La sapienza più giusta è proprio quella de "I bambini".

Giulio Gasperini
ROMA –
Sono senza dubbio anomali “I bambini” che Fausta Cialente getta, discreta e devota come sempre, sul palcoscenico narrativo di questi brevi ma sapidi racconti, pubblicati la prima volta nel 1976, da Editori Riuniti. La loro stesura è remota, è quasi contemporanea alla composizione del capolavoro, quel “Cortile a Cleopatra” che riteniamo uno dei maggiori romanzi italiani del Novecento. Tutti i racconti riportano la data in calce, e capiamo che non son stati più rivisti dalla scrittrice errante; tutti tranne uno, il primo, quella “Canzonetta” che dal titolo pare, invece, anticipare le tematiche dell’altro grande romanzo egiziano, “Ballata levantina”.

I temi, infatti, nella scrittura della Cialente, si ripetono con una certezza disarmante. Ma, contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, la sapienza narrativa della scrittrice, la sua perizia immaginifica sono tali che pur essendo gli stessi i temi non si ripropongono secondo le solite declinazioni, ma si diversificano, si significano sempre nuovamente. Tutto questo depone, chiaramente, a favore della maestria e dell’abilità della scrittrice, che insieme a Elsa Morante può vantare un discreto plotone di racconti d’alto livello (ed è noto come sia molto più difficile scrivere un racconto che un romanzo di vera qualità).
I bambini della Cialente edificano dei mondi fantastici, mondi nei quali l’onirico penetra discreto ma prepotente: dove le statue prendono vita e accompagnano alla fine delle sofferenze, dove le donne fragili si lasciano soffocare dalla vita opponendo, come unica resistenza, il loro genuino (ma insufficiente) sorriso, dove si creano alleanze e si organizzano ribellioni, dove ogni piccolo tradimento è valutato come la fine d’ogni legame. Sono storie, quelle della Cialente, dove le stagioni scandiscono la crescita e dove, inevitabilmente, ogni bambino finisce per maturare un’assennatezza, una saggezza di vita, che proprio per la sua spontanea fioritura finisce per confermarsi più autentica di quella nata e nutrita dall’accumulo polveroso degli anni.
Il punto di vista è spietato: è soltanto quello dei bambini. E la Cialente ce lo presenta senza la pretesa che noi lo consideriamo quello più importante; ma suggerendoci che, in realtà, potrebbe essere, per molti aspetti, il migliore. Ed ecco che una vedova diventa quasi una fata, che assume il significato della vita, della freschezza, della ribellione a un destino inglorioso. Ed ecco che, al momento della sua scomparsa, i bambini rifiutan tutto il resto, tutto quello che si vorrebbe loro imporre. Loro soli, infatti, sanno quel che è vero e quello che non lo è. O, se non lo sanno, se lo immaginano, senza sottostare ai condizionamenti.
I bambini, si sa, credono prima di tutto alle loro creazioni. E separarsi da queste, per loro, è sempre una violenza.

"Un inverno freddissimo": quanto può una donna sopportare(?)

Giulio Gasperini
ROMA –
Abbandonò (già dal titolo) le ambientazioni levantine dei suoi due romanzi precedenti Fausta Cialente quando, nel 1966, pubblicò con Feltrinelli il suo terzo romanzo, candidato poi al Premio Strega. “Un inverno freddissimo” è quello del ’46-’47: in una Milano ancora stordita e frastornata Camilla – una donna che la Cialente plasma con sapienza e consapevolezza, con orgoglio e fiducia – si sente investita dell’ingombrante compito di ricomporre i relitti di una famiglia che, come tante altre, la guerra aveva menomato e smembrato. Le colpe, i pregiudizi, le antipatie devon esser combattute e vinte, perché nulla più della famiglia può permettere all’individuo di tornare a vivere; e a riappropriarsi del proprio già incerto futuro. E l’umanità felpata che la Cialente mette in scena, orchestralmente, si muove in una disagiata (e disagiante) soffitta, divisa da sottili pareti di stuoia, dove il rispetto del privato è soltanto un miraggio lontano e l’insofferenza della promiscuità cresce alla presa di consapevolezza della fine della guerra.


