Marianna Abbate
ROMA – 3444, il numero che ha portato impresso nella pelle fino alla morte è stato il suo nome. È sopravvissuto molto più a lungo dei tre mesi previsti per gli internati di Auschwitz, è sopravvissuto ad Auschwitz. Con un numero così basso ne sono rimasti davvero pochi, da contare sulle dita di una mano. Quel numero maledetto che ha raggiunto le centinaia di migliaia.
Li ha visti quasi tutti in faccia quei numeri, Wilhelm Brasse, quel polacco che di tedesco aveva solo il nome. Li ha guardati negli occhi, dapprima nascosto al sicuro del blocco 26, dove si era creato un microcosmo, al sicuro dagli orrori esterni. Ma i muri di Auschwitz sono di vetro, e non importa quanto ti nascondi, non importa quanto forte stringi gli occhi per non guardare: il lager ti entra dentro.
Così il lager è venuto a cercarlo nel suo nascondiglio sicuro, ma non per ucciderlo. Il lager ha chiesto il suo aiuto, la sua anima.
La sua storia la raccontano Luca Crippa e Maurizio Onnis, nel libro edito da Piemme nella collana Voci con il titolo “Il fotografo di Auschwitz”, con un sottotitolo estremamente chiaro: il mondo deve sapere.
È stato fortunato, Brasse, a diventare il fotografo del lager. Fortunato a veder sfilare davanti al suo obbiettivo Zeiss migliaia di facce malconce e centinaia di terribili assassini in divisa.
È stato fortunato anche quando il dottor Clauberg aveva tirato fuori con un forcipe l’utero vivo di decine di giovani ebree addormentate. Quando aveva fotografato quegli uteri sterilizzati in fredde bacinelle metalliche.
Quando Mengele gli ha chiesto di fotografare coppie di gemelli destinati a morire, bambine nude, denutrite e spaventate. Quando ha visto il bellissimo tatuaggio della schiena di un uomo che aveva fotografato, scuoiato e conciato per diventare la copertina di un libro.
Quando dopo la guerra, la donna di cui si era innamorato nel campo non poteva sopportare la sua vista, quando lui stesso non riusciva a tenere il peso della macchina fotografica in mano e nei volti degli avventori del suo nuovo negozio rivedeva quegli occhi, unica parte ancora viva, degli avventori del blocco 26. E se chiudeva gli occhi sentiva di nuovo l’odore nauseabondo delle donne, che nel campo non avevano acqua per lavarsi. Quelle stesse donne che per le botte e per la fame non avevano più il ciclo, sterili già prima che il dottor Clauberg mettesse le sue scientifiche mani su di loro.
Se leggendo queste parole provate disgusto, se vi ho scandalizzato, non mi scusate. Era mia intenzione. Perché so’ che molti di voi non compreranno mai questo libro, e probabilmente questo articolo sarà una delle poche cose che conoscerete di Auschwitz.
Alcuni negheranno persino l’esistenza di un posto così. Ma non basta dire la parola orrore per capire cosa significa: l’orrore ha bisogno di essere esplicitato, per essere capito.
Perché è necessario comprendere che a guidare il tutto era la casualità: non era necessario essere ebrei per morire ad Auschwitz. Poteva accadere a chiunque.
Quindi, caro lettore, non sentirti esentato dal dolore. È un dolore che deve appartenerti, che devi conoscere, fa parte della tua stessa umanità.