Giulio Gasperini
AOSTA – Esplode come un thriller, come un giallo psicologico il nuovo romanzo di Gianni Nuti, “Nel mare del caso” (Mauro Pagliai Editore, 2012). Ma il cadavere che subito si racconta, che si presenta con nome cognome e indirizzo – quasi esigenza di novello battesimo e riconoscimento sociale – non ha fretta di accompagnare il lettore al disvelamento del colpevole. Ci fornisce gli indizi, ma sempre in sottrazione, avanzando alla ricerca non tanto del (presunto) omicida, quanto della sua intima ultimazione personale, frammento su frammento, ricordo dopo ricordo; ammissione su ammissione.
La storia – la cornice più ampia – è una saga familiare: un uomo e una donna, entrambi dai pensieri silenziosi ma dai gesti pratici, si scoprono a dover amare la loro figlia affetta da tetraparesi spastica. La fredda clinicità della diagnosi pare togliere il valore umano della bambina, pare negarlo risolutamente, come se prima di tutto quell’esserino nuovo di zecca fosse un problema da risolvere e non una vita da coltivare. La guerra dei genitori comincia da subito: una guerra contro tutto il mondo. Anche contro sé stessi, auto imputati di non esser stati in grado neppure di concepire un figlio che fosse “normale”. Poi una guerra contro tutti gli altri, in un continuo sentirsi giudicati e compatiti; è un suicida gioco alla ricerca dei motivi di questo naufragio “nel mare del caso”, di questa che pare punizione riservata ai più miserabili tra gli uomini.
Nessuno, però, pare soffermarsi sulla ragazza, su Alma, che vive nei suoi tempi, che gestisce le sue pause, che alimenta le sue ragioni. Alma si fa sentire, urla disperatamente nel romanzo, proprio perché nella vita nessuno l’ha ascoltata, nessuno l’ha sentita, diffidando (e fraintendendo) della sua afasia. Nessuno, realmente, ha capito che la velocità non è la stessa per tutti. In definitiva, nessuno ha capito (o voluto comprendere) tutta la potenza della sua diversità. Forse la sorella, la piccola Paola che, nata dopo, si è trovata troppe responsabilità a gravarla, troppi significati di cui rivestire la sua esistenza. Tanto da maturare una decisione estrema, di privazione del corpo, quasi in un contrappasso che odora di punizione, di crudele inflizione.
La pregevole tessitura di tipologie narrative, dal racconto in terza persona alla lettera, forma ben calibrata di confessione, aumenta il ritmo e lo impasta di attesa, di tensione intima ed emotiva. Lo stile è diretto, scarno, con alte punte di liricità, soprattutto nella descrizione del rapporto biunivoco tra umani e ambiente. Tutto, insomma, dal punto di vista stilistico e tecnico, supporta il pellegrinaggio dell’anima di Alma, la sua significazione che altro non è se non un ultimo, disperato tentativo – ricorrendo alla parola scritta, visto che quella sussurrata, quella spezzata della voce, è stata pressoché inutile – di quantificare la propria vita: un’apologia spietata, una grammaticalizzazione intima che può contare su una consapevolezza feroce, lucida, disarmante.
Alla fine, non importa neppure aver la certezza di chi sia l’assassino, o se un assassino ci sia mai effettivamente stato. Alla fine, ciò che importa è capire la potenza e il ruolo della parola. Perché questo è un romanzo delle poche voci. Le uniche, le più, non per caso, sono quelle dei medici, della scienza: di quanto, insomma, più concreto e risolutivo possa esistere. Ma le vite, le esistenze, ebbene, loro non conoscono una parola che sia esclusiva ed esauriente. E soprattutto una parola che crea fraintendimenti. Perché la parola congiura. Spesso, la sua assenza equivoca. Non c’è possibilità d’appello, per chi non conosce il verbum. Come ci si può difendere? Soltanto gli occhi, soltanto i gesti paiono non esser abbastanza. Paiono non esser quasi nulla. Ma le ultime parole di Alma, rivolte soltanto a noi lettori, sono un testamento lirico, una decisa e risoluta ammissione di consapevolezza; mai tardiva, ma netta, inappellabile. Perché ogni vita ha una meta e non c’è mai indifferenza. Ci può essere distanza, incapacità comunicativa, insofferenza emozionale. Ma mai indifferenza.
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