VerbErrando: Le eredità transgenerazionali

Veruska Armonioso
ROMA 
– Venerdì a pranzo ero con un’amica d’infanzia, una di quelle che conoscono tutto il necessario di te: come sei venuta al mondo, da dove vieni, chi volevi essere da grande; una di quelle persone che possiedono le tue origini. Insomma, siamo andate a pranzo insieme dopo un po’ che non ci vedevamo e, come al solito, è bastato poco per riprenderci. Qualche nome per posizionare il treno sulle rotaie giuste e poi via, a parlare. Lei, mamma di due bambine, dalla morte del padre è stretta nella morsa infernale del passaggio di testimone: l’acquisizione in eredità paterna del ruolo di capofamiglia e la restituzione alla madre (rimasta, senza suo marito accanto, senza strumenti e incoraggiamento per essere genitrice) di quello di figlia. Uno scambio ambiguo e controverso che mi ha fatto subito venire alla mente Anne Ancelin Schützenberger e il suo libro “La sindrome degli antenati”.

Avevo letto questo libro dopo qualche mese dalla morte di mia madre. In quel periodo mi sentivo come dispersa nel mezzo dell’oceano, senza futuro e senza passato; ero fermamente convinta di aver perso bussola e i riferimenti necessari per andare avanti e che, quindi, non avrei toccato terra mai più: destinata alle sabbie mobili senza affondare mai del tutto. Poi, aprii la prima pagina di questo libro e iniziò la mia catarsi:
“La vita di ciascuno di noi è un romanzo. Voi, me, noi tutti viviamo prigionieri di un’invisibile ragnatela di cui siamo anche uno degli artefici. Se imparassimo dal nostro terzo orecchio e del nostro terzo occhio ad afferrare, a comprendere meglio, ad ascoltare e a vedere queste ripetizioni e coincidenze, l’esistenza di ciascuno di noi diventerebbe più chiara, più sensibile a ciò che siamo e a ciò che dovremmo essere.”

Le ripetizioni a cui si riferiva erano ripetizioni famigliari, lacci tra noi e quello che c’è stato prima, che spesso ignoriamo a livello conscio e che, invece, creano dal profondo le fondamenta della nostra esistenza. Quante volte ci hanno detto che il modo di amare di una madre ha decretato quello di amare di un figlio? E ancora più scientificamente: quanti di voi hanno preso il colore dei capelli dal bisnonno?
Filosofeggiando e poetizzando sui principi di genetica di Mendel, possiamo facilmente pensare che, se una bisnonna può trasmetterci il gene dei capelli rossi, può altresì trasmetterci quello della docilità. E’ lì, proprio in quella fessura, che accade la ripetizione famigliare, il reiterarsi, cioè, non solo di modelli comportamentali tra una generazione e l’altra, ma addirittura di accadimenti, anniversari, incidenti, sorprendentemente sinistri, come nel caso di una donna che si ammala di cancro esattamente alla stessa età in cui si è ammalata sua madre, oppure di un uomo che ha un incidente automobilistico il giorno di Natale, esattamente come successe a suo nonno, che non conobbe mai e che perse in quell’occasione la vita.
“Siamo, in un certo senso, meno liberi di quanto crediamo”, ostaggi di legami con i nostri antenati che si possono “vedere, sentire o intuire, almeno in parte, ma di cui, generalmente, non si parla: vengono vissuti nell’indicibile, nell’impensabile, nel non – detto o in segreto”.
Esiste una letteratura di casi studiati vastissima, ma ciò che più mi interessava trasferire alla mia amica era legato allo scambio malato dei ruoli tra genitore e figlio, la genitorializzazione, che accade, quasi sempre, quando c’è un caso di debito di lealtà invisibile.
La famiglia, in quanto unità sociale, si fonda sulla lealtà dei membri che la compongono. “Da qui il concetto di giustizia e di giustizia famigliare. Quando non viene fatta giustizia, la situazione si traduce in ingiustizia, in malafede, nello sfruttamento dei membri della famiglia gli uni nei confronti degli altri, talvolta attraverso la fuga, la rivalsa o la vendetta, altre volte attraverso la malattia o l’incidente ripetitivo.” Diversamente accade quando c’è l’affetto, la considerazione reciproca e i conti famigliari vengono aggiornati. Si può parlare di un bilancio dei conti famigliari e del grande libro dei conti famiglia, dove si vede se si è debitori o creditori, se di hanno debiti, impegni o meriti. “In mancanza di questo bilancio, di generazione in generazione, ci possono essere una serie di problemi”.

Anne Ancelin Schützenberger ci dice che il più grande debito della lealtà famigliare è quello che ogni bambino contrae nei confronti dei genitore, per amore, affetto, cure, fatica e attenzioni che riceve dalla nascita, fin quando non diventa adulto.
Per virtù o causa di questo ‘debito’, a un certo punto della vita del figlio avviene il rovesciamento dei valori, ossia della situazione in cui i figli diventano i genitori dei propri genitori; questo può accadere indipendentemente dall’età del figlio: “vi è un certo numero di famiglie, soprattutto quelle modeste o rurali, dove la figlia maggiore ricopre il ruolo di madre e dove la madre, stremata dalla fatica per i parti troppo numerosi, realmente malata o ritenendosi malata, si fa sorreggere, aiutare e sostenere da sua figlia, la quale non si sposerà mai.”
E così, una figlia che a vent’anni, dopo la morte del padre, si ritrova a fronteggiare il peso emotivo di una famiglia sostituendosi alla madre, diventerà madre della sua stessa genitrice fino alla fine dei suoi giorni, a meno ché non decida di interrompere questa distorsione malsana delle relazioni, imparando a conoscere il proprio ‘libro dei meriti e dei debiti’, “…attraverso un’analisi dell’informazione retrospettiva, vale a dire della memoria dei vivi sui morti: ciò che le persone viventi sanno delle loro famiglie e ciò che le agisce, anche se esse non sanno coscientemente ciò che sanno, tra il detto e il non detto, tra il conscio e l’inconscio – ciò che è stato trasmesso dal punto di vista della famiglia.”

Sarà a quel punto che si salderà davvero il proprio debito, ossia attraverso il passaggio transgenerazionale, rendendo quel che abbiamo ricevuto dai nostri genitori ai nostri figli.
Questo non ci impedirà, quando i nostri genitori saranno vecchi, di avere nei loro confronti delle attenzioni e dei debiti, tra cui quello di aiutarli a vivere i loro ultimi anni e di accompagnarli nel passaggio dalla vita alla morte”, ma ci permetterà di mantenere il possesso della nostra identità e della possibilità di scegliere per noi stessi, senza subire sensi di colpa o frustrazioni da negazione dell’io ed essere pilotati dei bisogni e dalle esistenze dei nostri antenati.
Un punto di partenza, senza dubbio, questo libro, ecco cosa è stato per me. Non una cura, non una soluzione, ma uno spostamento. In me ha spostato una convinzione, quella che non sarebbe cambiato niente, che “tanto le cose stanno così, è il mio destino, e non c’è niente che si possa fare”. E invece no. Si rompono le catene, senza rinnegare, senza rifiutare, senza ignorare, semplicemente lavorando sulle altre possibilità che non vediamo ma di cui possiamo disporre. Alcuni strumenti ci vengono dati in dotazione dalla natura o da Dio, per chi è credente. Altri dobbiamo andarli a cercare. E’ quella la difficoltà, andare a cercare qualcosa che non sai ti possa servire; quindi scoprire che ti serve quello strumento diventa fondamentale. Ecco perché questo articolo. Perché, magari, anche voi siete come me e la mia amica, ancorati saldamente a un blocchetto di cemento a presa rapida, pensando che non ci sia uscita e che la vita sia segnata dal subire quel destino.
E invece no, non è così che stanno le cose. E non dico che oggi sono dove sono grazie a “La sindrome degli antenati”, ma che leggerlo mi ha aiutata a capire che mi servivano quegli strumenti, che io, cresciuta con un senso del dovere schiacciante, nel costante bilanciamento tra la ricerca della perfezione e la delusione delle aspettative altrui, io e solo io dovevo intervenire, subito. Che non mi potevo sostituire a nessuno, che la mia identità doveva essere inviolabile, che ero venuta al mondo per essere libera e che avrei dovuto scegliere da me il mio destino. Intervenendo, subito, su di esso.
Che il nostro albero genealogico racconti le nostre origini; che noi raccontiamo il nostro futuro.

