“Fatto da Dio”, un entusiasmante viaggio nel passato

Fatto da Dio
Silvia Notarangelo

ROMAUn’esplosione, poi più nulla, il buio. Un corpo irriconoscibile, distrutto, una mente che ha cancellato qualunque traccia di memoria. Eric Ashworth si risveglia, in una prigione di Los Angeles, senza sapere il perché. È lui il protagonista di “Fatto da Dio”, l’intenso thriller di Craig Clevenger pubblicato da Fanucci. Una storia originale, spiazzante, capace di ricreare una realtà parallela e di addentrarsi, con ipnotiche descrizioni, nelle ferite più profonde.

Eric non ricorda nulla. Del suo passato, su cui sembra calato definitivamente il sipario, continua a resistere un solo minuscolo frammento, un nome: Desiree. Chi è Desiree? Che ruolo ha nella sua vita? Perché basta nominarla per far accelerare il suo ritmo cardiaco? Trovare una risposta non è facile quando, all’improvviso, tutto diventa nuovo, sconosciuto, oscuro. E, fidarsi di perfetti estranei, potrebbe non essere una buona idea.
Così, a catturare l’attenzione del protagonista, sono gli odori, i colori, i rumori e un misterioso pacchetto tra le mani della Fata Dietro al Vetro. A poco a poco, uno squarcio di luce comincia ad aprirsi sul suo passato. Il recupero della memoria procede a intermittenza, i ricordi vanno e vengono sotto forma di allucinazioni, a volte sono più nitidi, altre avvolti da una nebbia difficile da dissipare.
Eric inizia a rimettere insieme i pezzi, proprio a partire da quelle molecole e da quegli atomi che lo hanno sempre affascinato fino a trasformarlo in un chimico speciale, in un uomo che “ha passato la vita a dare alla gente il suo di Più”. Per lui, “dare di Più” è un imperativo, un gioco attraente e pericoloso, in cui il limite tra artefice e vittima può essere estremamente labile.
Alla fine, i suoi sforzi saranno premiati. Una verità, straziante, si farà strada. Tutto quello che non ti sei ancora ricordato lo hai dimenticato per una ragione. Tagliala. Eric era stato avvisato, ma niente ha potuto fermarlo.

“Lasciami andare”, perché io possa tornare

Marianna Abbate
ROMA  Una figlia che conosce solo suo padre. Una vita avvolta in un velo di maya che nasconde segreti e a volte scopre mezze verità. E’ questa la storia al centro del romanzo di Fulvia Degl’Innocenti “Lasciami andare”, pubblicato da Fanucci.

16 anni, già da soli bastano perché una ragazza abbia dei dubbi generici sull’esistenza propria, sul mondo e sui genitori. Ma quando ai timori adolescenziali si aggiungono alla misteriosa nostalgia materna e vengono stimolati da una sospetta e rabbiosa tristezza dell’unico genitore conosciuto, ecco che la macchina del cervello si accende. Bisogna sapere, bisogna scoprire. Il desiderio di conoscenza spinge oltre ogni confine, calpesta ogni lealtà. Diventa sete. Tanta è l’arsura da insinuare il più terribile dei sospetti.

Eleonora si ritrova tra carte, persone e storie che non le appartengono, ma che l’hanno vista protagonista ancora in fasce. E così, la ragazza accompagnata da un fedele amico, sulle tracce del proprio passato, come un detective, si trova in mezzo ad un mondo che non è il suo, a storie che non avrebbe dovuto sapere e a emozioni che non avrebbe dovuto mai provare. Ma solo toccando con mano questo mondo da cui era stata esclusa, potrà ritrovare la serenità, la fiducia e sentirsi un po’ meno sola.

Commovente questo romanzo, un racconto di formazione. Quello che mi ha colpito di più è l’atemporalità dei sentimenti, delle emozioni e dei sospetti. Una scrittura realistica e introspettiva, che mostra il quotidiano nella sua oggettività, spiegando nel contempo la relatività nella ricezione personale dello stesso.