L’impresa per Camilla sarà ardua, complessa: in questo suo mondo, diviso tra città e campagna, il passato non si chiude mai definitivamente e il presente si infesta di fantasmi e presagi che finiranno per tiranneggiare il futuro. Quel che la Cialente, però, mantiene sempre acceso e in estrema tensione, è l’incrollabile fiducia che il domani possa essere migliore; e che, con l’ultimo punto, la storia non finisca, ma possa, con sicuro sospetto, virare verso ben altri panorami.
Negli anni in cui la Cialente tornò in Italia l’attenzione degli scrittori, da Elio Vittorini (Uomini e no) a Luciano Bianciardi (La vita agra), era focalizzata – quasi ossessivamente – sulla condizione di Milano e degli italiani che, a Milano, vivevano un faticoso periodo di ricostruzione bellica e di ri-consapevolezza del sé. Sicché anche la Cialente decise, chissà quanto programmaticamente, di assumere il punto di vista di questa umanità che continuava a combattere, nonostante la guerra fosse ufficialmente (e burocraticamente) terminata. La sua, ovvio, non fu un’adesione al neorealismo; forse nemmeno una tangenza. Fu una vicinanza di ambientazioni. Ma in lei, come in Bassani, le intermittenze del cuore son troppo evidenti, le rapsodie mentali troppo importanti, per poter parlare di sua aderenza alla poetica del neorealismo.
Siamo lontani dalla dittatura del vero: il mondo della soffitta di Milano è tutto interiorizzato, attraverso punti di vista che gemmano e si moltiplicano, ma che si fondono in una vita altra; in un affresco dove esistono le ombre, dove i colori straripano e dove la linea – dolce e sottile – in definitiva un po’ scontorna.

"Cortile a Cleopatra", un’amara fiaba moderna

Giulio Gasperini

ROMA – Le fiabe, ai nostri giorni, non principiano più con C’era una volta… Colpa della globalizzazione, forse; colpa della modernità che macina i giorni uno dopo l’altro, e li tritura, li frantuma, li mastica senza lasciarne altro che polvere e vaghi ricordi. Il caro e vecchio “c’era una volta” ha perso il suo fascino discreto, il suo potere evocativo.
Non per questo, però, le fiabe si son estinte: pur pagando un grave tributo, han cercato, anche loro, di adattarsi al nuovo ambiente, d’evolversi, e in un certo qual modo son riuscite a sopravvivere. Grande scrittrice di fiabe moderne fu Fausta Cialente, soprattutto in quel che si considera il suo capolavoro, “Cortile a Cleopatra”, edito per la prima volta nel 1936, dall’Editore Corticelli di Roma, accolto da un gran successo di critica e pubblico, e poi irrimediabilmente perduto nell’oblio editoriale (oggi, forse, rintracciabile, di un’edizione, non molto datata ma ugualmente difficilmente reperibile, di Baldini Castoldi & Dalai editore).
Le avventure di Marco, figliol prodigo che torna, dopo anni, dalla madre, la secca greca dal nome divino, Crissanti, s’avvicendano sullo scenario del cortile a Cleopatra, un quartiere di Alessandria d’Egitto. Le case che vi affacciano sono fatiscenti ma i personaggi, al contrario, son affascinanti: dànno vita a una magia collettiva, a un comunismo umanitario che ha antichi sapori, antichi legami oramai persi, di microsocietà cittadine oggi estinte. Personaggi dai nomi evocatori di luoghi remoti, esotici, profumati di spezie, odorosi di legni pregiati. Haiganúsh, Polissena, Abramino, Eva e tutti gli altri, così familiarmente introdotti nella narrazione della Cialente, come se già li conoscessimo da anni, come se fossero sempre stati, da qualche parte, nostri compagni d’avventura, orchestrano le loro storie toccandosi, ritrovandosi ogni sera sotto il fico che, immobile, al centro del cortile, guarda come un dio distante i destini allacciarsi e spezzarsi. Ci sono greci ortodossi, levantini dalla multiculturale identità, italiani dalla parlata storpiata, armeni abili nei commerci ed ebrei raminghi: tutto un mondo dentro un cortile, tutta una vita corale dallo scomporsi delle diverse singole vite. Sapiente tessitrice, la Cialente è anche un abile burattinaio: ogni personaggio è legato saldamente alle sue dita che scorrono veloci nella narrazione, senza mai un inciampo o un’esitazione, edificando una coralità che è tale sia nelle esultanze che nei gemiti di sofferenza.
Marco sarà costretto a scegliere tra due donne, due promesse di diverse vite: la ricca Dinah e la più ribelle Kikí ma la sua risoluzione finale porterà la sciagura su tutto il cortile e sui suoi abitanti, travolgendo tutti nella catastrofe. Perché tutte le fiabe, nella realtà, si convertono in dolore.