 

 

 

 

VerbErrando: “Tenera è la notte”

Veruska Armonioso
ROMA
– Studia giurisprudenza, ha ventiquattro anni e si annoia.
E’ nata nel 1988. Bim bum bam, forse, ha fatto in tempo a vederlo, magari se lo ricorda, solo che Paolo Bonolis se n’era già andato e non lo conduceva più, però c’era ancora Uan.
Quando tornava da scuola la nonna guardava beautiful in tv, quindi è cresciuta, forse suo malgrado, incontrando per pranzo sempre intrighi, giochi di seduzione e il mito che la bellezza e la sensualità sono la strada giusta per arrivare a destinazione. Mamma e papà volevano tanto che studiasse e portasse a casa voti importanti, ma lei preferiva chiudersi in bagno a truccarsi per farsi vedere bella dai ragazzi.
Poi è arrivato “Uomini e Donne”, “Il Grande Fratello” e ha capito che apparire era fondamentale.
Le veline, le letterine, tutte le calendarine e poi c’era lei, ragazza carina ma qualunque,
che si sentiva indietro, si sentiva in svantaggio. Si diploma e si iscrive all’università, cambia città (la provincia le va stretta) e comincia una vita nuova, dove poter esibire i suoi gioielli: due tette tirate su da un bra dell’ultima generazione, un sorriso ultragloss e pose da top model per impressionare l’obiettivo di un fotografo da book. Sono foto importanti, sono foto che vanno su facebook, perché lei, la bella lei, tutta truccata, pettinata a puntino e vestita solo delle proprie mani, ha un bisogno disperato di non sentirsi solo una futura praticante avvocato, non può restare indietro, non può essere meno di Belen. E allora gioca a fare la modella, va in locali alla moda a farsi scattare foto ricordo da pubblicare sulla sua bacheca. Sono importanti i “mi piace”, i commenti appassionati degli uomini che fantasticano sulle sue forme in chiaro scuro, sui suoi sguardi ammiccanti, sui suoi sorrisi divertiti durante notti della dolce vita della nuova Italia.
Lui è lì, nello studio. Nella camera accanto c’è Marta che si sta spogliando, è appena tornata a casa dal lavoro, oggi c’era sciopero, pioveva e lei è rincasata bagnata come un pulcino. Stanno insieme da un anno e mezzo e discutono spesso perché lui è troppo chiuso e parla poco e lei si sente sola. Comunque lui è lì, sta consultando il suo facebook e la vede, nella colonnina di destra tra le amicizie consigliate.
Non dubita un secondo e le richiede l’amicizia. Lei accetta e cominciano a chattare. Lui come foto dell’avatar ha un’immagine in penombra, mentre fuma una sigaretta. Ha il fascino della star del cinema americano e poi è bellissimo. Marta bussa, apre piano piano la porta. Lui abbassa velocemente la finestra di internet, si gira e, con un sorriso pieno di denti, le chiede:
“Tutto bene?”
“Sì, vado a fare la doccia, poi ti va se ci mettiamo un po’ sul divano abbracciati a guardare la tv?”
“Ok! Tra un quarto d’ora sul divano!”
Lei chiude la porta e lui apre di nuovo la finestra.
“Ho ancora un quarto d’ora, poi i miei amici mi passano a prendere per uscire.”
“Mh, peccato… ma tanto anch’io stavo per uscire, andiamo tutti al Rainbow a fare un aperi-cena.”
“Quando posso parlarti di nuovo?”
“Quando vuoi… domani?”
“Apro poco internet durante il fine settimana, ma lo farò solo per te.”
“A domani allora!”
“Dopo pranzo? Verso le due?”
“Perfetto! Dopo le due!”
Non andrò avanti, il racconto continuatelo voi.
A volte mi dico che è una fortuna non stare insieme a nessuno. Avevo sedici anni quando lessi per la prima volta “Tenera è la notte”. Dick l’aveva voluta così tanto Nicole, l’aveva prima curata, e poi le aveva promesso amore eterno e l’aveva sposata. Gli bastò poco, quando arrivò Rosemary, giovane, bella, attrice, sofisticata, per spazzare tutto via, tutto.
Provare ancora quella trepidazione :
”- Sono Dick: dovevo chiamarti.
Una pausa di lei; poi coraggiosamente e intonata allo stato d’animo di lui:- sono lieta che tu l’abbia fatto.
[…]
– Rosemary.
– Sì, Dick.
– Senti, sono in una situazione straordinaria, con te. Quando una bambina riesce a turbare un signore di mezza età… le cose vanno male.”
La cosa che mi turbava maggiormente non era il tradimento, ma il tormento che provava Dick.
“Ora la baciò più volte sulla bocca, il suo viso si ingrandiva mentre scendeva su di lui;
Dick non aveva mai visto qualcosa di così abbagliante come quella pelle, e poiché a volte la bellezza restituisce le immagini dei proprio migliori pensieri, pensò alla sua
responsabilità verso Nicole e al fatto che questa si trovava due porte più in giù, nel corridoio.”
Provava tormento, un tormento rivolto verso la moglie, ma non era un tormento per senso di colpa; era un tormento di rimpianto. Se non ci fosse stata lei, lui avrebbe scelto Rosemary.
Se non ci fosse stato quel “peso”, la donna che tanto aveva voluto e che, con il tempo, era diventato peso, ecco, se non ci fosse stata lei, lui sarebbe stato con Rosemary.
Se non ci fosse stata lei, lui sarebbe stato felice. I sotterfugi, le recite per dissimulare e poi il senso di costrizione, di infelicità, di privazione.
Dall’altra parte lei, Marta, Nicole o me. Dall’altra parte una persona, che esiste solo
come intralcio. Quando vivi per una volta un’esperienza del genere resti marchiato a vita.
La mia amica Dani dice che le ferite del passato non devono diventare limitazioni e ha ragione, ma forse ha avuto ferite poco profonde o uno stuolo di santi e madonne in cielo pronti a riempirle il cuore e la mente di indulgenza e fiducia.
Di fatto Nicole è stata tradita.
Di fatto Marta sta per essere tradita o è stata già stata tradita, del resto non serve di certo un amplesso per essere infedele a un amore.
Di fatto Marta non ce la farà mai a competere con queste fantastiche, bellissime ragazze copertina.
Marta verrà schiacciata da questa competizione, sia che decida di chiamarsi fuori e non cadere in questo gioco perverso dell’essere sempre all’altezza, sia che decida di starci dentro. Perché questo gioco lo si può fare fin quando hai vent’anni. A trenta non si può più. Comunque sia, sia che tu ti chiami fuori, sia che tu resti nel gioco, prima o poi arriverà il momento in cui l’uomo che ti è accanto si girerà dall’altra parte a guardare, a sognare un po’, con la bava alla bocca o con contegno, ma comunque lo farà.
Forse non te ne accorgerai, ma lo saprai che accade. Forse, invece, te ne accorgerai, allora le tue insicurezze usciranno tutte fuori e tu cadrai nel baratro. Tutti i mostri, i fantasmi saranno lì, affacciati alla finestra della bocca del tuo stomaco a chiamare in causa le tue paure. Perché a distrarsi ci vuole un attimo, a perdersi un secondo, ma a ritrovarsi, poi, non basterà una vita.
E’ più grande la paura di essere traditi o il tradimento stesso? La possibilità che c’è dietro l’angolo rende chiunque un nemico, tutto un pericolo. E poi tu, che con i tuoi bassi, i cali di attenzione, di prestazione, di forma, rischi di mandare all’aria la tua relazione senza nemmeno che ci sia realmente qualcuno, solo per paura.

Amarsi dopo un figlio, amarsi dopo essere diventati coppia, amarsi quando entra la routine, quando subentra una malattia, quando entra in gioco la vita.
Amarsi.
E’ possibile amare qualcuno nella versione vita-di-tutti-i-giorni senza lasciarsi distrarre da qualcun altro?
E’ possibile farsi vedere sé stessi, senza rischiare di essere traditi con qualcuno di nuovo o migliore? Si può sperare di avere qualcuno accanto che non cada nella rete di una bella ventiquattrenne avvocatessa sexy fotomodella di facebook e essere liberi di farsi vedere per quello che si è, senza patinature e senza calze a rete o tacchi a spillo?
La mia amica Dani dice di sì. Lei è fortunata, suo marito la ama per quello che è, ma non fa testo, hanno dei valori così al di sopra dell’apparenza e della forma da risultare alieni.
Parlando con lei, però, penso di aver capito dove risieda il problema. Se conquisti un territorio con le armi, dovrai sempre usare le armi per esercitare il tuo potere al suo interno. Una metafora ardita per dire che se conquisti un uomo per un qualcosa che possiedi, non potrai mai liberarti da quel cliché, nemmeno dopo vent’anni. Quella caratteristica diventerà, nella tua mente, il metro di paragone con tutte le altre e di quello non smetterai di preoccuparti sia che si parli di bellezza, che di simpatia, che di intelligenza.
Diverso se conquisti una persona per la tua unicità. Se quello che fa innamorare di te la tua persona sarà la tua unicità, la tua essenza, allora non ci sarà paragone con nessuno. Non ci sarà bellezza tanto provocante, o mente abbastanza brillante o sorriso sufficientemente smagliante. Potrà essere tutto di più rispetto a te, ma non sarà mai te.
Ecco quello che ho capito questa settimana. Conoscendo Marta e la sua storia, parlando con Dani e la sua famiglia, rileggendo Francis Scott Fitzgerald e tenendo in braccio la mia pronipote Lavinia.
Guardando tutti loro ho capito cosa è importante in una relazione.
Amare l’unicità dell’altro ci rende fedeli, far innamorare il nostro compagno della nostra unicità ci rende sicuri e invincibili.
Non sarà facile districarsi all’interno di quella jungla. A volte sarà difficile, a volte ci vorrà tempo, tanto tempo, a volte incontreremo riluttanze, rifiuti, impazienze. Quelle saranno le selezioni naturali, gli autoeliminati che ci lasceranno prima ancora di prenderci.
Ma arriverà quell’unica persona che è destinata a starci accanto, e sarà allora che non avremo più paura di essere da meno della seducente studentessa universitaria del web. Ed è proprio a lei che vorrei dire di togliere quelle foto da lì e di riprendersi la propria vita ricominciando con il ridurre ai minimi termini per poi massimizzare e sicuramente arriverà molto più di un uomo che mentre chatta con lei ha, nella camera accanto, la sua compagna seduta sul divano ad aspettarlo per un abbraccio.

