Intervista a Giulio Gasperini
Giulia Siena
ALTROVE – Intervistare Giulio Gasperini è sempre un momento di scoperta, eppure la nostra conoscenza risale a quasi due decenni fa; quindi, di sfide, sfighe, libri, opinioni e avventure ne abbiamo vissute tante. Ma ogni volta – come la prima – parlare con Giulio diventa una continua esplorazione lessicale e geografica intorno alle cose, agli accadimenti, ai pensieri. E questa volta, in occasione dell’uscita di Sogno che arrivo, la silloge scritta (e illustrata) insieme a Camilla Bertolina e pubblicata da Edizioni Migr-Azioni, la nostra chiacchierata itinerante ha toccato attualità, isole e vite.
Sogno che arrivo è un viaggio nel viaggio, un itinerario narrante tra le partenze, le storie, le “odissee” dei migranti. Quello stesso migrante che, quando approda, è una minaccia.
“Il migrante è il nostro specchio”; è una persona vulnerabile che ci ricorda le nostre fragilità, ciò da cui siamo scampati, ciò che abbiamo dimenticato: non avere una casa, non avere relazioni, avere mancanze di cui possiamo intuirne solamente l’atrocità. Quindi la nostra reazione – nel nostro quotidiano – è di fraintesa autodifesa. L’immedesimazione in questo stile comporta in noi una crisi e chiamare l’altro “migrante” ci toglie la responsabilità di attribuirgli umanità. Ma come tutte le parole, anche “migrante” è definibile in un contesto e con una accezione. Nella mia accezione non è un termine negativo poiché – essendo un participio presente – definisce una persona che vive lontana dalla propria terra; parla di una situazione transitoria di spostamento. E la poesia lavora in questo senso, scardinando l’uso della parola e caricarlo di altri significati; è la caratteristica della poesia: dare altro valore al termine.
Il libro è frutto dell’incontro con Camilla Bertolina (nella foto insieme), artista con la quale si crea una sorta di dialogo poetico che si dipana lungo tutto l’arco dell’opera. Come nasce questa collaborazione a due voci?
Ho scoperto Camilla Bertolina durante un corso di poesia in Valtellina, presso la Libreria Il Mosaico di Tirano, e la sua voce poetica – così forte e differente dalla mia – ha subito catturato la mia attenzione. La sua è una poesia colta ed evocativa che attinge dall’etimologia, dal mito e dagli archetipi; Camilla, oltre alle parole, utilizza codici espressivi molto diversi (l’illustrazione, il colore, l’immagini). Mi piaceva l’idea di mescolare le nostre peculiarità poetiche attorno al tema migratorio per vedere cosa ne venisse fuori. Il risultato è Sogno che arrivo: la mia parte è più legata alla narrazione poiché ho voluto dare una veste poetica alle storie ascoltate e raccolte in giro. Camilla esplora il viaggio in senso lato: cambiamento, rapporto con la famiglia, i figli ; è un comprensivo di esperienza migratoria e caviardage (metodo di scrittura poetica che, partendo da una pagina già scritta, attraverso diverse tecniche artistiche, dà vita a poesie visive).
Alcune poesie, alcuni versi, nascono dall’esperienza della Scuola di italiano per richiedenti asilo “DoubleTe” di Aosta che ha portato poi alla produzione del libro Stran(i)eri. Storie di alfabetizzazione (End Edizioni). Come confluisce quella sperimentazione nelle pagine di Sogno che arrivo?
Qui sono contenute tre poesie nate dalle attività didattiche che dal 2017 al 2019 hanno avuto sede in questa scuola di italiano che serviva alcuni centri di accoglienza straordinaria. E’ stata una sperimentazione didattica particolare, basata sull’utilizzo delle narrazioni per apprendere una lingua nuova, l’italiano, appunto. Volevamo puntare su una lingua italiana che permettesse alle persone di potersi manifestare, raccontare agli altri. L’esigenza era quella di partire dalle esperienze vere e reali e utilizzare la lingua come strumento di riconoscimento e libertà; la poesia ha questa bellissima peculiarità: svincola dalla grammatica per costruire un ponte di immagini.
Le storie che qui rivivono sono storie di migranti che attraversano il mare e che portano sul proprio corpo i segni di una scelta.
Il corpo è tema fondamentale delle migrazioni. Il migrante viene considerato tale se ha un corpo sofferente, se può mostrare quella sofferenza (i richiedenti asilo riescono ad avere protezione quasi sempre quando dimostrano di aver sofferto). Vengono legittimati a un’esistenza solo dopo aver provato di aver guadagnato quella vita con il dolore. E noi che per poco – e in maniera totalmente differente – abbiamo provato con la situazione pandemica la limitazione nel corpo e la necessità di attenzione per il corpo degli altri, possiamo solamente immaginare cosa significhi azzerare i propri bisogni e intraprendere un viaggio che procede per sottrazione. Questa considerazioni di persone che diventano numeri ci fa dimenticare la percezione del corpo: ciò che rimane di loro.
Lampedusa, “dove mare sconfina nel cielo e il vento scontorna il cielo”, è approdo e ripartenza. Un fazzoletto di terra che si stende nel mare nel quale rivivono le speranze di chi approda o le mancate lacrime di chi in mare perde la vita.
A Lampedusa ci si prende cura della vita e ciò che rimane di essa. Sull’isola ci sono volontari che si prendono cura dei cimiteri in cui vengono seppelliti i corpi di chi non sopravvive alla traversata. Questo gesto è una forma di rispetto per persone che non conosceremo mai e che, nonostante tutto, rimangono persone. Ricordare, raccontare queste storie è un modo per provare a non dimenticare, far sopravvivere la narrazione laddove il corpo non è sopravvissuto. Le narrazioni collettive di esperienze che sono comuni a tutti.
Lampedusa è la terra più lontana dall’Italia, corpo geografico della migrazione, orizzonte diventato protagonista della poesia.
Lampedusa – negli anni – è diventata una delle mie case, lì dove compio le mie azioni naturali. L’isola è un involontario palcoscenico, complesso seppur nella sua limitatezza: ci sono forme coraggiose di vita (biblioteca, archivio storico), è un luogo in cui si vive e si sperimenta la contemporaneità, un luogo che fa esperienza e da quella esperienza nasce il confronto. Lampedusa è un laboratorio, un’isola con un potenziale enorme ed è entrata nel mio immaginario poetico (lì dove tutto è possibile) c’è sempre qualcosa da vivere, da esplorare; una terra piana di vita.
Per l’ultima domanda della nostra chiacchierata mi sposterei in un altro luogo in cui si fa, da anni, accoglienza. Andiamo a Riace. Aiutare i migranti è un reato?
Assolutamente no; ma la questione di Riace è molto complessa poiché la sentenza giudiziaria – a mio avviso – è stata preceduta da un iter in salita ed è politica. E’ plausibile che ci siano stati errori nella gestione burocratica dell’accoglienza (chi conosce i meccanismi del sistema di accoglienza e integrazione, SAI, è consapevole della complessità e dell’alto rischio di errori), ma una decisione così pesante nei confronti di Lucano è rivelatrice di una situazione paradossale. Abbiamo assistito a vicende giudiziarie dello stesso tipo – vedi Mafia Capitale – che hanno avuto forme, modalità e conseguenze differenti; a Riace si è voluto colpire la persona e un “modus” di fare accoglienza perché in Italia, nonostante la modifiche SAI, non c’è spazio per la pianificazione a lungo termine dell’accoglienza. Rimane uno stato emergenziale perenne.
Siete grandi continuate così