita nella quale stanno come passivamente, trasportati dalla corrente furiosa, incapaci di reagire; si tratta spesso di finto godimento, di illusioni e fate morgane che allettano per il tempo di un errore ma che lasciano poi amari e delusi. Ci sono tutte le inquietudini, le insicurezze, i timori dei nostri nuovi anni; ci sono le crisi, i traumi, i tentativi goffi e fallimentari che intere generazioni avevano creduto di aver trovato per combattere quello che spaventava e che tuttora spaventa. Le città, a volte tratteggiate altre volte descritte quasi carnalmente, diventano il setting correlato alle vicende frammentarie ma dure, difficili in certi punti da leggere, perché feroci nella loro asprezza.
Le vite durano poco, sono trattate come merce di scambio, senza valore. Sono in tanti che muoiono, spesso per scelte volontarie, magari esasperate, come accade in “Un’ultima volta”. Anche i rapporti familiari non riescono a significare queste esistenze spesso definite dall’errore stesso, senza nessuna possibilità di redenzione (“Scusa, papà” e “Una buona causa”). La gioventù è devastata, distrutta in un’ansia di incognito: sono così i ragazzi protagonisti di tanti racconti, da “Racconto giovanile di un tragico evento” a “I ragazzi che dovettero pagare”, in cui per divertirsi si è pure pronti a pagare un dazio tremendamente alto. Neanche l’amore serve a nulla, è un sentimento che punisce e fa soffrire, che non dà nessun piacere, nessuna gioia, nessun orgoglio, come si racconta in “Dobbiamo giocare con le spade” e “Amore”. L’ansia e la fame di Dio covano nel profondo, alimentando una ricerca che pare superficiale ma in realtà è metodica e interessata. Nel racconto “Dio” il piano del male pare assumere il sopravvento, fino a un epilogo dove l’accelerazione all’autopunizione esplode in un gesto estremo, radicale. Il linguaggio è scarno, essenziale, quasi a riflettere i caratteri delle maschere in scena. Tutto in sottrazione, dove i silenzi, i suggerimenti, contano forse anche più degli svelamenti. Tanto si immagina, in queste storie, tanto si congettura: l’incognita crea ancora più ansia, più angoscia soffocante.
In tutti questi racconti non pare esserci una consolazione, né la possibilità di una fuga. Mostrano però le colpe della nostra società, i suoi punti di forza, le irresistibili tentazioni, e parallelamente ne suggerisce anche le colpe, le aperte strategie. E, per combattere e opporsi, la prima regola è sempre scoprire i punti deboli.

“Interrogato il morto”, un omicidio inaspettato nelle colline brianzole

interrogatoilmorto_Lupo_chronicalibriSilvia Notarangelo
ROMA – Direttamente mutuata dalle perizie necroscopiche, “Interrogato il morto” è la singolare formula che dà il titolo all’ultimo e piacevole romanzo di Renato Cogliati, pubblicato da Lupo Editore. Con uno stile personale e ironico, capace di alternare più registri linguistici, l’autore si immerge nella realtà di fine anni Cinquanta, riuscendo a ricreare un’atmosfera suggestiva e a tratti paradossale, animata da caratteristici personaggi.

 

Siamo a Brivio, un paesino di confine tra le provincie di Como e Bergamo. Come è facile immaginare, chiacchiere e pettegolezzi sono all’ordine del giorno, ma tutti sanno bene come funzionano le cose: qui non accade nulla “senza il consenso del sindaco, del parroco, del medico condotto e del maresciallo dei carabinieri”.
Ed è proprio all’interno di una delle istituzioni, la caserma, che si muovono i protagonisti della storia. Dall’alto del suo “metro e cinquantacinque centimetri”, il comandante Salvatore Inverso è ormai prossimo alla pensione. Nel tempo, ha saputo farsi apprezzare da superiori e magistrati, grazie anche ad alcuni successi ottenuti forse per bravura, più verosimilmente per pura fatalità. In ogni caso, la sua fama non è in discussione e ciò gli consente piccole quanto gradite distrazioni a bordo del suo Galletto Moto Guzzi o seduto in qualche osteria della zona ad assaporare cassöeula, verze e busecca.
Una vita, nel complesso, tranquilla e appagante in cui, all’improvviso, irrompe il maresciallo Antonio Veleno. Sarà lui a sostituirlo, un giorno, alla guida della caserma. Tra i due non è certo amore a prima vista, anzi. Arrogante e sicuro di sé, il nuovo arrivato non fa nulla per guadagnarsi la stima del suo superiore. Ma se nel lavoro Salvatore sembra riuscire a tenere a bada le aspirazioni del giovane collega, più difficile sarà per lui arginare un altro “interesse” prettamente personale. Un uragano si abbatte nell’esistenza del comandante. E visto che i guai non arrivano mai dai soli, ecco qualcosa di totalmente imprevisto: un omicidio. Un cadavere viene ritrovato nei boschi impenetrabili del Monastirolo.
Le indagini, prontamente avviate, si svolgono in un clima surreale, quasi ai limiti del grottesco. Inverso non è abituato a gestire casi simili, nessuno prima d’ora aveva mai osato commettere un delitto nei territori di sua competenza. Gli acciacchi dell’età, poi, uniti al solito, inesauribile appetito, di certo non aiutano. Eppure, tra affanni, improbabili collaboratori e l’immancabile autopsia, anche questa volta il comandante riuscirà a cavarsela.
Tirato un sospiro di sollievo, Inverso può forse riconoscere quanto sia inutile tentare di avere sempre tutto sotto controllo, nella vita come nel lavoro. Ci sono cose che accadono e basta, a prescindere dalla volontà o dai desideri di ognuno, e che poco hanno a che fare con la razionalità. L’importante è capire quando è il momento di deporre l’ascia di guerra e abbandonarsi, serenamente, al corso degli eventi.