VerbErrando: Soli mai più

Veruska Armonioso
ROMA
– Ho errato per un po’. Del resto, era proprio questo il mio scopo in questo giornale, errare e, intanto, produrre parole. Solo che nel mio errare, nelle ultime settimane, non ho prodotto più niente.
Mi sono accorta che mi mancava lo scrivere solo cinque minuti fa. Stavo rispondendo a una lettera elettronica di una mia amica e le parlavo di ovvietà stampo anziana di paese, ossia di quanto fosse bello essere sani, vivi, felici e di quanto fossi disposta a rischiare tutto pur di avere la felicità. Si parlava di immobilità, emotive, geografiche. Di persone non disposte a muoversi per prendersi un lavoro, una casa, una vita, un amore. E si parlava anche di persone che, invece, fanno passi, vanno avanti e, intanto, costruiscono loro stesse.
Costruire è un tema che tratto spesso qui, il fatto è che ho passato tutta la mia vita a costruire… per me, per me con altri, per poi scoprirmi sola.
Un’altra amica, una giornata diversa: ieri.
Entrambe occupate a maneggiare una tazza di tè e lei mi dice: “E’ un problema non avere paura, in questo modo non si può condividere niente di duraturo con chi ne ha, è troppo difficile metterla in pratica la condivisione, pur volendola fortemente”.
“La paura che paralizza è la vera carogna. Dove c’è paura non ci può essere tutto il resto, non ci può essere struttura” le rispondo salomonica.
“Allora è un problema avere struttura, in questo modo non si può condividere niente con chi non ne ha.”
Ci sono persone pietrificate dalla paura; ricolme di convinzioni limitanti, di voci diaboliche e autodistruttive, non vedono niente con chiarezza. A volte non vedono niente di niente. Un aerosol di incertezze e caos che gli entra dalla bocca e dalle orecchie, per poi toccare gli organi interni e arrivare al cervello. Lì, dove risiede la ragione e l’emozione, tutto si avvolge di una nebulosa.
Poi arriva un tardo pomeriggio di primavera, la vita si riattiva, gli ormoni sono in pentola quasi pronti per l’ebollizione e basta un attimo, un incontro fortunato, e tutto sembra più chiaro.
La forza del primo sguardo, del primo sorriso, della prima stretta di mano. La forza della curiosità verso l’ignoto e la voglia di conoscere, svelare, avere ben presente che ti fa tornare giovane…

“Ero giovane, e la sincerità mi era abbastanza facile. […]
<Non è bene avere troppa fretta> disse il maestro.
<Penso di essermi già calmato> […]
<Tu sei pieno di entusiasmo. Quando l’entusiasmo si spegne, si rimane disgustati. La tua presente opinione su di me mi amareggia, ma ancora di più mi angustia il cambiamento che avverrà in te con la disillusione>.
<Mi reputa così volubile? Le do così poco affidamento?>
[…]
<Non è che non mi fidi di te in particolare. Non mi fido degli uomini in generale.>
[…]
< Allora non ha fiducia nemmeno in sua moglie?>
< Non ho fiducia nemmeno in me stesso. E dal momento che non posso credere in me, non posso crede nemmeno negli altri. E non posso far altro che maledire me stesso>.
<Se la prende così seriamente, non potrà fidarsi mai di nessuno.>
<Non si tratta soltanto di un mio pensiero. Io ho dato la mia fiducia e, dopo averlo fatto, mi sono spaventato. Mi sono tremendamente spaventato[…] Comunque non devi darmi troppo retta, perché potresti venire tradito, e in questo caso ti vendicheresti crudelmente dell’inganno>.
<Maestro, che cosa intende dire?>
<Se oggi si sta in ginocchio davanti a una persona, domani le si potranno mettere i piedi in testa. Rifiuto l’ammirazione di oggi per evitare le ingiurie del futuro. Preferisco sopportare la solitudine adesso, piuttosto che trovarmi ancora più solo negli anni a venire. Vedi, la solitudine è il prezzo che noi dobbiamo pagare per essere nati in questa epoca moderna, così piena di libertà, indipendenza, ed egoistica affermazione individuale>.”

Non ho paura di dire che la solitudine è ineludibile. Ho avuto paura per lungo tempo di restare da sola. Avevo paura di non poter avere calore per me, un abbraccio, una voce che mi chiamasse “amore”. Chiedevo tutto questo come l’ultima sigaretta per un condannato a morte. Temevo la morte. Abbracciavo la morte nella mia vita, seppur non accettandola. La accoglievo tutti i giorni.
Sono stati gli anni più bui della mia esistenza, la mia vita senza me. Ero presente per chiunque altro eccetto me, giusto per giustificare la mia esistenza.

“Benché avessi stabilito di vivere come se fossi morto, a volte il mio cuore rispondeva al movimento del mondo esterno, e sembrava quasi danzare con energia repressa. Ma non appena io tentavo di farmi strada attraverso la nube che mi circondava, una forza dotata di uno spaventoso potere mi si avventava addosso, non so da dove, e mi serrava il cuore; io arrivavo al punto da non potermi più muovere. Una voce mi diceva <Hai ragiona e non fare nulla. Resta dove sei>. E ogni desiderio di azione mi abbandonava di colpo. Dopo un attimo, il desiderio ritornava. E io tentavo ancora una volta di farmi strada, poi di nuovo venivo frenato. E urlavo, con furia e dolore < Perché mi fermi?> Con una risata crudele, la voce mi rispondeva <Lo sai molto bene>. Allora capitolavo in una resa senza speranza.
Ti prego di credere che, benché tu possa avere avuto l’impressione che io abbia condotto una vita monotona e senza complicazioni, in me si è sempre svolta una penosa lotta senza soste. […] Quando infine mi fu evidente che non potevo rimanere più a lungo in quella prigione, e che non ne potevo evadere, fui spinto a concludere che il gesto più facile, per me, fosse il suicidio. Potresti chiederti come mai arrivassi a quella conclusione. Ecco… il fatto è che quella terribile forza strana che mi afferrava al cuore ogni volta che pensavo alla mia fuga dentro la vita, mi lasciava almeno l’illusione che io fossi libero di trovare una via d’uscita dentro la morte. Se proprio volevo muovermi, potevo farlo soltanto verso la mia fine. In due o tre occasioni tentai di seguire questo unico corso che il destino mi lasciava aperto. Ma ogni volta venni trattenuto dal sentimento che mi univa a mia moglie. Inutile dirti che non avevo il coraggio di trascinarla con me. Né potevo confessarle ogni cosa. Come potevo derubarla della vita che le era stata assegnata, e forzarla a condividere il mio personale destino? Perciò esitai. In seguito, osservando mia moglie, mi dicevo che avevo fatto bene a esitare. E riprendevo a vivere, privo di speranze, avvertendo gli occhi di mia moglie puntati su di me.”

Ho combattuto contro draghi a mani nude, e attraversato il fuoco, e camminato a piedi nudi sopra il ghiaccio in questi ultimi mesi, per arrivare qui, oggi, ventinove ottobre duemiladodici, a dire che non ho paura più.
Non ho paura più di quelle voci. Le manderò a fanculo ogni volta che mi diranno “lascia la presa, vieni via con me” e mi girerò dall’altra parte, alla mia destra, verso chi mi ama, verso chi mi dice “stai con me”, verso chi mi dice “voglio che sorridi”, verso chi mi apre le braccia, verso chi mi sorride.
Penso che i nostri tempi moderni, questi giorni di grandi e pesanti gravi, necessitino di una rete affettiva fitta ed elastica. Da soli siamo persi. Restare da soli, dare retta a quella voce che ci dice che “la solitudine è un prezzo da pagare” vuol dire serrare la strada alla felicità.
Io accetto, oggi, di essere la prima alleata di me stessa. Ma sola, da sola, mai più.

Brani estratti da “Il cuore delle cose” di Natsume Sōseki – ed. Neri Pozza

 

 

VerbErrando: Il bisogno di amare

Veruska Armonioso
ROMA
– La biologia non mente, è questo quello che si dice. Che il sangue inneschi un legame, unico e indissolubile, tra le persone. Che si può rinnegare con la testa, ma il nostro istinto ci porterà sempre a provare emozioni verso qualcuno che ci appartiene per corredo genetico. Un fratello, ad esempio, che ci fa soffrire, che ci tradisce, che usurpa la sacralità della carica famigliare, resta sempre una persona verso cui provare sentimenti è inevitabile, che siano essi amore, rabbia o perdono. Lo stesso per un genitore che ci fa del male, che ci abbandona o che se ne va. Per lui, in verità, in profondità e nel segreto della nostra intimità, continueremo a nutrire emozioni. Si prova, dunque, comunque amore. Si prova comunque amore se c’è di mezzo una eredità trans generazionale a dettare le regole e il sangue in comune a confondere le scelte. Prendiamo una madre, ad esempio. Una madre come quella di Virginia Woolf che per struggente senso di mancanza decise di far rivivere nelle pagine del suo capolavoro Gita al Faro. Una madre che incita i propri figli a sognare, a sperare nonostante tutto, ad attendere il domani con costruttiva impazienza:

“ <Sì, certo, se domani sarà bello>, disse la signora Ramsay <Ma ti dovrai alzare al canto del gallo>, soggiunse. Le sue parole suscitarono una gioia immensa nel figlioletto, come fosse ormai sicuro che la spedizione avrebbe avuto luogo, e l’avvenimento meraviglioso che gli sembrava d’aver atteso con ansia da anni e anni fosse ormai, dopo una notte di buio e una giornata di navigazione, a portata di mano[…]<Comunque>, disse il padre, arrestandosi davanti alla finestra del salotto, <non sarà bello.> Se James avesse avuto a portata di mano un’accetta, un attizzatoio, o un’arma qualsiasi con cui squarciare il petto al padre e ucciderlo, là su due piedi, l’avrebbe immediatamente afferrata. […]<Ma può darsi che faccia bel tempo; secondo me farà bel tempo.>”

Prendiamo allora questa madre, e facciamo conto che suo figlio, un operaio socialista appena ventenne, che usa la sua casa come quartier generale per riunioni politiche venga imprigionato, che cosa fa? Ce lo racconta uno straordinario Maksim Gor’ki in “La madre” (Мать), romanzo in cui la madre si eleva a madre in senso assoluto, sia sposando la passione del figlio e facendola propria (sarà lei a continuare la campagna di propaganda fino a quando non verrà uccisa) sia diventando la madre di tutti i compagni del figlio. La madre, dunque. Non sua madre o una madre, ma “la madre”, in quanto madre di tutti poiché madre di uno. La madre come assunzione di ruolo in senso assoluto piuttosto che compito o responsabilità verso un unico individuo. Può una donna, una volta divenuta madre, essere madre anche di un figlio non suo? L’estremizzazione ce la regala KimKi Duk nel suo ultimo film Pietà, Leone d’oro al Festival del Cinema di Venezia di quest’anno. Una donna che ha visto suo figlio perdere la vita per mano della crudeltà gratuita di un suo coetaneo e che, nell’attuazione della sua vendetta verso il carnefice che, per esigenze strategiche aveva cominciato a trattare come un figlio, è capace di provare pietà per lui, al punto tale di rischiare di mandare tutto all’aria, proprio nella fase finale, per pietà.

