Giulio Gasperini
ROMA – Tutti noi attendiamo la nostra “breve morte giornaliera”. Ogni ora, ogni battito che trascorriamo (in)consapevoli di noi, noi moriamo. Il concetto è antico, le disquisizioni sono state infinite. E tanti furon coloro che, a codesta ineluttabile condizione umana, cercarono di non sottomettersi troppo debolmente e offrirono vie di fuga, occasioni di rivalsa e di possibile vittoria. Pablo Neruda lo fece utilizzando il suo codice preferito e prediletto: la poesia. E lo fece scovando un esclusivo (e incredibile) angolo di mondo: le “Alture di Macchu Picchu” (Passigli, 2004) divennero, per lui, teatro unico e irrinunciabile della conservazione umana; un tentativo, insomma, per non tornar polvere e disperdersi nel vento, senza che rimanga alcuna traccia del sé stesso.
Lassù, su quelle alture gelose di sé stesse e straniere a qualsiasi sguardo, al riparo da ogni incombente assedio, lontane dalle notizie, dal pubblico, dalla frenesia del keep-in-touch, tutti vi potremmo ri-nascere, trasformati in fratelli. Lassù, dove le stagioni declinano il tempo, dove il sole e la luna comandano l’uomo, dove l’orologio si dimentica di ruotare, l’uomo curioso può persino esagerarsi essere perfetto, senza incertezze né dubbi, senza peccati da farsi perdonare né costanti crimini da dover scontare: “Io t’interrogo, sale delle strade, / mostrami il cucchiaio, lasciami, architettura, / rosicchiare con un bastoncino gli stami di pietra, / salire tutti i gradini dell’aria fino al vuoto, / grattare le viscere fino a toccare l’uomo”.
L’architettura di Macchu Picchu non è reale architettura, ma un’“architettura di aquile perdute”: è un “libro di pietra”, perché la pietra diventa natura, diventa il tutto che edifica l’uomo, che lo rende perfetto, che lo assiste in ogni sua azione e in ogni suo compito: “Attraverso la terra riunite tutte / le silenziose labbra disperse” e ritrovano la voce, riescono a raccontare di nuovo tutta la loro sapienza, tutte le loro esperienze così necessarie all’uomo per poterlo far giungere completo, uomo nel più profondo di ogni cellula: “Lasciatemi piangere ore, giorni, anni, / età cieche, secoli stellari”.
Macchu Picchu è “l’alto luogo dell’aurora umana: / il vaso più alto che contenne il silenzio: / una vita di pietre dopo tante vite”. E la pietra è la sola traccia che, dopo il suo trapasso, dell’uomo perdura. È la pietra il supporto su cui meglio si scrive e si deposita la memoria; è la pietra il pane; è la sorgente, la luce, è la “patria pura”, è “direzione del tempo”, in una litania che non conosce fine né distinzione tra sacralità e laicità, tra reale e immaginario, tra carne e fiato, in uno scontornamento evocativo di vocaboli, quasi formule alchemiche, che travasano la realtà nota e sovrappongono la pietra all’immagine e all’essenza stessa di Macchu Picchu.
“Datemi il silenzio, l’acqua, la speranza. // Datemi la lotta, il ferro, i vulcani. // Unite a me i vostri corpi come calamite. // Venite alle mie vene e alla mia bocca. // Parlate attraverso le mie parole e il mio sangue”: Macchu Picchu è la mèta ultima; oltre, non c’è che il non-sense del nulla.
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“Lettere di Natale alla madre” e l’appuntamento delle sei.
Giulio Gasperini
ROMA – Per venticinque anni, dal 1900 al 1925, “fedele di anno in anno”, Rainer Maria Rilke e la madre, Sophia “Phia” Rilke, ebbero un appuntamento: non importa dove fisicamente si trovassero, alle sei di sera della vigilia di Natale si incontravano nel pensiero. E il figlio, così peregrino ma sempre affettuoso, ogni anno rammentava alla madre il loro appuntamento, in lettere di straordinaria delicatezza e premura. Passigli Editori, storica casa editrice fiorentina, nel 1996 pubblicò queste “Lettere di Natale alla madre”, che testimoniano e documentano la visione profondamente cristiana che il poeta de “I sonetti a Orfeo” e delle “Elegie duinesi” nutriva e condivideva con la madre.
Indipendentemente da dove si trovasse, anche in luoghi nei quali sentiva “maturare la arance”, Rilke sa che il Natale non è il trionfo del consumismo, tanto che spesso si lamenta e si scusa con la madre di non poterle inviare bei regali, ricercati ed eleganti, ma costretto spesso a inviare soltanto i suoi pensieri e la sua grafia. Rilke sa che il Natale è una festa “carica di prodigio e carica di mistero”; in ogni Natale – lui stesso ammette – tutto si faceva “per un attimo indescrivibilmente chiaro e prodigiosamente animato”, in un’ansia e in un bisogno di raccoglimento che lo eleva al di sopra della contingenza e gli consente di stabilire con la madre stessa una “comunicazione interiore”, una vera e propria corrispondenza-d’amorosi-sensi per dare significanza e compimento alla festa stessa del Natale, che altrimenti festa non potrebbe definirsi.
Anche attraverso gli anni duri, sofferenti, della prima guerra mondiale, durante i quali il mondo si macchiò di “complicatissima colpevolezza”, il Natale rimane sempre “la festa dell’innocenza”. È soprattutto il giorno che, in tempi di delirio collettivo, di pazzia senza senso apparente né facile possibilità di redenzione, “merita di essere il giorno più fiducioso dell’anno”, il giorno nel quale l’uomo possa riappropriarsi della consapevolezza del proprio limite (e, dunque, della salvezza), accorgendosi che “per quanto avanti possa spingersi, non giungerà mai al confine di Dio ma alla sua stessa fine”. Sicché ecco che la necessità urgente diventa quella di tornare bambini, esattamente come il piccolo Gesù che, nascendo, ha portato lo stupore e la meraviglia nel mondo, quel rispetto per ogni forma del creato e per ogni essere umano. I migliori ricordi del Natale sono, infatti, quelli del Rilke bambino, del futuro poeta che scopre le luci, i doni, la festa e le decorazioni; e che ha al suo fianco gli affetti più forti, che non possono essere altri che quelli familiari. Sicché il Natale probabilmente è soltanto questo, a prescindere dall’altrove che abitiamo: è sapere che “non è triste essere soli quando sono aperte le strade per ogni amore”.