 

 

Un sogno ad occhi aperti: “Il paese del caos”

Silvia Notarangelo
ROMA – Alcuni lo sognano, altri lo temono. C’è chi lo considera un habitat ideale, chi inorridisce soltanto al pensiero. Il caos non mette tutti d’accordo, anzi. Ordine, norme, disciplina fanno parte della nostra vita, ma è innegabile quanto le imposizioni di qualunque genere, siano mal digerite. Cosa potrebbe succedere, allora, se ad essere imposti per legge fossero il caos, il disordine, l’illusoria assenza di regole? Sarebbe un mondo fantastico o, almeno, così deve averlo immaginato Flavia, la piccola protagonista de “Il paese del caos”, il nuovo libro di Marcella Russano pubblicato da Fanucci.

Niente cameretta da sistemare, niente giochi e barbie da mettere a posto, pena la tanto temuta e detestata punizione. Un “sottile ricatto” messo in atto da molti genitori a cui i bambini (non tutti) si piegano più o meno coscientemente. Niente e nessuno può, però, arginare la loro fervida immaginazione. Anche l’autrice si lascia guidare dalla fantasia in un viaggio magico ed entusiasmante, lungo il quale non mancheranno risposte a quei piccoli e grandi dubbi che già si insinuano nelle menti dei bambini.
È un sogno ad occhi aperti, un’avventura piena di insidie e di sorprese, quella in cui si ritrovano catapultate Flavia e Martina, la sua migliore amica.
La “Repubblica libera del caos” le accoglie rivelando tutta la sua stravagante normalità. È un mondo apparentemente alla rovescia, un mondo in cui tutti sono alla ricerca di qualcosa perché non si trova mai nulla e nessuno, per legge, ha il potere di mettere ordine. Per chiunque disobbedisce le porte del carcere sono pronte a spalancarsi.
Il “sottile ricatto”, insomma, si ripete, sotto diverse spoglie, ma con analoghe, odiose conseguenze. Venire a contatto con questa realtà, dominata da regole-non regole e caratterizzata dall’infelicità dei suoi abitanti, si trasformerà in una sfida avvincente per le due bambine, chiamate a superare le loro paure, a battersi per una giusta causa, scoprendo, non da ultimo, un’amara verità: talvolta, le regole, se giuste e condivise, possono servire a qualcosa.

In libreria arriva “L’isola scogliosa”

ROMA – Nuove avventure e nuovi mari per Tomatito. Dopo “La via del pirata”, il protagonista della penna di Teo Benedetti torna in libreria con “L’isola scogliosa”. Pubblicato il 24 maggio da Fanucci, il secondo episodio della serie Il terribile Tomatito, vi stupirà con il suo mix di avventura, divertimento e simpatia.

È arrivato il momento per Tomatito di affrontare la seconda missione della Via del Pirata! Questa volta lo attende una prova più dura: con la supervisione dell’esperto timoniere Rollo Reel e l’aiuto dei marinai della Pan Bagnato, dovrà affrontare le infide onde del Mar Biancastro per imparare a condurre una nave. E se questo non bastasse, per testimoniare l’impresa, Tomatito dovrà tornare dalla traversata con un esemplare di Primula Gagliarda, bellissimo fiore che cresce unicamente sull’Isola Scogliosa. Spiegate le vele e siate pronti a legare le cime: si parte!

"Senza respiro". Valentina F. torna, ma con qualche "imprevisto"

Silvia Notarangelo
ROMA – È un’esperienza, purtroppo, comune. Un volo annullato all’ultimo momento ed ecco che tutti i piani sono stravolti, scatenando innumerevoli disagi e malumori. Le cose, però, non vanno esattamente così per Alicia, la protagonista del nuovo libro di Valentina F., “Senza respiro”, pubblicato da Fanucci. Per lei l’imprevisto si trasforma in qualcosa di più, in un’esperienza incredibile, capace di mettere in discussione le sue certezze.
Quando, da sola, si ritrova all’aeroporto di New York e sente annunciare “il volo 724, New York- Acapulco, è stato cancellato”, il panico è inevitabile. La settimana tanto attesa con Rudy, il ragazzo messicano di cui è innamorata, rischia di saltare.
Non conosce nessuno in città e, quindi, non le resta altro che chiamare Teresa, una simpatica ragazza italiana conosciuta in aereo, disponibile ad ospitarla in qualunque momento. Il trasferimento a casa della giovane connazionale è immediato e la permanenza negli Stati Uniti, oltre a rivelarsi più lunga del previsto, saprà riservare imprevedibili sorprese.
Dopo un primo momento di sconforto, i giorni nella Grande Mela prendono una piega inaspettata. Alicia conosce Steve, un artista sui generis, con una personale filosofia di vita ed una altrettanto particolare concezione delle sue opere. L’inizio tra i due non è certo dei migliori. Alicia è scettica, crede che sia un pazzo e Steve, da parte sua, fa ben poco per sfatare quest’opinione. Ogni incontro sembra stregato, c’è sempre qualcosa che non va. Incomprensioni e litigi non riescono, però, a nascondere un reciproco interesse che sembra crescere di giorno in giorno.
La svolta arriva quando Alicia, seppur titubante, accetta di posare per Steve. Finalmente conosce da vicino la sua realtà, vede i suoi quadri e, senza accorgersene, si ritrova catapultata in un’avventura che le farà aprire gli occhi su Steve e sul senso dei suoi giorni trascorsi a New York.
Dall’autrice di “TVUKDB”, un nuovo romanzo da leggere tutto di un fiato, nella convinzione che sì, a volte, l’immaginazione può davvero superare la realtà.