 

Si prova amore anche al di là della biologia. Si può provare quell’amore puro e irrinunciabile che sposta equilibri, opinioni, abitudini, scelte, orientamenti. Si può provare un amore così trascendentale seppure privo di un patrimonio genetico da spartire. Ci si innamora, ad esempio, e ci si sposa. Ci si sceglie e si decide di impostare tutta la propria vita intorno allo stare insieme a un “estraneo” che diventa, per affinità elettiva o per scelta, la nostra famiglia. Di catena trattasi. Una catena composta da anelli, alcuni fatti della stessa materia, altri fatti di materia diversa. Ma senza quegli anelli, quelli di materia diversa, non ci sarebbero quelli uguali, quelli della stessa materia. La diversità, l’estraneità come occasione per creare nuovi legami, legami più solidi, che diano varietà e rafforzino l’altra metà di noi, quella opposta all’istinto animale che ci fa amare per similitudine. Quella della ragione, del lavoro, dell’amore non come punto di partenza, ma come punto di arrivo e incentivo per vivere e costruire.  Così, se si può amare un’altra persona e sceglierla come compagno della vita, se questo è vero e possibile, è vero e possibile anche amare un’altra persona e sceglierla come figlio. Le adozioni ne sono l’esempio lampante e, del resto, il segno più grande di vera emancipazione emotiva; sempre più spesso la famiglia è quella che ci costruiamo, che scegliamo con cura e attenzione, per noi. Succede quando la natura ci nega la possibilità di essere animali. Cinico? Ma è così. Quando la natura non ci fa riprodurre, ecco che costruiamo un legame genitore-figlio con una persona estranea a noi. Quando la natura ci toglie un genitore, ecco che costruiamo legami genitore-figlio con persone estranee. E così, se a quindici anni la tua famiglia è composta da sorella, fratello, madre e padre, vent’anni dopo non è escluso che tua madre non ci sia più, tuo padre nemmeno, tuo fratello si sia perso e tua sorella sia lontana. E’ allora che la famiglia di salvataggio arriva. E’ allora che si impara ad amare al di là della biologia. E’ indiscussa, quindi, la possibilità di un amore accorato verso un estraneo e l’assegnazione di ruoli famigliari importanti. La domanda, strisciante e maliziosa, però, resta: come sarà questo amore? Sarà davvero uguale a quello verso un con-sanguigno? Oppure possiederà delle condizioni? Per amare una persona “come se fosse della propria famiglia” basta scegliere di farlo?Per amare un bambino “come se fosse figlio proprio” basta scegliere di farlo? La luce sugli oceani di Stedman, romanzo rivelazione del 2012 edito da Garzanti, ci dà l’occasione per capirlo, raccontandocelo con una grazia e una delicatezza quasi ottocentesca. A metà tra un racconto di Fitzgerald e della Woolf, la Stedman tocca tutti gli aspetti della psiche umana sottoposta alla perdita e lo fa con una delicatezza e, al tempo stesso, un realismo cinematografico. Ci dà indietro temi come il furto, la rivendicazione, la follia per la perdita, il dolore per il tradimento, la compassione, la giustizia. In un romanzo dove non ci sono vincitori né vinti, ma solo vittime e dove la natura è madre e matrigna al tempo stesso. Perché la vita vera è così, da una parte ti dà, con tutta l’energia e la generosità di cui è capace, e dall’altra ti toglie, con la crudeltà che si riserva solo a un nemico.

Qual è, allora il punto? Si può amare qualcuno “come se fosse”?
Il bisogno è la risposa.
Per quanto mi riguarda è così. Ché amare è sempre amare e l’unico sentimento vero è quello rintracciabile “nelle pieghe della mente” come scrive Barbara Ottaviani in Acquasanta. Il bisogno muove le nostre scelte e quello che si sceglie e si pratica con dedizione è ciò che durerà per sempre.
Individuare i propri bisogni è la base.
Scegliere di amare, chi amare e come farlo, è l’obiettivo.
Sentirsi liberi di farlo è il privilegio.
Trovare qualcuno disposto a lasciarsi amare è il dono.


 

VerbErrando: Ritorni

Veruska Armonioso
ROMA
– Parola d’onore. Onore di uomo che da poco ha scoperto quanto la barba, non curante, cresca, ogni giorno. Che nonostante tu sia lì, pronto a reciderla, lei non ti vede e continua a fiorire, più forte, più testarda di sempre. Ti copre le rughe di questi nuovi trent’anni, ti avvolge i segni di ferite assopite e nasconde al tuo sguardo le fossedei colpi ancora da assestare. Parola d’onore, onore a te, parola ascoltata da queste mie orecchie, pronunciata dalle tue labbra semichiuse in un semiaperto alito di essenza alla lavanda e cocco che dondola sul polpastrello del mio anulare come fede, incrollabile, quando mi perdo nella scia della sua suggestione. Poi, di colpo, il vento, cade giù e all’anulare rimane solo fede solida e consapevole di passato prossimo vivo in presente lievemente nitido. Questa fede, più certa che fidata, fatta di concreta tridimensionalità e per questo sicura, mi dice di non muovermi di un solo gemito e rimanere lì, in oscillazione sull’accordo sbiadito di un ritornello che non suona mai ma echeggia senza sosta..
Quanto dura l’emozione? La descrizione dell’attimo che finisce proprio mentre inizi a pensarlo, è inespressa perché inutile o perché troppo vasta per essere anche solo parlata? E l’attimo, minuto ma non minuto, è inafferrabile perché imperituro o perché veloce? e poi la vita. Quanti attimi fanno una vita? E comunque, sempre e solo lei, la principessa di tutti i rebus, la domanda che vale un nome: “a cosa credere? Cosa sentire dentro di me?” Chiedermi incessantemente se nord o sud sia la direzione giusta, mi aiuterà a capire dove andare? Chiedermi se rincorrere il caldo o il freddo, se il caldo durerà per sempre o se il freddo smetterà mai, mi aiuterà a decidere? Forse che la risposta giusta non esista? Forse che l’unica risposta giusta sia di cambiare la domanda? E allora, ora, mi chiedo: “fin dove sarei disposto a raggiungermi qualora mi smarrissi?”.
Potrei perdermi dietro l’angolo e ritrovarmi in un secondo, vivendo, nel mentre, la vita che conosco e che ho scelto di attraversare oppure… oppure altrove, non so dove, in un qualche dove, ma lontano da qui. Vivere per ciò che non conosco, ma che so esistere. Sicuro di niente se non di dove voglia arrivare che coincide ineludibilmente con dove dovrei andare a riprendermi nel caso in cui mi perdessi. Se mi perdessi, mi troverei? Ma prima ancora, mi andrei a cercare? Avrei voglia di correre in mio soccorso dall’altro capo dei mondi? Avrei voglia di gridare il mio nome tanto forte da riuscire a sentirmi? Sarei disposto a fare uscire le branchie e nuotare i mari o palmarmi le braccia per volare i cieli solo per ritrovare me? In una corsa dove se vinci, vinci tutto e se perdi, perdi ogni cosa tu… sì, proprio tu, tu, dove sarai? Quando arriverà il tuo momento, quello in cui, stremato dagli eventi, affaticato dal male di vivere, appesantito dai giorni e pieno di chilometri nei piedi, tirarti indietro ti sarà impossibile; quando arriverà quel giorno in cui la vita ti chiamerà all’appello e ti dirà: “L’occasione è qua, eccola!”, tu, che farai? Fin dove sarai disposto a spingerti? Fin dove sarai disposto ad andarti a cercare? Sarai pronto a spogliare il tuo mondo? Sarai preparato a lottare di nuovo? Avrai fiato per gridare il tuo nome? Quanto forte sarai capace di gridare il tuo nome? Ma sopra a tutto, tu, in quel preciso istante, te lo ricorderai ancora il tuo nome?
Un nuovo anno sta per cominciare, l’occasione è lì, ci aspetta. Una nuova vita o una nuova scelta della stessa, ma con un proposito: ricordarci sempre di domandarci se dove siamo sia o meno il luogo giusto. E se non lo è, laddove sia possibile, alzarsi e andare via. Senza retorica o spiccia didattica, inizio questo nuovo anno con dei passi, dieci passi verso un nuovo inizio, dieci passi per tarare la mia bussola e sapere dove poter andare quando mi dovrò alzare.
Un passo per far cadere le foglie secche, che servono solo a dare colore e non vestono nemmeno più. Un passo per imparare a vedere i rami nudi, capire che non fa freddo e che spoglio non è vuoto.
Un passo per sopportare il gelo e la neve, che è leggera sì, ma pesa più del piombo e raffredda peggio di una parola bastarda.
Un passo per ‘mandare giù’ il ritorno della primavera, le giornate mezze e mezze, il sole tiepido, i bambini che gridano nel parco. Un passo per attendere l’uscita delle nuove foglie, ancora quasi invisibili, ma già grandi per essere scrollate via. Un passo per far da balia alle nuove foglie che fanno capolino dai rami, ché sono piccine e, si sa, vanno seguite. Un passo per farsi pronti a godere nel vederle verdi, forti e fiere, autonome; un passo per farsi forti quando punteranno i piedi,sono giovani, si sa, danno problemi. Un passo per farsi umili, sono quasi grandi ora e vogliono che ascolti le loro ragioni, e accettare la mediazione, rinunciare non vuol dire perdere.
E poi l’ultimo passo, il più difficile: ora che i tempi sono maturi, smettere di difendersi e cominciare a godersi.
Alla prossima settimana con Verberrando!

