“Parsifal e l’Incantatore”: Ludwig e Wagner.

Giulio Gasperini
ROMA –
Non ci sarebbe potuto essere titolo migliore per questa recensione: soltanto i loro due nomi, i protagonisti di questa storia, che Nicola Montenz, giovane studioso di musica e di filologia, ci narra in “Parsifal e l’Incantatore” edito da Archinto nel 2010. Ogni altro aggettivo, ogni altro termine sarebbe stato superfluo, inutile, eccessivo. Perché la storia, quella documentata, quella ricostruita dagli inchiostri e dalle grafie di corrispondenze e diari, sta tutta costì, tra quei due nomi, tra Ludwig e Wagner: tra, appunto, Parsifal e il suo Incantatore. Tra due personalità che potremmo definire, esagerando magari, borderline, al-di-sopra-delle-righe. Due uomini che esplosero di genialità, che finirono per asfissiare sé stessi per la grandezza delle loro prospettive, delle loro anime sempre assetate d’ignoto. In campi distinti, seguendo percorsi e tortuosità conoscitive e comportamentali diverse e stra-ordinarie (perché, appunto, al di fuori dell’ordinario), Ludwig e Wagner strinsero un rapporto convulso e complesso, in un reciproco tiranneggiare, dominare e subire; come in uno scontro combattuto su un fronte mobile, che di volta in volta vedeva l’uno nei panni della vittima e l’altro in quelli del carnefice.
Ludwig si entusiasmò all’ascolto di Wagner, e se ne volle nominare mecenate, protettore e finanziatore, in un ripristino di cortigianeria oramai lontana dalle mode del tempo e dal mondo stesso ma, nel caso del compositore tedesco, necessaria per farlo ardere di musica e farlo, soltanto su quella, concentrare. Wagner colse l’occasione, la indovinò in tutto il suo potenziale e non volle mai rinunciarvi, consapevole della volubilità della propria vocazione e ben più allettato dall’idea di aver un patrocinatore che, al pari suo, si infiammasse d’amore per l’arte fine a sé stessa – quella, ovvero, che già a quei tempi cominciava a far i conti con investimenti, entrate e ricavi.
Un teatro intero Ludwig innalzò al genio del musicista, quasi una sorta di tempio pagano. Tra incomprensioni e impulsi di feroce ammirazione, mentre ognuno parve cadere sotto l’assedio delle confuse vite private (per entrambi si trattò, forse, d’un puro orgoglio distorto il non voler arrendersi all’evidenza del loro essere), Ludwig alimentò il mito di sé stesso (nella sua furia architettonica da fiaba) e, tramite Wagner, il mito della sua opera. Wagner ne apprezzò l’intento, ne saturò sé stesso, si esagerò dispensatore ultimo di ogni saggezza. E approfittò della situazione, come soltanto i grandi geni sanno fare, perché consapevoli che le occasioni propizie sono poche; e che bisogna cogliere la messe seminata, anche se senza apparente né diretto merito.
Nicola Montenz conosce: merito pregevole. Conosce e sa farlo conoscere. Ha la sorprendente abilità di trasformare la storia – filologicamente ricercata e stanata nei documenti vivi e pulsanti – in una narrazione ammaliante e persino necessaria. Sa trasformare due figure polverose in persone (e non personaggi) corporee e palpitanti, assecondando un fluire narrativo sorprendente che riesce dissetante.