"Bambini nel bosco", la storia di bambini nati con le storie

Giulia Siena
ROMA
“Il problema con le storie era che molte parole erano misteri. Anche Tom faceva fatica a capirle tutte, quando le incontrava. Ma ogni tanto qualcuna riaffiorava, nitida, con il suo sapore, il suo odore, il suo colore. Zucchero, per esempio. Era bianca, forse appena rosa, e restava a lungo sulla lingua. Era una parola da succhiare.” Cosa succede quando ai bambini vengono tolte le storie, i giochi, i genitori e i sorrisi? Succede che non hanno più memoria né fantasia. La stessa cosa è successa ai protagonisti del romanzo di Beatrice Masini, “Bambini nel bosco”   pubblicato da Fanucci Editore. Al mondo è successo qualcosa: una catastrofe che ha spazzato via le famiglie, le ore, le case e i nomi delle cose; così tanti bambini sono costretti a vivere in un posto a tutti sconosciuto. Tra loro c’è un gruppo più vivace che vive seguendo gli ordini della ferrea Hana e tutto il giorno allontana la noia cercando bacche da mangiare o azzuffandosi fino alle lacrime. Ogni giorno così senza che nessuno dalla Base gli dica se tutto quella “cattività” sia normale. Ma Tom sa che è successo qualcosa, lui è diverso dagli altri: ha qualche anno in più, ha qualche ricordo o “Coccio” che riaffiora e ha un segreto che custodisce con cura. Il suo segreto è fatto di pagine ricche di storie. Il suo segreto è un libro che sveglierà gli altri bambini dal torpore del silenzio e li porterà lontano. Il libro di Tom farà diventare questi bambini i “Bambini nel bosco”. 

Beatrice Masini ci porta in un romanzo che è privo di elementi spaziali e temporali; la sua scrittura ci catapulta in un mondo negato dove solo la forza della lettura e dell’immaginazione ti spingono ad andare più in la. Oltre ogni riga fino all’ultima pagina della sua storia per tutte le età.

Anteprima: aspettando San Valentino leggi l’estratto di "I love you, goodbye"

ROMA – Cosa si nasconde dietro il sentimento che fa girare il mondo? E’ poi vero che l’amore cambia la vita? A poco più di una settimana da San Valentino, Leggereditore porta in libreria un romanzo delicato, profondo e mai banale: “I Love you, goodbye” di Cynthia Rogerson. Aspettando la recensione di questa ottima idea regalo per il giorno più romantico dell’anno, vi proponiamo un estratto del coinvolgente “I love you, goodbye”.

Settembre

Evanton
È una cittadina nelle Highlands scozzesi che dallo spazio neppure si vede, neanche una macchiolina. Da Fyrish Hill invece sembra un mucchio di detriti in fondo a un crepaccio: case di pietra grigia che si snodano verso l’estuario. Se si entra in città al crepuscolo, si trasforma in una contea. Finestre illuminate da una luce confortevole, e sbuffi di fumo dai camini. Chi non vorrebbe mettere su casa in un luogo simile? Ma appena ci si avvicina un po’ di più, appena ci si accosta a queste finestre, le cose non sono poi così idilliache. Decisamente no. E non solo ogni sentiero caratteristico ha la necessaria infelicità,
ma anche ogni casa. E ogni persona.


