Giulio Gasperini
AOSTA – Le due bombe atomiche sganciate dagli USA sul Giappone nel 1945 hanno segnato la storia dell’umanità: due distruzioni – senza precedenti né immaginazione – che hanno sancito anche un cambio radicale dei rapporti geopolitici. Ma per le popolazioni di Hiroshima e Nagasaki sono state, anzitutto, due esperienze di morte e dolore, di cambio radicale di vita e di prospettive. Hara Tamiki è lo scrittore giapponese che più legò la sua esperienza di scrittura alle conseguenze di questo evento. La Atmosphere libri, nella collana Asiasphere, ha pubblicato i racconti de Il paese dei desideri, una sorta di testamento storico e spirituale del giovane scrittore che patì sulla sua pelle l’esperienza dell’atomica.
Tamiki, come sottolineato dallo stesso Ōe Kenzaburō, è stato colui che – con una lingua splendida ed estremamente elegante e calibrata – tra tutti gli scrittori giapponesi ha saputo entrare nel dramma della bomba atomica e diventare il cantore più efficace dei drammi, dei dolori, delle sofferenze patite dal popolo giapponese. I suoi racconti sono un vortice di pensieri che precipitano la mente umana fino al fondo dell’essere e lo costringono in una nuova dimensione, totalmente deformata e prostrata dall’esplosione, dal calore, dalla violenza silenziosa e invisibile delle radiazioni.
Le ustioni, la sete senza fine, l’accecante luce sprigionata: l’attimo è uno, quello dell’evento; ma le ripercussioni feroci – fisiche e psicologiche – durano anni, si dilatano sconvolgendo menti e corpi. E questo è quello che Tamiki racconta e vuol far sapere al mondo: quanto sia stata crudele e oltremodo assoluta la ferocia dell’atto. Sono racconti di uomini disperati, di un’umanità che pare sconvolta, impazzita nella sua componente più profonda e intima, nonostante siano passati anni da quei tragici giorni. Sono racconti di una rabbia difficilmente repressa, che affiora costantemente senza mai esplodere in ferocia cieca e barbara.
Ed è soprattutto, nelle pagine di Tamiki, la comunità a farsi portavoce del dolore e del disperato futuro. È una pluralità di voci, spesso trasmesse attraverso la prima persona – testimonianza più viva, diretta, crudele del massacro – a, perentoria, accusare pur non accusando, a indicare i colpevoli pur non puntando nessun dito. Perché nessun’accusa è più ficcante e potente della narrazione – cruda e concreta, veritiera e plastica – di come la realtà, da quei due giorni sciagurati, si è declinata.
Il dramma – senza fine – della bomba atomica
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