VerbErrando: Costruzioni – Viaggio tra lego e surrealtà

Veruska Armonioso
ROMA
– Finalmente anch’io possiedo i Lego.
Sembrerà sciocco provare piacere nel possedere qualcosa di tanto infantile, solo che in trentaquattro anni non ne avevo mai posseduto nemmeno un pezzo e invece io lo desideravo tanto. Quando ero piccola, mia madre si era sempre rifiutata di comprarmi palloncini pieni di elio e Lego. Dei primi detestava il rapporto costo/vantaggio, sostenendo che cinque mila lire per un palloncino che si sarebbe sgonfiato in meno di dodici ore fosse uno spreco; dei secondi riteneva che, come gioco, fossero ben al di sotto delle loro pretese. Di fatto, tutti i miei compagni di classe e amichetti ne possedevano almeno una scatola. Tutti li avevano, tranne me. Io non riuscivo a capire come fosse possibile che mia mamma non capisse quanto fossero importanti i Lego per un bambino, quindi le chiedevo spiegazioni di continuo, ma lei sosteneva che ero vittima di una moda e che, se proprio avessi voluto costruire, lo avrei potuto fare con il legno o gli stecchini, i cerini o gli stecchi di ghiacciolo o di gelato cremino. Allora giocavo, di tanto in tanto, con qualche Lego della mia vicina di casa, sempre di nascosto da mia madre e sempre più anelante di pezzi miei. Di fatto, negli anni, sviluppai altri modi per imparare a costruire. Delle costruzioni imparai ad apprezzare la perfezione degli incastri, la consapevolezza che, se avessi seguito le istruzioni, tutti i tasselli, con un’estrema facilità, sarebbero andati al loro posto e che il disegno sarebbe stato completato. Solo che diventai quella che io definisco una figlia dell’Ikea, una costruttrice capace di alzare palazzi solo disponendo di un libretto delle istruzioni. Giocando ieri sera con i lego, ho scoperto che non sono capace di costruire niente affidandomi alla fantasia, niente che non esista, senza seguire delle indicazioni. Strano, se si pensa che, da scrittrice, creo di continuo, ma in realtà costruisco emozioni, pensieri, suggestioni, sentimenti, storie che conosco, assortendole a mio piacere e con funzionalità; ma in questo non c’è niente di inesistente, niente di puramente fantasioso. Ho capito, allora, che tutto era dipeso proprio da quei Lego. Da piccola non avevo avuto l’occasione di esercitarmi a creare, a costruire affidandomi solo alla mia immaginazione.

Ora che possiedo i Lego intendo giocarci per tutta l’estate. Sarà il mio esercizio di stile e, insieme a questo esercizio, leggerò. Leggerò storie di fantasia, di fantascienza, surreali, perché voglio recuperare quel gusto, voglio essere capace anche io di vedere ciò che non c’è e metterlo su, come un aereo senza ruote che atterri su un cuscinetto cibernetico invisibile. Questo lungo cappello per augurarvi buone vacanze con una selezione letteraria a voi dedicata al gusto di costruzione fantastica.
“La casa del sonno” di Jonathan Coe è una delle mie prime scelte, per invitarvi a perdere il libretto delle istruzioni. Un saggio di spettacolare ricostruzione realistica affiancata a una costruzione di pura immaginazione. “Il linguaggio è un traditore, un agente segreto doppiogiochista che scivola inavvertito tra un confine e l’altro nel cuore della notte. E’ una pesante nevicata su un paese straniero, che nasconde le forme e i contorni della realtà sotto un manto di nebuloso biancore. E’ un cane azzoppato, che non riesce mai a eseguire correttamente gli esercizi richiesti. E’ un biscotto allo zenzero che, lasciato a inzupparsi per troppo tempo nel tè dei nostri auspici, si sbriciola, si dissolve, diventa niente. E’ un continente perduto.”


“L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” di Oliver Sacks, una raccolta di racconti basati su storie di pazienti neurologici visti come figure archetipe, “viaggiatori diretti verso terre inimmaginabili, terre in cui altrimenti non avremmo idea, che non potremmo raffigurarci”. Questi personaggi e le loro storie possiedono una connotazione così tanto fiabesca da portare naturalmente il lettore a scegliere come epigrafe l’immagine di Osler di Mille e una notte, facendo perdere la consapevolezza che si tratta di casi clinici, facendoli percepire come vere e proprie storie, favole, una sorta di “scienza romantica” come la definiva Lurija.
“Che cosa c’è che non va?” gli chiesi infine.
“Che io sappia niente” rispose con un sorriso “ma secondo gli altri avrei qualcosa gli occhi”.
“Ma lei non accusa nessun problema alla vista?”.
“No, direttamente no, ma a volte faccio un po’ di confusione”
. Uscii un istante dalla stanza per parlare con la moglie, quando rientrai il dottor P. era tranquillamente seduto vicino alla finestra, e più che guardare fuori, ascoltava attento “Il traffico…” disse “… i rumori della strada, i treni in lontananza…Formano una specie di sinfonia, non le pare? Conosce Pacific
Di Honegger?” […] Gli avevo tolto la scarpa sinistra e sfregato la pianta del piede con una chiave, poi mi voltai ad avvitare l’oftalmoscopio, in attesa che lui si rimettesse la scarpa. Dopo un minuto mi accorsi con sorpresa che non l’aveva ancora fatto. “Posso aiutare?” chiesi.
“Aiutare chi? A fare cosa?”
“Aiutare lei a mettersi la scarpa”
“Oh…” disse “…avevo dimenticato la scarpa” e aggiunse sotto voce “La scarpa?” con aria sconcertata.
“La sua scarpa, non deve rinfilarsela?”
Lui guardava sempre in basso, non la scapra però, con una concentrazione intensa ma male indirizzata. Infine il suo sguardo si posò sul piede: “E’ questa la mia scarpa, vero?”
“I miei occhi…” spiegò, e si mise una mano sul piede “… è questa la mia scarpa, no?”
“No, quello è il suo piede. La sua scarpa è lì”.
“Ah! Credevo che quello fosse il mio piede…”


“Scacciata dal paradiso” di Gianna Manzini, una raccolta degli articoli più belli scritti da questa autrice e intellettuale del Novecento che ci regala uno spaccato culturale e sociale dell’Italia degli anni sessanta con un linguaggio e una leggerezza che rende questo libro un piccolo gioiello di ovatta. Perfetto per tutte le donne che hanno voglia di leggere le parole di una saggia e meravigliosa donna che dell’eleganza e del garbo fece la sua bandiera.
“Alaim dichiarava che l’educazione ss’impara con la danza. Chi non sa ballare crede che la difficoltà consista nel conoscere le regole della danza e nel sottomettere ad esse i movimenti. Ma il segreto consiste nell’arrivare a ballare senza rigidezza, senza impaccio, e per conseguenza senza paura. Così per le ormai sancite e spesso derise regole di buona educazione:: conoscerle significa appena  trovarsi alle soglie d’una superiore disinvoltura.A riscontro dell’affermazione di Alaim, mi piace ricordare quella di un grande pittore: Chardin. A un poeta seccante e mediocre, che vantava la propria meticolosità nella cura e nella scelta dei colori, disse a bruciapelo: “Perché lei, scusi, dipinge con i colori?”
E l’altro, sbalordito: “E lei, con che dipinge?”
“Col sentimento: dei colori, io, me ne servo”.


Infine, un libro per gli appassionati di immagini. “Monsieur Cent tetes” di Ghislaine Herbera.Un libro di maschere, un viaggio antropologico dentro la poesia e la magia della metafora, dove la fantasia delle immagini (tutte rigorosamente tratte da maschere tradizionali esistenti, provenienti da tutti i paesi del mondo) viene messa a servizio di Signor Senza Testa che cambia Testa/Maschera a seconda dello stato d’animo che lo anima.

 

Che queste vacanze siano un tempo di riposo, il tempo per  recuperare tutto quello che da bimbi avete perso o mancato, costruendo con fantasia e audacia i vostri giorni, e mantenendo sempre noi di ChronicaLibri tra le vostre pagine.
Buone vacanze!