Ania
Cos’altro conta, cos’altro è realmente misterioso e degno d’interesse, a parte l’amore? La morte, certo, ma è anch’essa anticipata o ritardata dall’amore. E la morte dell’amore è una
tragedia esclusivamente umana. Dev’esserci un fine evolutivo nel dolore che segue la perdita di un amore. Non so quale sia. Ma la morte dell’amore mi dà da vivere, perciò non posso
lamentarmene troppo. Mi sono immersa negli intimi spasmi d’agonia di cinquecento matrimoni ormai – una bella cifra per una che non ha ancora raggiunto i trent’anni –, ma d’altra parte ho sentito la vocazione molto precocemente, e ho consacrato la mia vita alla resurrezione dell’amore. La consulenza matrimoniale è un’arte. Di più, sono un medico di matrimoni all’ultimo stadio. Mi colloco al pronto soccorso delle relazioni e poi, se ho fallito, al reparto per malati terminali. Soprattutto, sono una filosofa dell’amore. Si saprà, se si è letterati, che tutte le famiglie felici sono simili, mentre quelle infelici lo sono ognuna a proprio modo. Non aggiungo altro. Le persone sono sole, incontrano qualcuno, e si innamorano. Sono migliori, innamorate, perciò è semplice amarle. Quando sono innamorate, le persone sono tutte uguali. In questa fase l’amore è totalmente basato sull’ignoranza e la mancanza di familiarità. Come ha detto W. Somerset Maugham: L’amore è quello che capita a un uomo e a una donna che non si conoscono.’ Per i miei clienti, dal momento in cui li incontro, spesso sposati da un quarto di secolo, è diverso. Non avete idea quanto sia affascinante osservare tutti i giorni il modo in cui gli umani si affannano a trovare sempre nuovi modi per ferirsi a vicenda.
Si conoscono tutte le loro paure circa la solitudine e sognano… una molteplicità di cose che l’amore non ha, finora, concesso. L’amore li ha delusi, com’è normale che sia. Sono nata con questa consapevolezza, il che non mi ha impedito di sposare Ian. L’ho messa a tacere per lui. Ache pro distruggere le sue illusioni? Sarebbe come dire a un bambino di due anni che un giorno certamente morirà. L’amore muore. Certo! Non dovrebbe sorprendere nessuno, ma colpisce comunque mariti e mogli alla stregua di una cannonata. La maggior parte degli individui crede di aver fallito, come se la rottura non fosse inevitabile. Le persone il cui amore dura tutta una vita sono rare. Per noialtri, perfino durante il primo bacio è possibile avvertire il sapore dolceamaro della fine. E a essere onesti, il tormento non ha la stessa squisita intensità della prima vampa di desiderio? Ci sono più poesie e canzoni sul perdere l’amore che sul trovarlo. La sofferenza è di certo preferibile alla lenta agonia della fase intermedia. E quando una relazione si chiude, definitivamente, non c’è più incertezza sul modo in cui andrà a finire. Ci si tormenta, ma in parte ci si sente sollevati, consapevoli che non può più andare, tornando poi a immaginare d’imbattersi in qualcuno che sia migliore.
Se ci fosse un ufficio governativo chiamato dipartimento dell’Amore umano, una grande stanza rosa piena di donne dai grembi soffici e di teneri uomini dagli occhi scuri, questi
verrebbero inondati di reclami e proteste ogni giorno. La gente intenterebbe causa all’Amore per danni inimmaginabili. Ma non può, così viene da me. C’è sempre un momento, dopo che suonano alla porta, in cui chiudo gli occhi e prego: Permettimi di aiutare questi cuori afflitti, domando a nessuno in particolare – l’atmosfera in movimento rotatorio oltre le stelle, l’aria nella stanza, e gli atomi del mio stesso corpo. Mi calma, chiedere aiuto. Poi apro la porta e li faccio entrare. Aproposito. È il campanello. Aiutami Rose. Ecco come parlo a mio marito: «Su, vestiti! Siamo in ritardo per l’appuntamento con la consulente matrimoniale. La camicia blu è stirata. Non lì, nell’armadio! Uffa. E devi comprarti le scarpe nuove, guarda qui le suole! Lunedì si va da Clarcks, c’è una svendita.»
Come se avesse sei anni. Non riesco a ricordare quando è cominciata quest’arrogante impazienza, questo autoritarismo, ma l’impulso è potente e ora non riesco a smettere, anche se credo che mi suiciderei se dovessi rivolgermi così a me stessa. «Pensavo mi avessi detto che non c’era disponibilità» fa Harry scontroso, come un bambino di sei anni che vuole rendersi indipendente dalla madre.

