"L’acino della notte": del ciclo stagionale, ovvero della nostra sopravvivenza.

Giulio Gasperini
ROMA –
L’uomo non può vivere senza la natura. La natura, viceversa, può esistere (e indubbiamente lo fa meglio) senza l’uomo. E non è un discorso soltanto ecologista, questo, ma, come appunto si scopre dalle poesie di Giuliana Rigamonti, è anche un discorso poetico. Sì, perché l’uomo è sempre vissuto suddito del ciclo stagionale: sono stati i freddi e i caldi, i dì brevi e i dì lunghi, il ritorno di Zefiro e la sua partenza, a condizionare le scelte, quelle più quotidiane ma più fondamentali, del genere umano tutto, in ogni sua latitudine e longitudine. “L’acino della notte” (eccellente volumetto pubblicato dalla grande casa editrice Scheiwiller, nel non remoto 2006) è un cammino iniziatico, fors’anche un po’ misterico (e in questo senso si spiega l’abbondante ricorso della poetessa ai geroglifici egizi, al loro potere significante e alla loro vastità di significato), in un’educazione stagionale che ci permetta di ritornare all’origine del nostro cammino.

Così ci convinciamo, di nuovo, dell’indispensabilità che la natura sia rispettata (e, soprattutto, obbedita).
L’uomo vive se (e solo se) segue docile il ritmo delle stagioni, il loro lente e persistente convertirsi dall’una all’altra, dall’inverno alla primavera, dalla primavera all’estate, dall’estate all’autunno, dall’autunno all’inverno, rincorrendosi sempre in un ciclo continuo e costante; ma mai monotono – ed è questa la più straordinaria portata della poesia della Rigamonti. Ogni evento stagionale, pur nella sua prevedibile ciclicità temporale, lascia sempre l’uomo senza fiato, perché è pur sempre una prima volta: nulla è mai uguale, identico, se non l’idea che supporta il tutto. “Il grido di caccia / delle stelle”, le ombre che “cantano sempre da sole”, la “luce matura fra le persiane” sono tutti legami che (co)stringono l’uomo in un perenne debito di riconoscenza. La natura è feconda, generosa (“il geco scoppia di luna”); la natura è la referente di ogni declinazione d’umano (“Io comincio dove il tramonto brucia / nel tuo sguardo”); la natura vince e libera dalle avversità (“I limoni raschiano la nebbia”).
Ed è la natura la risposta al tutto. Anche in poesie di straziante contemporaneità, come quella intitolata “Clandestino”, nel quale Lampedusa si trasforma in pietosa spettatrice del dramma più sordo del nostro tempo: “Niente resterà di questo viaggio. / Per un giorno galleggerà il mio nome / nelle brevi di un giornale / tre righe che nessuno legge / nere / silenziosamente nere”.
Perché non rimane altro che perdersi nella natura, riconsegnarsi a lei, ingenuamente (nel senso pure del termine) e “spingersi oltre il limite delle dune / che non hanno limite e frugare le sabbie / che cadono fra le dita come giorni / nel granaio, per valutare il grano / rimasto e quello da versare”.

Settanta volte sette onde

Giulio Gasperini
ROMA –
Come si declina l’assenza della passione d’amore? Come si concreta un’ars amandi che fu? Come si oggettiva un antico possesso erotico? Come un letto che “campa di ruggine”; come un’assenza di stagioni; come luce disabitata negli occhi d’un’innamorata; “una penna di rapace / che ora nell’agenda divide il quattro / dal cinque luglio”; come foglie che si ammucchiano “nel cavo della sera”.

Potente è la poesia che Giuliana Rigamonti squaderna in questa silloge: “La settima onda” (ES Edizioni, 2003). Potente ma lieve, pura ma furiosa come un’improvvisa tempesta di neve: furente di tutto quell’erotismo che così prodigiosamente le sue sillabe, le sue parole sanno esprimere, sanno declinare.
Perché l’assenza di passione implica che una passione anteriore sia esistita, una passione che deflagrò mentre “l’auto corre fra campi di lavanda” della Camargue francese, o mentre sorprendiamo noi stessi nel ricordo di quando si contavano “i rimbalzi di ciottoli sull’acqua”. È una passione che si allea la natura intera (“Gonfie, le vigne a mezza costa / srotolano frenesie di vendemmie”; “Ti traduco il bosco che precipita / nel lago”); è una passione che si esagerava eterna, nelle solite promesse degli amanti (“Moriremo così, dici, / mano nella mano”); una passione che era incomunicabilità o forse solo gelosa brama di possesso (“Nessuno che colga / i segni incisi sulla pietra”).
Non è facile poetare l’erotismo: il rischio di diventar volgari, grossolani è facile e concreto. E una poesia sguaiata non è certo una poesia erotica. Sarà per questo che le donne son più abili, a scriverla. Rimane comunque la soddisfazione di leggere questo rosario di poesie, questi germogli che la Rigamonti – una delle migliori voci poetiche contemporanee e, per questo, ampiamente sconosciuta – inanella armoniosamente, che fa gemmare amabilmente. È come seguire, in una contabilità evangelica, settanta volte sette onde di erotismo, sbocciato nel quotidiano. Perché l’eros è cosa seria; quasi santa. Ma anche così normale; quasi casalinga.