VerbErrando: OuLiPo

ROMA – Sono con amici a parlare di scrittori e libri di oggi. Io sorseggio il terzo o quarto calice di bianco; si parla dell’endemica incapacità di narrare qualcosa di rilevante, nella forma o nel contenuto. Tutti d’accordo, colpevoli (perché tutti, ovviamente, facenti parte della categoria incriminata) e tutti quasi ubriachi. Poi si comincia a discutere sulla forma, su come si costruiscono i libri oggi. La forma del libro, la sua architettura, gli espedienti ricercati per far sì che i libri abbiano un appeal. Si rintraccia in questa ricerca l’esigenza di sopperire alle mancanze, appunto, di contenuti andando a lavorare sul contenitore. Si dice che il risultato di questa manovra è quasi sempre incomprensibile e che questo non accadeva nel passato, un tempo, un mirabile tempo, in cui, invece, essendoci sostanza non c’era bisogno di esercizi di stile. Per avallare questa teoria è stato preso come esempio di semplicità Italo Calvino.
Sorrido, continuo a bere il vino. Non è così, affatto. Ma scelgo di tacere, perché mi è stato appena servito su un piatto d’argento il tema di Verberrando di questa settimana.

 
La letteratura potenziale- OuLiPo
“Secondo i calcoli di H. Gerstenkorn, sviluppati da H. Alfven, i continenti terrestri non sarebbero che frammenti della Luna caduti sul nostro pianeta. La Luna in origine sarebbe stata anch’essa un pianeta attorno al Sole, fino al momento in cui la vicinanza dalla Terra non la fece deragliare dalla sua orbita. Catturata dalla gravitazione terrestre, la Luna s’accostò sempre di più, stringendo la sua orbita attorno a noi. A un certo momento la reciproca attrazione prese a deformare la superficie dei due corpi celesti, sollevando onde altissime da cui si staccavano frammenti che vorticando nello spazio tra Terra e Luna, soprattutto frammenti di materia lunare che finivano per cadere sulla Terra. In seguito, per influsso delle nostre maree, la Luna fu spinta a riallontanarsi, fino a raggiungere la sua orbita attuale. Ma una parte della massa lunare, forse la metà, era rimasta sulla Terra, formando i continenti.”
C’era un gruppo di pazzi che nel 1960, a Parigi, hanno deciso di fare i sovversivi. Se la letteratura, aveva sempre seguito canoni e forme convenzionali e comuni a tutti, era ora di cambiare. Lo scopo era quello di costituire nuove strutture e schemi attraverso costrizioni (contrainte) da far usare a proprio piacimento agli scrittori, al fine di potenziare il loro impulso di ispirazione e visionarietà. Vincoli e restrizioni per liberare. Per risvegliare, come diceva Calvino, “i demoni poetici più inaspettati e più segreti”. Dei folli, insomma.
Questo Laboratorio di Letteratura Potenziale (Ou Li Po, Ouvroir de Littérature Potentielle), però, non detiene il primato di follia. Quello ce l’ha il Collegio di Patafisica di Alfred Jarry di cui la OuLiPo diventa costola; una scienza delle soluzioni immaginarie di cui il Faustroll è il manifesto… a dire il vero, parlando di scienza del paradosso e della matematizzazione impossibile, già il pastore-matematico-letterato Lewis Carroll aveva fatto il suo prima di Jarry, ma è meglio non entrare in questa selva oscura e non rischiare di perdere la ragione.
Torniamo alla letteratura potenziale del Laboratorio OuLiPo. Era una letteratura che non esisteva, “da scoprire all’interno di opere già scritte o da inventare attraverso l’uso di nuove procedure linguistiche, attraverso il rispetto di regole, vincoli, costrizioni, come ad esempio scrivere un testo senza mai usare una determinata lettera”. Sotto questa scia sono nati capolavori come “Esercizi di stile” di Queneau, “La vita istruzioni per l’uso” di Perec e “Il castello dei destini incrociati” di Calvino, ed è proprio da lui, Calvino “il semplice”, che voglio partire. Nel 1972, dopo essersi trasferito con la famiglia in Francia, entra a far parte del Laboratorio e scrive il libro oulipiano e patafisico per eccellenza.
Ne “Il castello dei destini incrociati” quasi ad ogni pagina, la narrazione è accompagnata da riproduzioni di carte dei Tarocchi, le cui diverse combinazioni danno vita a diversi racconti. La combinatoria porta sempre in sé l’ambizione folle e megalomane (e inesorabilmente fallimentare) di non omettere nulla, inserire, all’interno delle pagine, tutta, tutta la realtà nelle sue possibili declinazioni. La letteratura potenziale potrebbe andare avanti all’infinito, per poi scontrarsi con un limite, che non è dell’opera, ma nostro. Siamo noi a non avere a disposizione abbastanza tempo per
esaurire tutte le combinazioni possibili di una sequenza di immagini o di segni. E una delle conseguenze di questa constatazione viene ben formulata proprio da Perec, in un breve testo a commento del libro calviniano: “non ci saranno mai lettori a sufficienza per l’infinità di possibili racconti riflessi dagli specchi di questo Castello dei destini incrociati”. La letteratura potenziale è anche l’apertura all’infinito dei lettori possibili: i sentieri si biforcano di continuo, ogni storia può ramificarsi in infinite altre, ogni lettore potrà farsi largo a suo modo nell’oscura selva narrativa.
Perec, nel suo “La vita istruzioni per l’uso” (la cui traduzione in italiano è stata curata da Calvino in persona) immagina di togliere una parete dall’edifico e di osservare tutte le stanze e tutte le persone e le vite che le occupano. L’idea di osservare il palazzo dallo spaccato, come se fosse osservato da un architetto, gli viene da un disegno di Saul Steinberg, contenuto nella raccolta The Art of Living, che mostra appunto quello che succede nelle varie stanze di un palazzo al quale è stata tolta una parete esterna. Concentra “nel tempo di un istante (verso le otto di sera del 23 giugno 1975) e nello spazio perfettamente circoscritto di un caseggiato parigino, una pluralità favolosa di storie, di personaggi, di epoche, di mondi” (Hans Hartje, Bernard Magné et Jacques Neefs, Préface a Georges Perec) esplorando, in ogni capitolo, una stanza e muovendosi lungo l’area dell’edificio come su una scacchiera, con il passo obliquo della “mossa del cavallo”, secondo un itinerario tracciato in modo da non tornare mai due volte sulla stessa casella-stanza. Così nasce una macchina generatrice di storie: le vicende degli abitanti delle cento “caselle” si incrociano e si completano reciprocamente. Tutte le regole di costruzione delle sue strutture narrative, solo in parte svelate, sono annotate nei suoi cahiers de charges, amorevolmente ricostruiti da alcuni pazienti studiosi dopo la sua morte. Perec non esplorerà tutti e cento i locali del palazzo: ne salta uno, lasciando nella trama del romanzo un buco, un vuoto (voluto, cercato, impossibile da evitare, incolmabile e già indagato nel suo “Disparition” del 1968 , in cui la vita, mutilata di una componente essenziale, è rappresentata metaforicamente da una lunga narrazione scritta senza mai impiegare la vocale “e”). Il pezzo mancante è lo spazio che, all’interno del meccanismo letterario, permette agli ingranaggi di “fare gioco” e di mantenere il dinamismo dell’architettura complessiva. Per la stessa motivazione anche gli “Esercizi di stile” di Queneau erano novantanove e non cento. Come ci spiega Umberto Eco, traduttore di questo scrigno di preziosi “Un episodio di vita quotidiana, di sconcertante banalità, e novantanove variazioni sul tema, in cui la storia viene ridetta mettendo alla prova tutte le figure retoriche, i diversi generi letterari (dall’epico al drammatico, dal racconto gotico alla lirica giapponese), giocando con sostituzioni lessicali, frantumando la sintassi, permutando l’ordine delle lettere alfabetiche. […] Questi sono gli esercizi di stile di Queneau, che per anni mi hanno tentato come traduttore, perché erano ritenuti intraducibili, legati come sono al “genio” specifico della lingua francese. E infine la decisione: non si trattava di tradurre, ma di capire le regole di gioco che Queneau si era poste, e quindi giocare la stessa partita con un’altra lingua, azzardando qualche mossa in più, dato che lui aveva aperto la strada e non restava che continuare e andare oltre, nello stesso spirito.”
Strade aperte da altri, inviti ad andare avanti, a perdersi un po’, a percorrerla quella selva oscura.
Insomma, non è falso dire che la bellezza di un libro che farà letteratura si percepisca già dalla prima pagina, solo che non sempre quello che si legge è comprensibile. Il vizio dell’ingranaggio sta in noi, che riteniamo bello quello che ci arriva subito, ciò che è facile. I codici sono scrigni dentro i quali sono nascosti tesori. Le metafore i percorsi, i sensi il premio. La costruzione articolata e audace deve seguire una strategia e delle regole, non necessariamente messe a disposizione del lettore dall’autore. L’importante, per noi amanti del leggere, non deve rintracciare la costruzione del percorso, ma avere una strada da percorrere. Così come Lynch ci accompagna in quei corridoi senza luce incontro all’incognita, così la letteratura dovrebbe trasportarci “altrove”. Ma senza fiducia non puoi amare, conoscere, andare. Fidarsi del libro che si è scelto, affidarsi allo scrittore. Sincerandosi dell’esistenza di un valore prima di arrendersi a lui, fin dalla prima pagina.
Secondo me.

