Giulio Gasperini
AOSTA – Il testo di Tiziano Maffescioni, Le sinapsi preferiscono la pepsi, edito da Edizioni del Mosaico, è un esempio illuminato e illuminante di come ci si possa divertire con il significato e il significante delle parole. Attraverso un’impostazione grafica accattivante e coinvolgente, il libro si squaderna in due parti, diverse seppur cooperanti e armoniche. Nella prima parte, una mitragliata di motti ed epigrammi che ci stupiscono e ci sconvolgono, ci lasciano senza fiato e sul limite dell’incomprensione, perché alienanti. Le parole sono compromesse nel loro significato abituale e sono condotte al limite dell’abuso, in un gioco estremamente incalzante di risignificazione.
Tra il serio e il faceto, questi nuovi motti attingono alla cultura popolare, per gran parte, ma la sradicano, la spingono altrove, cercando di far emergere il potenziale della parola, scissa tra significato e significante, in un gioco di ricollocazione di entrambi, facendone spesso cozzare i due aspetti, tradizionalmente uniti. Questo è un compito della poesia, generalmente, ma anche di una certa narrativa sprezzante del pericolo e del rischio, nella quale la narrazione trova un’importanza minore rispetto al dubbio sulla lingua.
Nella letteratura italiana abbiamo avuto maestri sommi, in quest’opera di de-costruzione: Carlo Emilio Gadda è il nome forse più luminoso, in questo elenco; ma non ci possiamo dimenticare autori come Gesualdo Bufalino e, in parte, Luigi Meneghello e Iolanda Insana per la poesia.
Proprio per questo, la seconda parte di Le sinapsi preferiscono la pepsi si intitola “Incipit gaddiani”: sotto la forma di invenzione letteraria di un manoscritto ritrovato in un cassetto, topica della letteratura di ogni latitudine e di ogni tempo, sono presentati dei frammenti di narrazione che ricalcano perfettamente l’atteggiamento linguistico della prima parte.
Non sono più frammenti, motti e “proverbi spregiudicati” ma brevi testi nei quali il rovello linguistico è al centro dell’indagine: una lingua spregiudicata e impudente plasma un mondo inatteso e destabilizzante, alienante nella sua ironia tellurica.
Il testo di Tiziano Maffescioni è più di un puro e semplice divertissement linguistico. È un testo che fa riflettere sulla carica devastante che ha quella successione di lettere e sillabe che ci viene insegnata ma che non è indocile né neutrale.
Fa riflettere sulla ricchezza che abbiamo chiusa nel nostro vocabolario, per lo più ignoto e ignorato. Fa riflettere sulla non primaria necessità di capire, immediatamente, quanto piuttosto di attivare il ragionamento e la riflessione (così poco valutata in quest’epoca di brevi e immediati messaggi, mai interpretabili in alto modo).
È un testo che va guardato oltre un primo impatto di sorriso e di momentaneo divertimento per maturare consapevolezza e teorizzare un nuovo modo di decifrazione del reale, attraverso il segno scritto.