«Gesù, non ascolti mai? Te l’ho detto. C’è stata una disdetta. Abbiamo appuntamento con Ania alle sei.»
«Ania?»
«Sì, Ania.»
«Mi piace come suona. Straniero, ma ha qualcosa di rassicurante
e positivo. Di classe. Polacco?»
«Come faccio a saperlo? Sta’zitto e vèstiti.»

Non sono orribile?
Mi detesto.
«Un appuntamento con Ania. Sì! Che mi metto?
La camicia blu con quei nuovi jeans neri? Non sono troppo banali, no?»
«Nulla che non sia già la tua biancheria. Gesù, devi essere l’ultimo uomo di tutto il Regno Unito che indossa ancora quelle mutande. È sorprendente come fai ancora a comprarle.»
«Quindi non le trovi sexy? Certo, questo paio è sformato e ingrigito, ma posso metterne un paio nuovo.»
«Giusto, come se facesse differenza. Come se ci fosse qualcosa che possa fare differenza.»
«Se tu avessi indossato un perizoma carino di tanto in tanto, questo avrebbe potuto fare differenza» dice mio marito.
Pausa, mentre corrucciata strattono la spazzola sui capelli.
Stasera sono più brutta e vecchia del solito. Ecco l’effetto che mi fa mio marito. Mi imbruttisce. Una porta si chiude giù all’ingresso, e all’improvviso mi ricordo di essere anche una madre terribile, oltre che una terribile moglie. Entra in silenzio.
«Sam! Sam, tesoro, c’è qualcosa per cena nel forno, l’ho lasciato alla temperatura minima. Ricordati di spegnerlo dopo, va bene?»
«Dove andate?»
«Usciamo giusto per un drink veloce con gli amici. Non staremo fuori a lungo, promesso. Ti dispiace? Farai il bravo, vero? Lascio il telefono acceso.»
«Sì, certo che farò il bravo. State pure fuori tutta la notte se volete.»
«Sam, non fare così. Torna qui e dammi un bacio. Sam!»
Ma è andato nella sua stanza, e lì in piedi c’è mio marito, in mutande, con la sua pancia prominente dai peli bianchi, che dice: «E mi piace proprio questo nome. Ania.»
Così saliamo in macchina e partiamo. Vedo coppie ovunque, e nessuna di loro ha l’aria di essere diretta a una seduta di terapia matrimoniale. Sembrano tutti normali. Si tengono per mano, ridono. Scommetto che hanno delle canzoni che sono le loro canzoni. Noi non abbiamo mai avuto una canzone. Non so perché, ma abbiamo tralasciato questo passaggio. Mi chiedo se i matrimoni rispettino tutti lo stesso copione, e se non sia troppo tardi ora per procurarsi una canzone. Con ogni probabilità lo è. È una serata meravigliosa, ma l’incanto in me è inaridito. Anche questo mi irrita, questa incapacità di godermi la bellezza della sera.
«Ferma la macchina, l’ho visto. Ma aspetta, sarà questo? Sulla porta dice quarantasette, dev’essere questo. Ma sembra una casa.»
«Certo. Di sicuro cercano di non attirare l’attenzione» dice il mio sensibile Harry, che ha passato la vita a tentare di rifuggire le attenzioni. Mi sento strana a uscire dall’auto con Harry; che mi induce alla pazzia, all’infedeltà e alla bruttezza, ma che è il mio familiare
Harry. Attiro la sua attenzione e una risatina comincia a salirmi dalla pancia – c’è intimità nel nostro inferno privato. Comprende molte emozioni sgradevoli, ma non disagio. Tuttavia
è presente un impeto di ostilità: la rabbia consueta, una megera di cui sbarazzarsi, anche quando non effettivamente presente. È come se la sua ombra aleggiasse anche quando priva di consistenza.
«Suona il campanello. Su!» sbraito, visto che ha raggiunto la porta per primo.
Nessun rumore, ma c’è una luce all’ultimo piano.
«Stai arrossendo» mi fa notare.
«Sono imbarazzata. È la reazione appropriata alla situazione.
Saresti imbarazzato anche tu se fossi normale.»
«Sì, come se un uomo normale avrebbe sposato te.»
«Vaffanculo» rispondo automaticamente. «E ascolta, non parleremo ad Ania della nostra vita sessuale, d’accordo? Niente a proposito del sesso. So com’è… questa razza di terapeuti. Si
