Giulia Siena
PARMA – “Orcus è parola latina, con la quale nel mondo romano antico s’indicava genericamente la morte, ma insieme anche una divinità e il luogo dove abitano i defunti.
Trasferitosi dagl’inferi pagani, dove era sinonimo di spavento, l’Orco presso di noi già da tempo ha trovato alloggio nelle fiabe dove mena vita per lo più tranquilla in luoghi remoti o solitari”.
L’Orco, nell’immaginario comune, è una figura onnipresente ma – fisicamente – sempre un po’ nebulosa.
Sappiamo che è minaccioso: ci riporta alla paura ancestrale, al ricordo di quando eravamo bambini, al fiato sospeso, a una leggera angoscia. Le sue sembianze, poco chiare ma sicuramente temibili, si tratteggiano spontaneamente nella nostra mente e, per farlo, attingiamo sì al ricordo recondito, ma anche alle tradizioni popolari che hanno reso celebre e comune l’Orco. La sua figura ha esercitato forte suggestione sui lettori di ogni età e sui romanzieri e poeti di ogni secolo: era l’antagonista di molte fiabe, assimilabile al Diavolo, al Mago o all’Uomo Nero, allo Stregone e al Mostro. Ancora oggi esercita un fascino particolare, reso ancora più palpitante dal mistero che avvolge questa figura. Di questa “epifania” e di altre evoluzioni storiche ci parla Carlo Lapucci – ex insegnante e cultore di letteratura, linguistica e tradizioni popolari – nel saggio L’arte di fare il cattivo. Ovvero origine, epifanie e metamorfosi dell’Orco (Graphe.it). Lapucci, attraverso filastrocche, reperti storici e considerazioni, ripercorre il ruolo di questo protagonista indiscusso della mitologia, della storia e del folklore contadino.
“Dimora un orco là sotto quel scoglio:
non so se altro orco voi vedesti mai,
ma questo è sì terribile alla faccia,
che a ricordarlo il sangue mi se agiaccia”.
(Boiardo, Orlando Innamorato)