Giulio Gasperini
AOSTA – Sul cibo si scrivono sempre opere deliziose e gustose. E l’accoppiata cibo-letteratura ha sempre avuto dei rapporti stretti. Lo testimonia anche l’iniziativa dell’associazione Slow Food, che ha deciso di presentare una serie di brevi racconti di “cucina letteraria” in una “piccola biblioteca”, curata da Giovanni Nucci, che vede interventi, tra gli altri, di Simonetta Agnello Hornby, Nicola Lagioia, Massimo Carlotto, Moni Ovadia e Matteo Codignola. In ogni volume, oltre alla storia, sono “raccontate” una serie di ricette deliziose, da riproporre e assaporare in continuazione.
La “Metamorfosi” di Kafka è lo spunto da cui parte l’avventura raccontata da Moni Ovadia, che ci accompagna così in un dolcissimo viaggio tra i prodotti tipici dell’arte dolciaria ebraica. La storia è nota: un uomo si sveglia e non è più un uomo, ma qualche altra cosa; in “Il glicomane” l’uomo in questione si ritrova trasformato in un dolce; ma non perché abbia preso l’aspetto di un budino o di una ciambella; ha semplicemente troppo zucchero nel sangue per essere un uomo: dovrebbe essere già in coma, ma lui continua a vivere. La sua smodata passione per i dolci lo ha cambiato costituzionalmente: non c’è nessuna soluzione, perché il suo cambiamento è un “evento mistico”: la passione per i dolci ha “provocato un cortocircuito nelle relazioni biopsichiche” dell’organismo. Uno dei suoi dolci preferiti, una sorta di madeleine proustina, che lo riporta all’infanzia e lo fa cullare nei ricordi è la khalvà, il sui ingrediente principale è una pasta oleosa di sesamo detta tkhina, lavorata poi con zucchero, miele e aromatizzata alla vaniglia.
Massimo Carlotto racconta invece, in “L’arrosto argentino”, il rito sontuoso dell’asado: inseguendo la storia di Zorro, il protagonista del breve ma sapido racconto incontra a Buenos Aires un uomo di origine veneta, che di Zorro era stato assistente nel suo circo. Con questo sconosciuto, Vinicio Ortolan, si instaura un rapporto difficile e complesso, giocato su reticenze, omertà e rumorosi silenzi, gravidi di parole. Ogni incontro, ogni dialogo, è scandito dal rito del cibo: non solo della sua degustazione, della piacevolezza del gusto che esplode in bocca, ma anche della sua preparazione, dei sensi che lentamente sono accesi e funzionali, dell’arte nel saper dosare, poggiare, lasciare in cottura, girare e profumare. Il consumo dell’asado argentino ha una sua teoria, complessa ed elaborata, colma di una sua dignità estrema: il buon asado può essere jugoso, a punto, bien cocido, crocante. E l’asador è il sacerdote che supervisiona la perfetta e compiuta realizzazione dell’incantesimo. A fianco dell’asado, ci sono le salse, che spesso anticipano la cottura. E tutte le verdure che contornano e sublimano il gusto. L’asado è “un rito, una liturgia dedicata all’amicizia”: “Sono trascorsi molti anni e non ho mai smesso di arrostire, mescolando culture diverse, per celebrare il rito della conversada amistad”. Anche se l’asador, nel suo ruolo sacerdotale, è solitario e scostante, dedito alla carne e alla sua cottura; non sono ammesse deroghe né concessioni: “A volte accendo il fuoco solo per me stesso. El gran solitario può sognare. O semplicemente ricordare”.
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“Street Food all’italiana”: il buono e il bello di mangiare con le mani
Giulia Siena
ROMA – “Un viaggio lungo tutto lo stivale, emozionante e coinvolgente, alle radici della cucina italiana più verace, semplice e generosa, fatta di pochi ingredienti poveri, quella che ha nutrito il popolo per secoli. Le bevande e le pietanze dello “street food all’italiana” testimoniano una grande storia, ricca di umanità e creatività: ve la raccontiamo attraverso i tanti protagonisti che abbiamo incontrato”.
