Michael Dialley
AOSTA – Ci sono tantissimi stili e movimenti artistici nella storia dell’arte. Si è sempre incasellato tutto in rigidi schemi, non chiedendosi, però, se sia davvero giusto definire un’opera d’arte, un artista, a seconda delle somiglianze e dei contributi di un movimento culturale. Può valere, questo, per alcuni artisti, soprattutto se molto legati a circoli culturali; ma per alcuni non si può fare, basti pensare a Rubens, a Caravaggio, a Mirò. E anche ad Alberto Giacometti. Originario della Svizzera italiana, nato nel 1901, Giacometti ha una concezione dell’arte che deriva solamente dalla sua visione del mondo, da come concepisce la realtà nella quale vive.
Ives Bonnefoy ci fa conoscere l’uomo-artista Giacometti grazie al saggio “Alberto Giacometti”, edito da Abscondita nel 2004, nel quale si può toccare con mano quanto la produzione artistica dell’artista sia profondamente legata ed influenzata dalla sua visione del mondo.
Si ripercorre tutta la vita dell’artista svizzero, toccando gli episodi della sua quotidianità, dai primi studi all’Accademia di Ginevra, all’adesione al gruppo surrealista della Parigi degli anni ’20, arrivando poi alla sua produzione matura, quando raggiunge una maggiore consapevolezza di sé stesso e della propria arte.
Quello che emerge è il ritratto di un artista profondamente angosciato, che si preoccupa di voler concretare la presenza, la vita in quanto essenza, che abita il corpo umano; argomento, questo, che attirerà nel suo piccolo atelier parigino molti intellettuali e letterati, tra i quali Sartre, non a caso il più grande esponente dell’esistenzialismo.
A Giacometti non interessa la figura da un punto di vista estetico, della forma, bensì vuole dare alle sue sculture la vita che alberga in ogni uomo. Per raggiungere questo obiettivo inizia rappresentando dal vero le figure che incontra; a un certo punto, però, le immagini gli appaiono distorte e utilizza la memoria, ricorda ciò che ha visto nella sua infanzia, nella sua adolescenza, avvicinandosi, così, alla componente più irrazionale e istintiva propria del circolo surrealista. Questo non è che una tappa, che porta l’artista a realizzare l’inafferrabilità della sua arte.
Ecco che inizia il suo grande lavoro, interiore ed artistico, di comprensione della vita, della condizione umana, della componente esistenziale: osserva il viso, lo sguardo delle persone, l’unico elemento che meglio di tutti coglie l’interiorità, l’intimità più profonda di ogni uomo. E, una volta trovato il punto focale, l’uomo cammina, procede, avanza, ma verso che cosa? Questo Giacometti non lo esprime, lui semplicemente vede l’uomo che va sempre oltre, che cerca sempre qualcosa, che nonostante le due grandi Guerre mondiali è riuscito ad andare avanti, a rialzarsi.
Questo ciò che ci racconta Bonnefoy e che raccontano, in maniera straordinaria, anche i due racconti scritti da Giacometti stesso, che sono riportati in appendice al saggio, “Il sogno, lo Sphinx e la morte di T.” e “Lettera a Pierre Matisse”.
Un artista da conoscere, che ci comunica qualcosa, che ci pone delle domande grazie alle sue opere, ma che non ci dà risposte, ma che anzi, invita ognuno di noi a giungere alle proprie conclusioni, in quanto crede che ognuno, dentro di sé, abbia le risposte o le potenzialità per trovarle.
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