Silvia Notarangelo
ROMA – Jacques Derrida non ha certo bisogno di presentazioni. Francese, di formazione fenomenologica, deve la sua fortuna filosofica alla tematizzazione del decostruzionismo.
Nel 2011, a sette anni dalla sua scomparsa, Mimesis Edizioni ha pubblicato “Gli occhi della lingua”, un volume curato da Luigi Azzariti-Fumaroli, in cui il Derrida riflette su una lettera del 1926, indirizzata da Gershom Scholem a Franz Rosenzweig.
La sua è una “lettura interna” che si sforza di attenersi il più possibile al testo tralasciando eventuali contaminazioni, richiami o commenti personali.
Nella lettera Scholem manifesta tutta la propria inquietudine di fronte a ciò che ha identificato come un “male interiore” che sta progressivamente lacerando il sionismo. Si tratta della secolarizzazione, della modernizzazione della lingua ebraica, in parte legata alle necessità della comunicazione quotidiana. Un male che, secondo Scholem, porterà non solo alla perdita della lingua sacra, di una lingua per natura non concettuale, ma determinerà anche un suo “ritorno vendicatore”, destinato a colpire quanti l’hanno profanata. Perché se è vero che non si può evitare di parlare la lingua sacra, si può, però, parlarla nello “scostamento, nella distrazione, come dei sonnambuli sopra l’abisso”.
Il tono, di ispirazione apocalittica, non lascia però trapelare quale sia il vero atteggiamento di Scholem, se di paura o di speranza in un ritorno della voce di Dio attraverso una lingua pronta, in qualunque momento, a risvegliarsi.
Non meno contraddittoria, come osserva Derrida, è anche la sua posizione in merito alla secolarizzazione. L’attualizzazione della lingua sacra è, in realtà, impossibile, la secolarizzazione non è altro che una “façon de parler”, una fraseologia vuota, un mero artificio retorico. E allora, non esiste alcuna lingua cattiva che viene a corrompere una lingua sacra, ma una “non-lingua alla quale si sacrifica la lingua sacra”. Un sacrificio che, nel distruggerla, non potrà che manifestarla e salvarla.