Giulio Gasperini
AOSTA – Una storia leggendaria, quella della Patagonia degli anni Venti, popolata di peones, gauchos e sindacalisti anarchici, in una terra lontana dai luoghi del potere, sferzata da un vento e da un freddo impossibili, ma fondamentale per la stabilità e la conservazione politica ed economica. Il giornalista argentino Osvaldo Bayer ha indagato e raccontato le vicende drammatiche che portarono al massacro di circa 1500 tra campesinos e sindacalisti nel 1922 in questo libro da sempre perseguitato e censurato: Patagonia Rebelde, riproposto in Italia dalla casa editrice Elèuthera in una versione ridotta, a causa dell’imponenza della versione originale. Le indagini di Bayer, dipanatesi per lunghi anni, hanno prodotto un’edizione originale in quattro volumi, per un totale di 1600 pagine: impossibile, dunque, da leggere e fruire per un pubblico che non fosse argentino.
Anche se in versione ridotta, comunque concordata e autorizzata dall’autore stesso, la lettura di “Patagonia rebelde” si dipana incalzante e appassionante, come se a esser narrata non fosse la cronaca di anni disperati e combattivi, ma la fantasia di un romanzo. Purtroppo, però, non è una finzione tutto quello che accade e che si sussegue in un’accelerazione alla tragedia verso cui il narratore consapevolmente ci fa precipitare. È la realtà di un’Argentina complessa e difficile, quella del primo governo di Hipólito Yrigoyen, che perseguì in politica un forte radicalismo. Nel 1921, in Patagonia, terra dominata da ricchi e potenti latifondisti, si susseguirono una serie di scioperi e di insurrezioni capeggiate dalla Sociedad Obrera di Río Gallegos, guidata da Antonio Soto; i motivi erano i più svariati, dalla ridefinizione di accordi di lavoro, tra cui turni e paga oraria, all’opposizione nei confronti di una legge temutissima e disumana, la Ley de Residencia, che condannava all’espulsione tantissimi lavoratori immigrati (soprattutto da Russia, Spagna e Italia), ideata e approvata nel 1902 per colpire principalmente socialisti e anarchici e per reprimere le organizzazioni sindacali. Dopo fasi altalenanti, Yrigoyen inviò in Patagonia il tenente Benigno Varela, che seppe sfrutta al meglio le fratture e le divisione tra i gruppi resistenti e, nonostante un accordo pacifico fosse stato più o meno raggiunto, decise di portare la situazione alla conseguenze più estreme: il 10 novembre del 1922 Varela ordinò la pena alla fucilazione per braccianti e operai in sciopero e l’esercito argentino soffocò nel sangue la protesta.
Bayer ci guida con sapienza e maestria attraverso tutti gli eventi, illustrandoci chiaramente cause ed effetti, con una tecnica stilistica raffinata, che nobilita comunque il saggio a un testo di letteratura: ammirevole, ad esempio, la struttura circolare del libro, che comincia con l’attentato a Varela da parte del tedesco Wilckens e termina con l’uccisione del giustiziere di Wilckens stesso. La Patagonia di Bayer è agli estremi opposti della Patagonia di Chatwin, diventata paradigma assoluto di un territorio spalancato fino alle più estreme profondità interiori e umane. Quella di Bayer è una Patagonia grondante sangue e istinti, è una Patagonia che pulsa di rivendicazione sociale e identitaria, nella quale domina incontrastata una forse ingenua ma coraggiosa aspirazione al riscatto e all’uguaglianza, per cui tutto quello che si chiede è una maggiore tutela e po’ di umana giustizia.
La Patagonia rebelde degli anni Venti.
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