Comincia da qui il viaggio di Clara e Gigi Padovani lungo le strade italiane del gusto alla ricerca di pietanze autentiche, genuine e pronte da consumare. Questo viaggio è “Street Food all’italiana. Il cibo di strada da leccarsi le dita”, il libro della “coppia fondente del food writing italiano” pubblicato da qualche settimana da Giunti. Il volume, presentato il 5 ottobre a Cesena nel’ambito di Saporìe, Festival del Cibo di Strada, racconta le origini antiche, le evoluzioni gourmet e l’attuale notorietà dello street food.
“Con il termine street foods – definisce la Fao – si indica un’ampia gamma di cibi pronti da mangiare e di bevande, venduti e a volte preparati in luoghi pubblici, in particolare nelle strade”. Questo fenomeno, molto in voga negli ultimi anni, ha radici molto antiche che risalgono ai banchetti della Roma imperiale e alle feste regali di Lorenzo il Magnifico. La tradizione vuole, poi, che il cibo di strada – caratterizzato in ogni regione d’Italia dalla territorialità e dalla stagionalità dei prodotti – abbia conosciuto il declino e l’ascesa secondo guerre, carestie e sviluppo economico. Oggi lo street food è il simobolo di una cucina che torna alle sue radici seguendo la qualità e la crescente necessità di un cibo buono, gustoso, territoriale, veloce ed economico. Sono questi, infatti, gli elementi che contraddistinguono lo street food all’italiana dal fast food globalizzante; nei nostri cibi di strada c’è, poi, un tipo di ristoanzione che riflette le culture locali tradizionali e si accompagna alla perfezione con il piacere di mangiare in piedi usando le mani: un’azione, un’esperienza che riesce a coinvolgere tutti i sensi.
In questo viaggio culinario-emozionale si va dall’Alto Adige all’Abruzzo, dall’Emilia Romagna alla Sicilia, dalla Liguria alla Puglia alla scoperta degli artigiani del gusto, donne e uomini che ogni giorno nei loro chioschi e nei loro negozi interpretano e re-interpretano una cucina fatta di passione, fatica, idee e coraggio. I “Mangiari di strada” dello chef Giuseppe Zen di Milano (via Lorenteggio 269), il Lampredotto Pollini di Firenze (via De Macci) o la focaccia ligure di Zena Zuena di Genova (via Cesarea, 78); il pani ca’ meusa di Rocky Basile (piazza Caracciolo) o di Chiluzzo (Piazza Kalsa, 11) a Palermo, così come le specialità napoletane di Timpani e Tempura (vico della Quercia, 17) o la tradizione romana del filetto di baccalà nel centro storico di Roma dal Filettaro a Santa Barbara (Largo dei Librari, 88) sono le tappe del gusto che Clara e Gigi Padovani hanno esplorato per raccontare un’Italia che si lascia conoscere attraverso le specialità culinarie. Non ci sono – e non è una scelta casuale, ma un po’ ci dispiace – le nuove declinazioni di street food (guarda il Trapizzino di Stefano Callegari a Roma o le tante varianti italiche del kebab o del panino), perché “Street Food all’italiana” è un libro che va alla radice di questo fenomeno molto italiano, ne racconta la nascita, il percorso e i virtuosi protagonisti che portano avanti la storia.
“Street Food all’italiana” non è solo un libro; è un itinerario, è una guida, è un ricettario, è una testimonianza di come il cibo di strada sia espressione di alta cucina e spunto per l’alta cucina. Infatti, lo street food è stimolo e invettiva anche per grandi chef: Gualtiero Marchesi, Massimo Bottura, Fabio Picchi, Davide Scabin, Ciccio Sultano e Mauro Uliassi parlano in questo libro della loro passione e del loro legame con il cibo di strada, regalando al lettore-buongustaio rivisitazioni e ricette di piatti street. Il libro, poi, è un continuo viaggio che non si esaurisce all’ultima pagina, anzi! Grazie al pratico Qr Code (il simbolo è rintracciabile in oltre 40 pagine del libro) il lettore viene rimandato direttamente al sito di Street Food Italia con video interviste e approfondimenti che permettono un contatto diretto con tutti i protagonisti del volume.
“Si mangia per strada, da secoli, per necessità, per fare in fretta, per risparmiare. Ma anche per il piacere di condividere un’esperienza con persone che, diero al banco, sono lì tutti i giorni a fare il loro lavoro con passione e impegno”.