Giulio Gasperini
AOSTA – La storia è quella nota dell’opera lirica di Giacomo Puccini, del 1904. L’aveva scelta perché affascinato dalla tragedia di David Belasco, vista a Londra. Fu la sua prima “opera esotica”, sulla scia di un entusiasmo per l’Oriente che stava contagiando tutte le arti della vecchia e stanca Europa. Fu nell’apoteosi del sacrificio femmineo dell’opera che la gloria di Madama Butterfly, ovvero la gheisa Cho-Cho-San, raggiunse l’acme della notorietà, la consacrazione nell’olimpo delle figure straordinarie delle arti. Ma forse in pochi sanno che l’origine dell’opera (e della tragedia) è una novella, di John Luther Long, edita nel 1898, che Avagliano editore ha ripubblicato nel 2009 nella collana “La straniera”. E forse in pochi sanno che la novella ha un finale agli antipodi della trasposizione operistica.
La novella di John Luther John ha degli aspetti che ancora la mantengono valida e preziosa, nonostante l’ipoteca di Puccini sulla storia e sulla figura della geisha lontana: il ritratto di Cho-Cho-San, nella novella, è fresco, leggero, soave. Fuori da complesse macchinazioni psicologiche, più facilmente riscontrabili nella tessitura di musica e parole, Long ha saputo in poche pagine plasmare un ritratto femminile di inaudita potenza e complessità, pur utilizzando sempre uno stile e un linguaggio semplici e diretti. Lo scarto tra la Cho-Cho-San di Long e la Madama Butterfly di Puccini si consuma tutto alla fine della vicenda, nel momento in cui i destini delle due trovano soluzioni diverse.
Cho-Cho-San si concreta come il paradigma della donna perennemente in attesa, della donna illusa, della donna rimasta bambina nel mito di un uomo che la possa amare, che la tratti come una regina, che la conservi al riparo dal mondo crudele che sta al di fuori delle mura domestiche. Come se codeste mura fossero il luogo più sicuro del mondo: ma già ai suoi tempi, nei suoi luoghi remoti ed “esotici”, le più atroci violenze si consumavano proprio all’interno della famiglia. Cho-Cho-San di famiglie ne avrebbe perse due: quella dei suoi familiari, della sua stirpe, della sua gente che la condanna per aver cercato di contravvenire a leggi ataviche e tradizionali. Si è innamorata di un uomo straniero, di un dominatore, di un invasore. Con lui ha concepito un bambino. Non si può meritare altro che l’abbandono, l’esilio. Ma Cho-Cho-San perde anche l’altra famiglia, perde il suo amore, proprio lui che l’ha allontanata dall’altra famiglia. Il destino di Cho-Cho-San pare segnato, pare dettato e condizionato dalla sofferenza, dalla colpa, dalla menzogna.
Ed è qui che John Luther Long rende Cho-Cho-San moderna, progressiva, orgogliosa e indipendente: si avvicina la decisione del suicidio, estrae la spada, “l’unico oggetto, fra tutti quelli appartenuti a suo padre, che i suoi parenti le avevano concesso di tenere”, si colpisce il petto, “il rivolo di sangue che le era sceso nel seno divenne di una tinta più scura e si arrestò”. Cho-Cho-San decide di vivere: decide di non concedersi al sacrificio per un uomo che invece di amarla l’aveva violata, insultata, offesa. Si salva grazie a suo figlio, si salva perché una scintilla in lei esplode e l’incendio divampa. Se non proprio simbolo di femminismo e di rivolta al maschilismo imperante, Cho-Cho-San è figura profetica, antesignana di sentimenti che a fine Ottocento eran forse prematuri ma proprio per questo sorprendenti in codesta novella. E così cantò, profetica, anche Fiorella Mannoia: “Ma scapperò via da qui / da questa casa galera / che mi fa prigioniera”.
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