"Siamo state a Kirkjubaejaklaustur", fuggendo tutto e tutti (tranne sé stessi)

Giulio Gasperini
ROMA
Un reportage, più intimo che sentimentale, di un viaggio in Islanda, terra remota e d’arcane definizioni, redatto da Valeria Viganò: ecco “Siamo state a Kirkjubaejarklaustur” (paese che, se pur tentando, non può nulla, in lunghezza, con Llanfairpwllgwyngyllgogerychwyrndrobwllllantysiliogogogoch, in Galles), pubblicato da Neri Pozza nella collana Il cammello battriano nel 2004. Due donne italiane partono per un viaggio on the road, desiderose di spazi vuoti e vuoto di rumori, di orizzonti sconfinati e vaporosi, del sotto che si confonde col sopra, e delle direzioni che paiono stordirci ma non depistarci.


La loro guida è Auden, che viaggiò in Islanda, beandosi della sua latitanza, e scrisse delle struggenti Letters from Iceland, nelle quali si scontorna il limite tra percezione sensoriale, visione paesaggistica ed evoluzione sentimental/esistenziale.
Cosa spinge due donne a sfidare l’Hringvegur, l’unica superstrada d’Islanda, la numero 1, che da Reykjavik torna a Reykjavik dopo aver compiuto un giro di perfetto anello? Cosa le costringe a meravigliarsi di fronte allo sterminato orizzonte di ghiacci, che le obbliga a confrontarsi con il nulla, col deserto che, solo, stabilisce le leggi e regola i limiti?
I luoghi desertici, che siano aridi o gelidi, impongono agli uomini una terribile violenza: il trovarsi di fronte a sé stessi, senza salvezze né vie di fuga. Noi, nel deserto, siamo gli unici nostri interlocutori. Ecco perché, qualche volte, in un qualche momento per tutti differente, sorge in noi il desiderio, se non addirittura il bisogno imperativo, di smarcarsi dall’umanità, di disertare il consorzio civile per ritrovarsi con noi stessi, e per riflettere sulle proprie condizioni e suoi propri spasimi. Per dare risposta alle domande, o magari solo per bearsi delle domande senza risposta.
L’Islanda pare una terra appropriata, per fare questo. Perché non si incontrano macchine per chilometri, perché la tecnologia pare ingoiata dalla natura, perché il mondo, quello continentale, pare lontanissimo. Ma anche qui l’uomo rovina, la natura soccombe. E questa pare una delle sole conseguenze che non hanno soluzione. Un peccato per la remissione del quale non esiste nascondiglio mai troppo lontano.

"Bloody Europe!", un’alternativa all’Europa (vera)

Giulio Gasperini

ROMA – Hai mai passeggiato sulla Prenzlauerallee, a Berlino, pensando a quanti, prima di te, l’han già percorsa e a quanti, dopo di te, la percorreranno? Sei mai andato da Manarola a Corniglia, seguendo a piedi il sentiero, a strapiombo sul mare? Oppure, ti sei mai chiesto che incontri potrebbero accadere nelle Lowlands scozzesi? E ancora, hai mai immaginato cosa potesse succedere nelle terre dell’Est, per così tanti anni sprangate alla curiosità e alle ragioni dell’Occidente?
Ognuno di noi potrebbe raccontare ogni spazio d’Europa da un’angolazione alternativa; filtrata attraverso un’esperienza che sia sua e inconfutabilmente sua. Ecco il motivo per il quale si fa così interessante questo volume, edito nel 2004 dalla Playground, fiera e orgogliosa casa editrice romana. “Bloody Europe!” è una raccolta di gioiose e gaie declinazione d’un’Europa che si affaccia al nuovo millennio, sospesa tra il suo ingombrante retaggio di Vecchio continente e le nuove sfide lanciate dalla modernità.
C’è voce e spazio per tutti, in codest’Europa, dalle frontiere che magicamente, come al suono d’una parola magica, si schiudono alla scoperta e alla rivelazione. Ed è, soprattutto, un’Europa che non conosce inibizioni, né tentennamenti: un’Europa coraggiosa di sé e della propria identità, che affronta il cambiamento e la sua fisiologica metamorfosi con il coraggio – e l’orgoglio – della terra che è, ricca del suo patrimonio culturale e umano. E su questo patrimonio si adagia e si affida, sicura che saranno spazi tranquilli a custodirla, alla fine.
Grandi scrittori, molti all’epoca quasi esordienti (come Valeria Parrella, Rossana Campo, Elena Stancanelli, Gianni Farinetti, Giancarlo Pastore, Ivan Cotroneo) ci plasmano figure quasi mitiche, d’un’Europa che scorre intorno a noi, nel cui flusso anche noi siamo, consapevolmente o meno, immersi. Che tu sia stata battezzata, da altri, Annemarie Schwarzenbach e sia una femmina intellettuale svizzera, per molto tempo ritenuta pazza; o che tu ti sia volontariamente battezzata Tina e sia un transessuale genovese pazzo di Madonna, immersa nei problemi “che abbiamo tutte noi material girls”; che tu sia un ragazzo folgorato da un colpo di fulmine al Gay Pride di Roma; o che tu ti chiami Ruben Zaldarriaga, perseguitato dal regime fascista dell’Argentina ma, perché gay, ignorato dalla burocrazia e dalla statistica ed escluso dalle liste dei desaparecidos, non avrai problemi: ché l’Europa narrativa, riscattando la reale Europa politica e sociale, è capace d’accoglier tutti, rispettosa e fiduciosa.
Perché qui, in “Bloody Europe!”, l’Europa trova la strada giusta: scopre il coraggio di perdonarsi; e di diventare adulta.