VerbErrando: Pigneto dreaming

ROMA – “L’etica e le regole di comportamento che ho escogitato e applicato fino a oggi, che mi hanno permesso di condurre e interpretare la mia vita come pareva a me, hanno smesso di funzionare, e non ne ho di nuove a rimpiazzarle. Mi ritrovo circondata da persone che, a quanto pare, invece, mi hanno sempre vista in un modo tutto loro e che ora continuano a impormi questa immagine falsata di me […]
Ce l’ho messa tutta perché su di me non ci fossero mai fraintendimenti. Ho sempre esposto le mie opinioni, agito nel modo più diretto, franco e inequivocabile […] Possibile che non sia servito a niente?”  (Romanticidio
di Carolina Cutolo, Ed. Fandango 2012)

 

Il Pigneto da un po’ è diventato l’ombelico del mondo culturale di Roma. Lì trovi sempre qualcosa in corso, che sia un concerto, un reading, un contest di scrittura, una mostra, qualcosa c’è  e non sei mai solo. Giovani buttati sui marciapiedi, o poggiati addosso alle macchine o fuori dai locali. Giovani che bevono… ecco, hanno sempre in mano un bicchiere di vino, di superalcolico o una bottiglia di birra, a seconda della propria inclinazione e al gruppo al quale appartengono. Ebbene sì, al Pigneto trovi i gruppi, proprio come accadeva nei paesi tanti anni fa. Così, se vai da Necci, ad esempio, torvi quelli della ‘dolcevita’, che mangiano spiedini di pesce spada cucinati da uno chef inglese; se vai da Birra + trovi i punk seduti sul ciglio della strada con i loro cani a guinzaglio. Al Forte Fanfulla gli habitué dei circoli ARCI che vanno lì per rilassarsi e ascoltare un po’ di musica o di passaggio, per fumarsi una sigaretta nel giardinetto esterno, ché tanto qualcuno che conosci lo trovi sempre; al Chiccen c’è Rossano che ti fa sedere al tavolino, ti accende una candelina immersa in quello che una volta era un vasetto di omogeneizzato ed ora è un portacandele, e ti serve vino e cibo cucinato da lui, tra un libro e l’altro. E’ proprio lì che, un venerdì qualunque di primavera, passeggiando, ti capita di incontrare Jack Hirschman che legge le sue poesie, accompagnato dalla Brigata dei Poeti Rivoluzionari di Roma, nuova di zecca. E allora, al fresco della sera, con un vinello tra le mani, puoi ascoltare le parole dell’ultimo genio della beat generation, ex professore di inglese alla UCLA di Los Angeles, che nel 1966 fu licenziato perché promotore di proteste e manifestazioni contro la guerra in Vietnam, tra le quali dare il massimo dei voti a tutti gli studenti destinati all’arruolamento per aiutarli a sfuggire alla guerra.

 

Il poeta dei giovani, per i giovani. Forse è per questo che tutti se ne innamorano. Forse è per questo che in tutto il mondo fioccano Brigate dei Poeti Rivoluzionari in suo onore, gruppi di giovani, promettenti poeti che hanno scelto lui come mentore. Una carrellata dei suoi più incisivi e accorati appelli al mondo fanno trattenere il respiro a una via del Pigneto stranamente stretta intorno a un unico luogo. I suoi arcani, tra cui quello “dei giorni dei morti”, dedicato a Pasolini e l’intramontabile “One day”:

“Un giorno smetterò di scrivere e dipingerò soltanto
smetterò di dipingere e canterò soltanto
smetterò di cantare e me ne starò seduto soltanto
smetterò di stare seduto e respirerò soltanto
smetterò di respirare  e morirò soltanto
smetterò di morire e amerò soltanto
smetterò di amare e scriverò soltanto”.

Insomma, sì, al Pigneto accadono cose. Ogni venti metri. Cose di arte, di musica, di letteratura, di folklore. Cose pubbliche, per le strade o nei locali, ma anche semi-pubbliche, dentro le case o nei cortili, quelli nascosti alla vista. Ed è proprio fuori da un cortile che mi trovo e sto per citofonare. Citofonare interno 7, questa è la mia destinazione. Giorni prima avevo ricevuto una convocazione segreta per questo evento a cui puoi partecipare solo dietro invito del padrone di casa (e fin qui tutto normale) e  se conosci la parola d’ordine. L’evento è un reading, di quelli che di solito si fanno alla libreria Eternauta, ma stavolta è dedicato a pochi, ai più intimi o ai più fortunati, i privilegiati. Questo invito ha del massonico, probabilmente è la ragione per cui risulta così affascinante. Ogni volta la location cambia, perché ogni volta si svolge nella casa dell’autore del libro di turno.
Questa volta l’invito è in via del Pigneto ed è il turno di Carolina Cutolo e devono aver esagerato, perché di invitati ce ne sono tantissimi, almeno una settantina, compreso qualche infiltrato, che si riconosce perché è staccato dagli altri, non parla con nessuno e non osa nemmeno avvicinarsi allo squisito buffet che la padrona di casa ci ha amorevolmente preparato.
Lì incontri tante persone, come Girolamo, che lavora per una cooperativa impegnata nel sostenere e aiutare i senza fissa dimora. Con lui mi metto a parlare di quanto sia ancora tragicamente naturale scansare le persone come loro, quelli che vestono abiti lisi, sporchi e maleodoranti  “La gente viene a chiedermi perché sono senza tetto e sai cosa rispondo io? Domandalo a loro! Avvicina uno di loro e chidiglielo, parlano, sai?”. Discutiamo circa l’importanza della conoscenza come mezzo per sconfiggere la paura della diversità, e delle azioni, necessarie e mirate, che la sua associazione, la casa di cartone, organizza per creare ponti tra i senza fissa dimora e le persone che una casa ce l’hanno, perché “la gente raggruppata dentro questa categoria è la più disparata. C’è il barbone, il tossicodipendente, il rifugiato politico. L’anziano che aspetta il suo posto in ospizio e l’uomo che ha perso il lavoro; c’è il vedovo, il trans, c’è la schizofrenica e poi ci sono quelli in fuga. Sono storie diverse, mondi diversi e necessitano approcci diversi, attenzioni diverse, aiuti diversi. La generalizzazione è un male da curare.” Ci diamo appuntamento al 15 di giugno, sulla Tuscolana, ci sarà un evento curato dalla sua associazione: il BIP , un mega concerto in un ricovero per i senza fissa dimora.
Appena il tempo di salutarlo e parte la serata. Ci sono ospiti-amici ad aprire il reading, tra cui Fabio Viola con l’estratto del suo libro prossimamente in uscita; e poi, alla fine, lei, Carolina Cutolo con lui, il  protagonista della serata, Romanticidio.
Si rivela subito. Generoso e ospitale, proprio come la padrona di casa. Il pretesto narrativo è qualcosa a cui non posso resistere: le cose stupide che si fanno per amore. Come finire in coma, ad esempio. Come affidarsi alle fantasticherie, negare la realtà, rifuggirla e sostituirla con un surrogato a metà tra il sogno e la schizofrenia. Carolina è così quando scrive, come quando parla: diretta, concreta, senza sofisticazioni, inutili orpelli, dice quello che vede con semplicità e garbo; circa la vita, l’amicizia, la ricerca del proprio futuro, la costruzione dei rapporti, l’amore e la morte. E quando ne scrive, così come quando ne parla, non puoi fare a meno di ridere, perché lei è fatta in questo modo: ironica e carismatica, teatrale e dissacrante ai limiti del paradossale e del grottesco. Così, quando fa incontrare alla sua protagonista, per la prima volta, l’amore e un nuovo inizio le fa incontrare, immancabilmente, anche il suo opposto: la fine. E lo fa così:
“Eccola, la mia fine perfetta, la mia morte ridicola, il mio istinto di sopravvivenza sacrificato all’idiozia di volermi far bella ai suoi occhi a ogni costo. Avevo appena messo a rischio la mia vita in modo irreversibile, e lo avevo fatto perché sopraffatta e vinta da qualcosa di cui, fino a quel giorno, avevo negato l’esistenza con tutte le mie forze. Come se non bastasse, su questo già patetico epilogo ecco implacabile l’ironia della sorte a chiudere il cerchio e a prendermi per il culo senza pietà: una fiera professionista dell’alcol che schiatta assassinata dall’acqua minerale.”

Numerosi bicchieri di vino dopo e, ormai, a notte fonda, lascio quel cortile per tornare a casa.
Il Pigneto… il luogo dove accadono cose…
Il quartiere dove sei sempre il benvenuto, in cui puoi non abitare e, comunque, sentirti accolto, casa. Basta andarci più di due volte per essere uno di loro, riconosciuto e salutato per strada, intrattenuto dai camerieri dei locali. Il quartiere per chi vuole ancora assaporare il gusto della vita di paese, un paese di arte e cultura, un paese di usi e costumi… calorosamente consigliato a chi è pronto a mettersi in gioco, a darsi agli altri senza sovrastrutture, a sorridere e a prendere la vita con la freschezza del ponentino che sembra soffiare per le sue vie. Per chi cerca la poesia delle piccole cose, per chi ha fame di conoscenza e di diversità, per chi, insomma, non si accontenta del proprio cortile e la vita la vuole vivere a più braccia. Un posto, insomma, perfetto sempre e per tutti.

Unica controindicazione: da evitare rigorosamente nel caso in cui voleste incontrarvi con qualcuno in clandestinità.

 

 

VerbErrando: un regalo fatto di parole, un romanzo in anteprima

ROMA – Quando una scrittrice ti regala due pagine del suo nuovo libro non puoi non essere felice. Felice perché la scrittrice in questione è Veruska Armonioso, autrice di VerbErrando. Veruska, che da qualche mese ci fa vivere nelle storie di altri autori o altre città, questa volta ci fa entrare nella sua storia, tra le sue righe. Nella settimana della 25esima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino c’è un nuovo libro che sta prendendo vita sotto i tuoi occhi: Accadde così che imparai a nuotare con le sirene.
Veruska Armonioso regala a VerbErrando, a ChronicaLibri, le prime pagine del suo nuovo e atteso romanzo; una storia che comincia con una leggerezza fatta di ricordi, di attese e di parole.