nutre dei dettagli della vita intima degli sconosciuti. Niente sesso» sibilo.
«Okay, nessun problema. Niente sesso.»
«Mai.»
«Niente sesso, mai? Quello che speri.»
E poi la porta si apre. Il mio cuore sta scalpitando, neanche si trattasse di un appuntamento vero e proprio. Rido in modo inopportuno, come se mi stessi innamorando.
«Buonasera» dice una giovane donna senza rughe. Ultimamente sono affascinata dalla pelle liscia. I suoi occhi brillano, come se ci conoscesse e fosse lieta di vederci.
«Voi dovete essere Rose e Harry. Sono Ania, prego.»
Anche Harry sembra innamorato, è diventato tutto rosso ed è ammutolito.
Poi, nel suo modo inappropriato rivela: «Ha un nome insolito, Ania.»
Lei si gira e risponde: «Sì, mio padre è polacco.»
Harry la fissa – è molto carina. In un modo languido.
«Ania è un nome polacco. Be’, in realtà è una variante di Anka, un altro nome polacco» dice molto lentamente, come se avesse già intuito quanto sia tardo Harry. «Che è il mio vero nome.»
«Polacca!» fa lui, come se essere polacchi corrispondesse a venire da Marte.
«Sì, ma ho sempre vissuto a Evanton. E anche mio marito è di Evanton» dice quasi per difendersi.
«Anche noi viviamo a Evanton! Ci siamo trasferiti da Leith.»
«Perciò siamo vicini» ribatte lei freddamente.
«E in che zona vivete?»
Per un attimo Ania s’irrigidisce; probabilmente esiste una prassi secondo la quale si usano nomi falsi e non si danno i propri contatti, nel caso in cui qualche coniuge separato e squilibrato tenti di vendicarsi.
«Harry, non essere così ficcanaso. Scusa, Ania.»
Lei esita, poi scuote la testa una volta, in modo misurato e preciso. Una donna riservata e disciplinata. Mi detesterà.
«Non lontano da voi.»
«Formidabile! E non ci siamo mai visti! Davvero incredibile.»
«Che coincidenza sorprendente!» dico.
Non riusciamo a smettere; siamo in competizione per chi di noi due è più espansivo. Sento che il disgusto verso me stessa sta per assalirmi, come nelle feste in cui all’improvviso avverto la mia risata fragorosa e mi accorgo che sto versando il mio quarto bicchiere di vino sul pavimento, mentre ballo musica che detesto, tipo gli Abba.
«Probabilmente ci siamo incontrati molte volte» dice Ania in modo gentile, per niente simile alla mia replica stizzita. «Per forza, Evanton è talmente piccola. Ci saremo visti senza farci
caso.»
Lo dice con una certa convinzione pacata e una specie di inquietante indifferenza professionale; noi rimaniamo in silenzio, e seguiamo questa bella visione per due rampe di scale. Superiamo porte di studi chiusi e acquerelli astratti fino a una mansarda dipinta di albicocca. Tre magnifiche soffici poltrone una di fronte all’altra. Nessun mobile per più di una persona. Scelgo per prima dove sedermi, come si trattasse di una gara. Erano anni che non mi sentivo così nervosa e che non mi divertivo tanto con mio marito. Da quella volta in cui pensavo che la sua segretaria avesse una cotta per lui.
«Ora mettetevi comodi» dice Ania. La sua voce è calda, profonda e tranquilla. Nessun accento, ma c’è qualcosa di non proprio scozzese. O forse il suo nome mi ha condizionato.
«Santo cielo, è delizioso. Comoda questa poltrona! E il colore delle pareti è magnifico!» Continuo a essere troppo entusiasta. Non riesco a evitarlo. Voglio piacere ad Ania. Voglio che
stia dalla mia parte.
«Grazie. Mi piace che le persone qui si sentano a casa. Dunque, abbiamo un’ora, ci mettiamo al lavoro?»
«Certo» replica mio marito con un tono insolitamente energico.
«Bene. Sono dell’opinione che sia necessario andare dritti al cuore della faccenda, perciò se vi va di dirmi quale pensate sia il problema, possiamo iniziare a definirlo. Quale vi sembra la
questione principale? Inizi lei, Harry. Cosa la rende maggiormente
infelice del suo matrimonio?»
«La nostra vita sessuale» risponde Harry.

