Rubbettino: “La pozza del Felice” di Fabio Andina

Daniela Distefano
CATANIA
“E’ lui che bussa e mi sveglia. Non sono
nemmeno le cinque e mezza. Scendo le scale e apro la
porta e lo vedo lì nel buio sotto ad un ombrello. Braghette
corte, camicia sbottonata, scalzo. Entra un’aria fredda e
piove. Mi vesto ed esco. Ad un chiodo piantato nel muro
qui fuori c’è appeso il termometro regalatomi dalla
Vittorina. Cinque gradi. Non è mica così freddo, mi dico.
Sarà che non sono abituato a svegliarmi tanto presto.
Ieri avevo incontrato il Felice qui fuori
dalla mia baita in un pomeriggio di sole, sulle cime delle
montagne si addensavano le prime nuvole grigie che
avrebbero poi oscurato il cielo ancora prima del tramonto.
Stavo dando l’impregnante alla porta della legnaia, era
passato vestito uguale e sempre a piedi nudi e con un
sacchetto di plastica pieno di cachi. Avevamo scambiato
due parole poi gli avevo chiesto se potevo seguirlo nelle sue
giornate. Per vivere un po’ come fa lui”.

Siamo a Leontica, “una frazione – recita Wikipedia – di 351 abitanti del comune svizzero di Acquarossa, nel Canton Ticino (distretto di Blenio)”. Il narratore abita da un anno nella baita di famiglia, “fuggito dalla città”. Lì vicino vive il vecchio Felice, spirito indipendente assorbito dalla sacralità di ogni giorno, e grondante vitalità alla veneranda età dei novant’anni.

Il romanzo La pozza del Felice (Rubbettino) è la cronaca di queste giornate speciali. Si aprono con una camminata ‘liturgica’ alla volta della pozza del titolo, dove Felice si bagna ritualmente ogni mattina. Il libro è una storia di amicizia e autenticità, di quotidianità e stupore, di un’esperienza unica in una valle remota delle Alpi svizzere.
L’immensità delle vette che la sovrastano, l’incanto dei suoi silenzi, le pinete oscure, i crepacci innevati sono un sottofondo alle essenzialità della vera vita, quella che ha abbandonato il rimbombo della pubblicità, le idiosincrasie del traffico, l’ambizione sfrenata del successo, ed è fatta solo di cose piccole ma preziose. Il racconto mette le ali del buonsenso, si articola su una partitura linguistica ricercata, raffinata, e insieme riproducente il linguaggio della montagna. Quel timbro di arcaismo e colore dai toni decisi, salvo poi ammaliare con un vocabolo illuminato come un neon: la perizia di uno scrittore che non tralascia di parlare di semplicità con tutto l’armamentario letterario di cui dispone.

Fabio Andina – che con questo libro è vincitore del Premio Terra Nova della Fondazione Schiller – è nato nel 1972 a Lugano si è laureato in cinema a San Francisco. Ha pubblicato la raccolta di poesie Ballate dal buio (2005) ed è stato inserito nell’antologia Di soglia in soglia. Venti nuovi poeti della Svizzera italiana (2008). Nel 2016 ha pubblicato il romanzo Uscirne fuori e ha ricevuto una menzione al Premio Chiara Inediti per la raccolta di racconti Il paese senza nome, che gli è valsa l’inserimento nell’antologia Dieci racconti per Piero Chiara.

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