Accadde così che imparai a nuotare con le sirene

di Veruska Armonioso
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I pensieri da bene, le elegie sulla costanza, sulle fedeltà… niente di quel che l’etica razionale sceglie è ineludibile… l’uomo… imbocco tabacco… voglio sentire che sapore ha un uomo… del tipo decadente o bukowskiano, un uomo che va a puttane o che legge un libro. Come donna mi auspicherei di morire giovane, conoscere la miseria e imparare a masticare tabacco.
Nacqui a sei anni con la memoria già pronta e con una voglia diluviante di essere Tersicore… Rita Hayworth in Down to Earth, avrei dato la mia mano destra per un suo piede sinistro… danzare, sfogliare… petali, pagine, ciglia… geografie anatomiche, alloggiamenti di fortuna… uscire da una conchiglia nuda di me, vestita di capelli rossi, lunghi, ondosi.
Passavo giornate a fantasticare su moti di rivoluzione, opponevo la mia immaginazione ai provvedimenti draconiani delle suore che proprio non ci stavano a lasciare un bimbo in mano alla sua fantasia. Amavo fabbricare… fabbricai, avevo sei anni appunto, una barca di stecchini… ci misi tanto, da Natale a prima della fine dalla scuola. Poi le diedi fuoco. Mio padre pensò fossi piromane e chiamò subito il dottore. Volevo attirare l’attenzione, disse… così mi portarono per tutto il mese di giugno al lago… ogni sabato e ogni domenica, compleanno incluso. Mio padre mi aiutò a costruire un’altra barca con gli stecchini e poi mi invitarono a metterla in acqua. Solo che il lago non è come il mare, dal lago non si esce… le diedi fuoco, Anna gridò e smisero di portarmi al lago. Io volevo solo far salpare la mia barca di legno…
Norma era la casa di Polifemo… all’entrata del paese c’era un grande cartello con la sua icona… ci passavo tutti i mesi di agosto (questo lo so anche se non me lo ricordo). A Norma c’erano tanti pezzi… pezzi di sassi, pezzi grotte, pezzi di epica… quando i miei andavano a riposare, io correvo su per la collina e andavo a guardare i pozzi. Se esiste il pozzo c’è anche un secchio… solo che quei pozzi non avevano più acqua, così non c’erano i secchi. Io cantavo dentro al pozzo. Salivo su un vecchio cassetto di legna e cantavo. Cantavo bugie… e poi raccoglievo le bugie da terra e ci soffiavo sopra… sì… quei fiori che si rompono al primo soffio… distese di bugie attorno a pozzi senza secchi e me, a gridare bugie dagli echi fondi. Mi guardavo intorno… prato e pezzi di pietra. Immaginavo che Polifemo doveva proprio sentirsi solo, così alto e senza un occhio. Chi lo avrebbe amato se non io?… fingevo di essere la sua innamorata che lo aspettava e danzava per lui… ero Tersicore che danzava per il suo gigante. E poi il profumo del mare che arrivava a folate discontinue. Il mare era lì, all’orizzonte, e io danzavo, danzavo… danzavo… i pensieri arrivavano a mazzi, a grappoli… le suggestioni poi… ah, le suggestioni… che ricordo penetrante… un ricordo che sbaglia sempre i tempi… arriva, ti esplode tra le gambe, il freddo nella pancia, i brividi sul petto… se non fosse mai tornato?
L’anno dopo, a scuola, ci dissero che la terra dei Ciclopi era la Sicilia. Polifemo non era mai stato a Norma …smisi di cantare e rimasi seduta un’estate intera ad aspettare. Non sarebbe più tornato…non c’era mai stato, eppure io lo sentivo…avere le risposte, accoppiarle alle domande o starsene in silenzio dimenticando? Uscire da una conchiglia nuda di me, vestita di capelli rossi, lunghi, ondosi…
Cominciai a suonare per dimenticarlo… era a scuola, un gigante nero… feci la sua conoscenza passando le dita sulle listarelle nere, sempre le nere… suonava di me più una nera che tutte le bianche messe insieme…restavo in piedi dapprima, tiravo la linguetta che avevo scoperto essere una specie di regolatore di volume dal nome sordina… le carezze a punta di dita lì non funzionavano, se lo volevo sentir parlare dovevo pigiare… imparai a pigiare… poi a sedere… poi a non tirare più la linguetta e me ne innamorai.
Ci si innamora spesso per dimenticare un amore finito o un amore perso… fu l’unico amante che non tradii… così lui tradì me. Da un polpastrello esce più sangue di quanto non si pensi…

VerbErrando: Produci, consuma…

Veruska Armonioso
ROMA
– Produci. A trentaquattro anni per una lavastoviglie in cucina.
Lavaggio eco, che ti fa sentire meno colpevole ogni volta che pigi on.
Produci. A trentaquattro anni per un lavoro a tempo indeterminato che ti permetta
di andare al cinema e a mangiare la pizza il sabato sera. Multisala a Cinisello Balsamo,
che prima era una campagna con la latteria che vendeva i formaggi di mula e adesso è una città lego piena di pizzerie bio, con ingredienti a chilometri zero, a lievitazione zero, a farina zero, a prezzi zero, eat as you can.
Produci. A trentaquattro anni per accendere un mutuo per avere la tua casa di proprietà, un’Ici da pagare, degli interessi e delle rate di mobili presi da Ikea, che giusto in una casa tua possono entrare, visto che sai di non poterli smontare mai più dopo aver girato l’ultima vite.
Produci. Figli che saranno persone qualunque, che masticano gomme a bocca aperta e ti digeriscono in faccia, ridendoci su, ‘ché tanto mica hanno ucciso nessuno che si devono vergognare.
Produci. Cambiamenti continui e perituri, psicotici, confusi. Geografici, sentimentali, di stile, di abbigliamento.
Produci. Calcare mentale, di quello che ti necrotizza il grigio delle giornate, il grigio dei ricordi, il grigio della materia.
Produci. Distruzioni. Interne, come diceva Yates in Bugiardi e InnamoratiDentro ognuno di noi- e nello spazio tra i nostri corpi e le nostre storie, ovvero in quella cosa che si chiama legame- non si dà altro che disgregazione”.
Produci. Legami, come “sostanze fisiologicamente agoniche e disgregate” perché, del resto, l’uomo è questo: “una cosa che ci illude per deluderci, un grumo, una mistura, un ordigno prepotente e fragilissimo che deve di continuo difendersi da sé stesso inventandosi miraggi e divagazioni”.  “Tutti straordinari fabbricatori di abbagli.”[1]
Produci. Misericordia e compassione, autoassoluzione e Viagra.

Consumi. A trentaquattro anni l’idea come concetto. L’ideale come motivazione. L’azione come conseguenza.
Consumi. A trentaquattro anni la fame di un’appartenenza, unica, solida, imperitura.
Consumi. A trentaquattro anni la speranza come “rischio da correre”.
Consumi. La parola. Come la voleva Majakovskij…che “… esploda nel discorso come una mina e urli come il dolore di una ferita e sghignazzi come un urrà di vittoria”.
Consumi. Lo spirito e le tradizioni. Che Yukio Mishima cercava di tenere saldi addosso a sé come valori supremi: “Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! E’ bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore  all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! E’ il Giappone! E’ il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.”[2]
Consumi. L’eroismo. Perché, come diceva David Foster Wallace ” … il vero eroismo non riceve ovazioni, non intrattiene nessuno. Nessuno fa la fila per vederlo. Nessuno se ne interessa”[3].

Crepa. Vladimir Vladimirovič Majakovskij, per amore non ricambiato.
“A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle e Veronika Vitol’dovna Polonskaja. Se farai in modo che abbiano un’esistenza decorosa, ti ringrazio. […] Come si dice, l’incidente è chiuso. La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici”[4].

Crepa. Yukio Mishima, per patriottismo tradizionalista.
“La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”[5].

Crepa. David Foster Wallace, per depressione.
“La persona che ha una così detta “depressione psicotica” e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette per sfiducia o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. Eppure nessuno di quelli in strada che guardano in su e urlano “No!” e “Aspetta!” riesce a capire il salto. Dovresti essere stato intrappolato anche tu e aver sentito le fiamme per capire davvero un terrore molto peggiore di quello della caduta.”[6]

Produci, consuma e crepa. Lo dicevano ventisette anni fa i CCCP in Morire.
In sostanza di questo si tratta. Che tu viva per la pizza del sabato o per ideali romantici, che tu combatta ogni giorno o nessuno, che te ne accorga oppure no, produrrai e consumerai sempre qualcosa e sempre, ineludibilmente, morirai. L’unica differenza la farà la volontà, di mettere fine a una vita per tua scelta o di attendere che faccia da sé. Nessuna morale o presa di posizione, semplice cronaca.
E per chi si domandasse da che parte sto, io non sto da nessuna delle due.
Io sto nell’accettazione. Della sconfitta e dei cambiamenti.


[1] Yeats “Bugiardi e Innamorati”, Minimum fax 2011

[2] Discorso prima del suicidio rituale, Tokyo 25 novembre 1970

[3] Il re pallido, Einaudi – Stile libero 2011

[4] Biglietto di addio di Majakovskij.

[5] Biglietto di addio di Mishima.

[6] Infinite Jest, Einaudi – Stile libero 1996