“Valdostani. Guida ai migliori difetti e alle peggiori virtù”.

valdostaniGiulio Gasperini
AOSTA – Le guide non servono solamente per conoscere i luoghi né per scovare le bellezze da non perdere. Le guide servono anche per capire gli abitanti. E probabilmente sono, per questo, anche più utili. Le Edizioni Sonda l’avevano intuito: a loro il merito di aver pubblicato una serie di guide, nella collana “Le Guide Xenofobe”, alle varie popolazioni italiane, dai torinesi ai cuneesi ai triestini ai fiorentini. E ai valdostani, il cui ritratto fu affidato a due che valdostani lo sono per ‘adozione’: Vincenzo Calì e Giulio Cappa. I due giornalisti idearono “Valdostani. Guida ai migliori difetti e alle peggiori virtù” nel 1997, ma quasi dieci anni dopo, nel 2006, l’editore chiese una revisione del materiale, per adeguarlo al passare degli anni e ai cambiamenti socio-culturali. Il giudizio dei giornalisti fu comunque impietoso, né si attualizzò molto: “Pensare i valdostani come un popolo che si trasforma negli anni significa decretarne la fine. La cultura valdostana è definita una volta per tutte, e non si può toccare senza minacciarne la purezza”.
Il titolo della guida è ampiamente esplicativo del suo contenuto: la Valle d’Aosta e i valdostani sono descritti impietosamente, con un’ironia e un’arguzia profonde e calibrate, ma mai offensive né volgari. Si prendono di mira i luoghi comuni, le immagini che automaticamente vengono in mente non appena si sente nominare Aosta e la sua Valle: dalla fontina alla grolla, dalla Fiera di Sant’Orso ai monti più alti d’Europa (anche se i valdostani “con sottile inquietudine attendono il momento in cui le cime degli Urali verranno considerate Europa a tutti gli effetti”). Ne vengono svelati i difetti “migliori”, come il presunto utilizzo del francese, e le virtù “peggiori”, come un legame maniacale con la terra d’origine, anche in caso di trasferimento, in Francia nella maggior parte dei casi (particolarmente divertente il capitolo dedicato a “Quelli che ritornano”, ovvero gli émigrés). Soprattutto se ne prende di mira il loro attaccamento morboso alla welfare Region, ossia alla Mamma Regione, che in virtù dello statuto speciale (la prima regione italiana a vederselo riconosciuto, nel 1946), dispensa e compensa agevolazioni e contributi per ogni genere di necessità: “Nessun aspetto della vita dei valdostani è trascurato”. Anche se adesso, in tempi di crisi, sarebbe meglio correggere con un imperfetto. E poi si analizza la popolazione (“La Valle d’Aosta è piena di calabresi, arrivati a ondate successive a partire dagli anni Quaranta”), il turismo, le bataille des reines, il Casino de la Vallée e la Carte Vallée (oramai passata testimonianza dei buoni benzina). La parte politica è quella decisamente più sfiziosa e divertente, dove i due giornalisti analizzano soprattutto il prototipo valdostano, molto frequente, del “dipendente regionale”. Scritto con uno stile divertente e divertito, il testo colpisce soprattutto chi si avvicina, dall’estero, a questa regione tutta particolare, per la sagacia penetrante e la lucidità sorprendente. Tra un sorriso e una risata soffocata, si riflette e si medita su quanto di naturale e genuino ma anche di contraddittorio e assurdo sopravviva ancora in questa piccola piega di mondo, dove gli abitanti sono appena 127.000 e i consiglieri regionali ben 35.