La pallida primavera (digitale) del Salone del Libro.

Giulio Gasperini
TORINO –
“Primavera digitale”: così, con questo pomposo titolo, era stata battezzata quest’anno la XXV edizione del Salone del Libro di Torino. E, paradossalmente, come qualche espositore ci ha fatto notare, l’organizzazione non è riuscita (almeno nella prima giornata) ad attivare il wi-fi nelle zone espositive. Se ne parla, di digitale, – alla maniera italiana – se ne discute, se ne discetta e se ne ipotizza il futuro; ma il presente è nero, quasi paradossale, sicuramente grottesco. Ma, sinceramente, a noi non fa che piacere: riteniamo che sia già un evento che si chiami ancora Salone del Libro. Ponendo l’accento su quella parola, LIBRO, che tra poco sarà spodestato da un termine del neo-inglese, E-BOOK, così poco pieno di storia e di esperienze, così sterile e ridicolo.
Gli amanuensi medievali, Gutenberg, Manuzio: tante tappe di una storia splendida, tante stazioni di una devozione incomparabile e indefessa. Che sta per approdare nell’immaterialità del digitale. Anche l’Enciclopedia britannica si è arresa: basta carta, adesso soltanto digitale. E il sapere, siamo pronti a scommettere, non sarà mai più lo stesso. Perderà consistenza, pragmatica, deissi. È consolante, riteniamo, sapere dove, fisicamente, un’informazione si trovi. Dove si possa sottolineare. Dove si possa colorare. Il digitale si aggiorna subito, è vero. Ma si aggiorna anche troppo alla svelta, senza il controllo, senza la sicurezza di star leggendo una verità (quantomeno presunta). E, soprattutto, si perde, si smaterializza, evapora, fagocitata da tante altre informazioni che utili non sono, tutt’altro. Immaginavo una bassa casa di legno, col tetto di assicelle, incatramata per resistere agli uragani, con dentro ciocchi fiammeggianti e, allineati sulle pareti, i migliori libri: un posto dove vivere mentre il resto del mondo saltava per aria. C’è luogo migliore di questo, al mondo? Dovremmo per forza, adesso, come Chatwin, spingersi nel vuoto di suoni e odori della Patagonia per goderci codesti piaceri? Codeste devozioni?
Ha colpito, al Salone, la buona presenza di piccoli e medi editori che affollavano alcuni angoli. Ha colpito la quantità impressionante di titoli e copertine, di costole e di colori, che scheggiavano la vista e lo sguardo d’insieme. Ha impressionato la marea incomprensibile di brutta letteratura e di scadente saggistica fiorite su quei banconi. Ma è un giusto prezzo da pagare se, la conseguenza, potrebbe essere la totale sterilità o, ancor peggio, l’ancor più drammatica proliferazione di e-books che, con il loro basso costo di realizzazione e la loro tipica immaterialità (per non parlare della sterilità grafica), non potranno che far aumentare il delirio scrittorio degli italiani e, al contempo, favorire il totale silenzio che li accoglierà. Il nulla che le loro idee e le loro parole nutriranno.
Le forze in campo sono ben chiare, fin dall’ingresso nel Salone: è chiaro dove siano i grandi e dove languiscano i piccoli. Feltrinelli, Mondadori, Rizzoli, Einaudi: non soltanto esposizioni di libri ma veri e propri luoghi di strategie, di marketing. Dove le vetrine sono abbellite al centimetro, dove non si scova un solo granello di polvere, dove non importa cosa ci sia lì, al cospetto di tutti, purché sia quel solo prodotto che deve vendere (e che deve farlo a livelli forsennati). Impressionante la RCS, nel suo asettico allestimento, d’un agghiacciante bianco abbagliante, quasi fosse un ospedale, dove i libri risaltano, sì, ma dove manca completamente il calore umano che un libraio saprebbe infondere; e persino un piccolo editore, perché quando vende i propri libri diventa, oggettivamente, un libraio lui stesso. E se li coccola, come fossero figli. Perché ognuno di loro gli ha portato via energie, soldi, persino un po’ di vita.
Ed ecco, è laggiù che languiscono i piccoli, pigiati in sette in uno stand, con l’orgoglio di chi è fiero di ciò che pubblica e la speranza che, un loro titolo, diventi magari “Harry Potter”. Oscuri, un po’, gli editori a pagamento, che allettano gli scrivani con le loro copertine tutte uguali, messe insieme con un gelido word art, e un altrettanto gelido interesse per le sorti della scrittura. Divertenti, all’opposto, gli spazi regionali, sia per chi è lontano e si ritrova la sua regione vicino, sia per chi ha voglia di conoscerne di nuove, e di avvicinarsi a nuovi mondi, nuovi angoli d’Italia. Oltre al libro, infatti, lì c’era la cultura del territorio, e ognuno si vantava dei propri meriti, dissimulando negli stand altrui i demeriti.
La Mondadori, tanto per non far scappare nessuna porzione di mercato, non campeggia solo con il suo esercito di titoli e autori best e long sellers, ma piantona il campo anche col suo franchising: dove si vendono libri la più grande casa editrice italiana punta anche a fagocitare i librai indipendenti che, dalla fiera, non hanno certo benefici. Forse, questo, insieme a “Più libri più liberi” di Roma (decisamente più snella e vivace, più avventurosa e selvaggia), è il momento dell’anno in cui più si compra: compulsivamente, quasi alla cieca, senza chiedersi neppure più di tanto se quell’inchiostro sulle pagine dà vita a un prodotto utile, o anche solo apprezzabile. Ma si compra, si compra. Ed è anche un bene, per lo scarso pubblico librario italiano, ma causa anche un buon numero di danni.
Ma il digitale, in tutto ciò, dov’è? Un solo editore di e-book, in tutta la fiera. Due o tre stand, di Sony, Ibs, Amazon che propongono costosi reader: la gente preferisce accasciarsi sulle uniche poltrone di tutto Lingotto Fiere. In pochi occhieggiano l’elettronica esposta. Troppo distante, forse? O troppo stanchi? Del resto, la carta pesa. E le borse sono piene. Le percentuali dei comunicati stampa parleranno anche chiaro, ma l’impressione che si aveva percorrendo la fiera era che l’e-book, il digitale, fosse ancora lontano dalla mentalità dei visitatori. Quasi tutti hanno l’iPhone, è vero; ed è altrettanto vero che diversi tablet, primo fra tutti l’iPad, cominciano a essere avvistati, in mani insospettabili. Ma perdura ancora l’emozione di tenere un libro vero tra le mani, di annusarlo, di sfogliarlo, di leggere l’inchiostro. Perdura, insomma, l’esperienza tattile che, fino a poco fa, era imprescindibile nella forma mentis della nostra lettura. “Primavera digitale” era intitolato quest’anno il Salone. Ma, si sa, le mezze stagioni non esistono più; e uscire da Lingotto Fiere con una borsa pesante di carta e di sillabe stampate pare sia ancora più appagante che uscirne con l’esosa leggerezza d’un dispositivo elettronico.