Intervista ad un autore “Clandestino”

Marianna Abbate
ROMA – Vi ricordate la recensione del “Clandestino” (Edizioni Sonda) che ho pubblicato a novembre? E’ inutile che annuiate, andate a rinfrescarvi la memoria e poi tornate su questa pagina a leggere la simpatica intervista all’autore, che serve fondamentalmente a dimostrare che io non ho capito nulla delle intenzioni dello scrittore. Ma d’altronde non è forse questo il destino di ogni critico che si rispetti? Chissà cosa ne penserebbero Dante e Leopardi di tutte le dietrologie prodotte sulle loro opere. Allora perché non approfittare del fatto che l’autore possa risponderci di persona e non correre a intervistarlo? Ecco a voi Ferdinando Albertazzi.

Quali sono gli ingredienti di un buon giallo?
Tono, brillanza e purezza son gli “ingredienti” che differenziano qualsivoglia colore dai suoi “gemelli”. Vale dunque anche per il giallo, che sia colore o… genere letterario.

Perché ha scelto di scrivere per i ragazzi?
Non scrivo affatto per i ragazzi. Non in esclusiva, almeno. Il fatto che nelle mie storie ci siano ragazzi in pagina non significa che siano destinate unicamente a loro. Altrimenti là dove in pagina ci sono invece cani, gatti o maiali, dovremmo considerarle storie per cani, gatti e maiali… Scrivo, questo sì, i ragazzi, indagati soprattutto lungo il frastagliato  percorso verso l’adultità e quindi insieme ai “grandi”. Se una storia che “punta” preferenzialmente i ragazzi non ha almeno qualche valenza anche per gli adulti, è una storia da cestinare.

Quali sono le differenze tra un noir per ragazzi e uno per adulti?
Per come si stanno differenziando le generazioni, per certe impensabili disinvolture “guardonesche” e non solo che mostrano i ragazzi, direi che, paradossalmente, un noir anche per ragazzi deve essere assai meno ingenuo di quello che va a infoltire il catalogo “per adulti”.

Lei insegna in un corso di scrittura creativa: quali consigli si sente di dare a chi vuole iniziare a scrivere, in particolare per i ragazzi?
Non aver paura di avere il coraggio di provarsi, di scommettere contro la pagina bianca. Senza smettere, al contempo, di leggere tanto e senza accontentarsi dei risultati che si pensano già raggiunti. Usare insomma molto il cestino della carta straccia, nella consapevolezza che il difficile non è cominciare bensì durare e che  il temperamento e la qualità letteraria sono tra i fattori decisivi della durata.

Che rapporto ha con i suoi lettori? Le scrivono, vengono alle presentazioni? Come sono, insomma, i giovani lettori?
Durante gli incontri, quelli che hanno la lettura nel DNA sono curiosi e avidi, desiderosi di farsi prendere dalle narrazioni. Quelli che, al contrario, si avvicinano alle storie in pagina con scarso entusiasmo o sono addirittura refrattari,  si lasciano però catturare dai laboratori musicali che Gabriella Perugini ha ideato e realizza per i miei libri. Diversi a seconda delle storie, ovviamente. Sono per lo più proprio quei ragazzi lì, quelli che non leggono volentieri o non leggono affatto, ad apprezzare gli incontri attraverso i laboratori musicali (soltanto così, d’altronde, parlo dei miei libri con i ragazzi), dove sono peraltro artefici. “Ah, ma se si può leggere così, allora…”, commentano stupiti e invogliati. Ed è una conquista davvero promettente, quella che principia dai loro sguardi magari di ironica sufficienza, via via accesi da un incredulo interesse…

 

 

Patrizia Simonetti ai microfoni di ChronicaLibri

Stefano Billi

ROMA – ChronicaLibri si fa radio. Infatti, abbandonata la consueta scrittura di articoli, per un istante ChronicaLibri diventa speaker radiofonico ed intervista Patrizia Simonetti, autrice del libro “Il giornalista radiofonico. Istruzioni per l’uso“, Armando editore.

 

 

Lei ha lavorato in radio sia come speaker, sia come giornalista. Quale dei due tipi di approcci al mondo radiofonico è attualmente il Suo preferito?

 

In questo momento mi piacerebbe molto tornare a lavorare in radio come speaker, nello specifico come conduttrice di un programma musicale o di attualità, in cui poter parlare a ruota libera senza limitarmi a leggere il testo di un notiziario o di un servizio giornalistico, seppure redatti da me. Questo probabilmente perché ho lavorato come giornalista per ben vent’anni, dal 1989 al 2009, e sento il bisogno di cambiare. O piuttosto di tornare al mio primo amore che è,  appunto, quello di fare radio in modo più “libero”. Allo stesso tempo la mia natura è oramai quella di giornalista per cui l’ideale per me sarebbe uno spazio da riempire, ad esempio, con musica e notizie, magari a tema, o, ancor meglio, un programma, anche di utilità, che preveda l’intervento degli ascoltatori. Interagire con chi ti segue è molto gratificante, anche se allo stesso tempo rischioso. E’ come una prova del nove in diretta: se la gente ti chiama e vuole parlare con te, vuol dire che il tuo programma è buono e tu stai lavorando bene, se invece ti ignora, evidentemente c’è qualcosa che non va. Ma sarei disposta ad accettare la sfida.

