“Le nausee di Darwin”, quando il precario scopre la natura.

Marianna Abbate
ROMA – Sulla scia della mia precedente recensione, continuo a leggere e a scrivere di un argomento entrato ormai a far parte dei classici della letteratura degli anni ’10: il precariato. Questo leitmotiv ha ormai consolidato la sua posizione nelle conversazioni e nei telegiornali, al punto tale che non mi metto a spiegare nulla- perché sono convinta che ne sappiamo tutti abbastanza.

“Le nausee di Darwin” di Giordano Boscolo, edito da Autodafè, ci racconta un volto un pochino diverso del precariato. Quello che ha il volto di un laureato nelle scienze esatte, e per la precisione in biologia. Il dottore, dopo essersi sottoposto alla solita e sfiancante trafila di lavori temporanei e spesso umilianti, accetta di partire da Chioggia con un peschereccio- per avere almeno l’illusione di lavorare nel proprio mestiere. Le giornate passate in barca, le nausee eponime, e gli sfottò dei pescatori, lo aiuteranno a crescere e a ritrovare se stesso, e forse anche la strada da seguire- come ogni eroe romantico che si rispetti.  E scoprirà che i due mondi che sembravano davvero inconciliabili, esistono sotto lo stesso cielo (in un finale un poco nostalgico e timidamente patetico).

Ma il bello sono le riflessioni, i pensieri che riguardano lo stato sociale del precariato: “puttane diplomate”, disposti a fare tutto quello che ci chiedono, purché ci paghino. Prostituiti per l’affitto della doppia, per la ricarica del cellulare, per quella pizza con gli amici. Perché di più non possiamo neanche sognare.

L’autore non è il solito giovane laureato, ma un tuttofare della cultura, appassionato di cinema. E forse per questo il suo libro è pieno di immagini- di scene che hanno un grande impatto sulla nostra mente.

Il precariato? Non è un problema: "Cento lavori orrendi. Storie infernali dal mondo del lavoro"

Marianna Abbate

ROMA – Vi è mai capitato di chiedervi chi sia il poveretto che lava le lenzuola dell’ospedale? O di immaginare quanto debba essere brutto dover buttare via gli avanzi dai piatti di un ristorante? O peggio, vi è mai capitato di farlo? Non lamentatevi, questi non sono di certo i lavori peggiori. “Cento lavori orrendi. Storie infernali dal mondo del lavoro”, edito da Einaudi, vi catapulterà in una dimensione parallela, dove incontrerete chi analizza le vostre urine, chi confeziona il latte scremato e chi buca le torte.
Scoprirete chi toglie le patatine ammuffite dai pacchetti del bar e chi seleziona soltanto le pillole rotonde per le vostre scatole di medicinali. E neanche i lavori che vi sembravano utili, interessanti e stimolanti lo saranno più. Siete un giornalista? Provate a convincere il vostro capo che i Nirvana non si ispirano agli Abba. Dirigete una televisione locale? Scoprirete che il vostro lavoro consiste perlopiù nel vendere spazi pubblicitari. E non potrete mai stare tranquilli, perché per quanto orrendo possa essere il vostro lavoro, c’è sempre qualcuno più disperato di voi, pronto a soffiarvi il posto.

Tutta fantasia, direte, l’autore mangiava pesante la sera. Eh no, è, purtroppo, la triste realtà. Le testimonianze sono state raccolte per anni da una rivista inglese che aveva dedicato una rubrica al tema. Ogni lavoro è classificato tenendo conto di sei fattori che lo rendono orribile, e cioè quanto esso sia pericoloso, inutile, alienante, umiliante, immorale o disgustoso. Per rendere il tutto ancora più interessante, ogni lavoratore ha indicato la paga percepita, che quasi mai giustifica il trattamento ricevuto.
Cento lavori orrendi non smetterà di stupirvi fino all’ultima pagina, vi farà riflettere sulla follia del genere umano e vi farà ridere con la sua sconcertante attualità.

Cento lavori orrendi. Storie infernali dal mondo del lavoro, D. Kieran a cura di, Einaudi, 178 p., € 11.