 

Nel Suo manuale, Lei affronta la realtà del giornalista radiofonico in maniera davvero schietta e sincera, fornendo un taglio consapevole sui pregi e difetti di questa professione. Stante questa consapevolezza, Lei immagina la radio ancora come qualcosa di magico, così come quando ha iniziato questo mestiere?


La radio “è” magica e non smetterà mai di conquistarmi con il suo fascino. Sono convinta, come ho anche accennato nell’introduzione del mio libro, che nessuna nuova tecnologia potrà mai soppiantare questo mezzo unico e creativo. La radio regala informazione, intrattenimento, compagnia, senza chiedere nulla in cambio. Puoi ascoltarla mentre fai altre cose o concentrarti solo su di lei. E’ diretta, immediata, sincera. La radio ha un potere che definirei generoso, perché può esser messo a disposizione sia di chi la fa che di chi la ascolta, offrendo ad entrambi un’infinita gamma di possibilità: può comunicare, far riflettere, divertire, aiutare, può persino alleviare solitudini e  rafforzare legami. Io ho sempre vissuto di radio, prima come ascoltatrice, poi come conduttrice. La radio è stata il sottofondo della mia vita e la mia vita stessa. Come potrei mai smettere di amarla?

 

Perché ha sentito il bisogno di scrivere un manuale sul tema del giornalismo radiofonico?


Ho lavorato per vent’anni in un’agenzia di stampa radiofonica come giornalista, ricoprendo ogni tipo di mansione: redattrice, responsabile di settore, conduttrice, inviata. Sebbene dura e faticosa, è stata un’avventura bellissima. Ma poi è finita. Le lunghe storie d’amore, anche se ci fanno soffrire, ci lasciano sempre qualcosa. Così ho pensato che anche questa mia complessa “relazione” doveva e poteva lasciare un segno. Ho quindi deciso di documentare quella che è stata la mia lunga esperienza in questo settore e metterla a disposizione di chi vuole intraprendere questa strada, illustrandone con sincerità  il fascino ma anche le difficoltà, sperando che possa essere d’aiuto. Anche scrivere, del resto, è stata sempre la mia passione: in questo modo ho potuto unire i miei tre grandi amori: la radio, il giornalismo, la scrittura. E poi, dopo aver tenuto alcune lezioni di giornalismo radiofonico all’Università, coltivo l’idea di tenere un corso tutto mio come docente e mi piacerebbe che questo testo potesse esserne la base.

 

Molti speaker o giornalisti radiofonici hanno appreso il loro mestiere attraverso numerosi anni di esperienza, forgiando la propria voce a partire dalle emittenti più piccole sino a quelle più blasonate. L’avvento di molteplici libri che aiutano a diventare speaker o giornalisti radiofonici, secondo Lei può arricchire e accelerare il processo di formazione professionale delle nuove voci che si affacciano in radio, accorciando il tempo che prima era necessario ad imparare questo mestiere?


Ho cominciato da giovanissima e come autodidatta in piccole emittenti di quartiere: all’epoca, parliamo degli anni 80, andavano molto di moda le dediche radiofoniche ed io ne facevo tante! Poi, a mano a mano che acquistavo esperienza e sicurezza, mi proponevo ad emittenti più prestigiose, in alcune delle quali sono riuscita ad entrare, fino ad approdare in Rai. Ritengo dunque che la pratica, sia per la conduzione radiofonica che per il giornalismo, sia assolutamente la scuola migliore. Tenendo tuttavia presente che, come scrivo nel mio libro, tutto può riuscire più facile se si possiedono alcune cosiddette doti innate. I testi sull’argomento certamente possono aiutare, purché spieghino realmente ciò che è meglio fare e ciò che è meglio evitare, fornendo una base teorica che può rivelarsi molto utile ad apprendere più velocemente il mestiere. Ma poi la pratica è fondamentale. Sicuramente anche un buon corso può dare una mano. Purtroppo però c’è da dire che attualmente non basta “saper fare”: la crisi colpisce ogni settore ed anche quello di cui stiamo parlando.  Non è facile trovare un lavoro, quanto meno degno di questo nome, neanche in radio. Ma se c’è la passione il mio consiglio è: insistere!

 

Perché i lettori del nostro giornale dovrebbero leggere il Suo libro?


“Dovrebbero” è una parola grossa! Direi che lo consiglio a coloro che vogliono intraprendere questa professione perché può essere un valido aiuto di base: l’esperienza insegna sempre. Può quindi aiutare ad essere più preparati ad una prova pratica, spiegando in modo chiaro e semplice cosa verrà chiesto loro nella redazione di una radio o di un’agenzia radiofonica, aiuta a familiarizzare con i termini tecnici del giornalismo radiofonico e illustra, proprio come un libretto di istruzioni di un kit, come si prepara e si realizza un notiziario, un servizio, un’intervista. Se durante uno stage viene chiesto di preparare un lancio o procurarsi un sonoro, chi ha letto il mio libro non dovrà chiedere di cosa si sta parlando, ma potrà mettersi subito all’opera. Allo stesso tempo lo consiglio anche ai semplici curiosi: non vi siete mai chiesti, ascoltando un notiziario o un servizio, cosa c’è dietro e come è stato preparato? Il mio libro ve lo racconta.