Essendo la felicità pittoresca una cosa effimera, gli abitanti di
Evanton non vi ambiscono. In ogni caso, sono troppo occupati per
notarne l’assenza. Dategli un’occhiata – eccoli, vivere le loro vite tra
tutti gli altri abitanti del mondo. E a Inverness, che si trova a due
estuari di distanza da Evanton, c’è Ania, la consulente matrimoniale,
seduta nel suo ufficio color albicocca all’ultimo piano dell’edificio.
Sembra proprio un sacerdote che attende nel confessionale buio.

Anteprima: leggi il primo capitolo di "Presagi di tempesta", tra qualche giorno in libreria per Fanucci

ROMA – Giornata piena di novità è quella del mercoledì di Leggendo Crescendo. Infatti, la rubrica di ChronicaLibri dedicata alle letture dei più piccoli ospita anche nel pomeriggio il primo capitolo di un romanzo in libreria tra qualche giorno per Fanucci Editore. Ora è la volta di “Presagi di tempesta” il dodicesimo capitolo della famosissima saga La ruota del tempo, creata da Robert Jordan e Brandon Sanderson.

Prologo
Il significato della tempesta
Renald Fanwar sedeva sotto il portico, riscaldando la robusta
sedia di quercia nera intagliata per lui da suo nipote due anni prima. Fissava il nord.
E le nubi nere e argento. Non le aveva mai viste così prima d’ora. Ricoprivano l’intero
orizzonte verso nord, alte nel cielo. Non erano grigie. Erano
nere
scantinato a mezzanotte. Con lampi di luce argentea che li attraversavano
e fulmini a cui non seguiva alcun suono.


L’aria era densa. Densa per gli odori di polvere e terra. Di foglie
secche e pioggia che si rifiutava di cadere. Era giunta la
primavera. Eppure i raccolti non crescevano. Nemmeno un
germoglio aveva osato far capolino dal terreno.
Si alzò con lentezza dalla sedia, col legno che scricchiolava
e il mobile che dondolava sommessamente dietro di lui, e si
diresse al limite del portico. Masticò il cannello della sua pipa,
anche se ormai era spenta. Non riusciva a decidersi a riaccenderla.
Quelle nuvole lo paralizzavano. Erano così nere. Come
il fumo di un fuoco di stoppie, solo che nessun fuoco del genere
emanava un fumo che si levava così in alto nell’aria. E cosa
dire delle nuvole argento? Sporgevano tra quelle nere, come
punti in cui nel metallo incrostato di fuliggine spiccano parti
di acciaio lucidato.
Si sfregò il mento, abbassando lo sguardo verso il suo prato.
Un piccolo recinto imbiancato racchiudeva un appezzamento
di erba e arbusti. Gli arbusti erano morti ora, fino all’ultimo.
Non avevano retto all’inverno. Presto avrebbe dovuto
estirparli. E l’erba… be’, erano ancora solo stoppie invernali.
Non era spuntato nemmeno un filo verde.
Un rombo di tuono lo scosse. Puro, netto, come un fragoroso
cozzare di metallo contro metallo. Sbatacchiò le finestre
della casa, scosse le assi del portico e parve riverberarsi nelle
sue stesse ossa.
Fece un balzo all’indietro. Quella saetta aveva colpito lì vicino…
forse nella sua stessa proprietà. Fremeva dalla voglia di
andare a ispezionare il danno. I fulmini potevano provocare
incendi in grado di mandare in rovina un uomo, bruciando
tutte le sue terre. Quassù fra le Marche di Confine c’erano così
tante cose facilmente infiammabili: erba secca, ciottoli secchi,
sementi secche.
Ma le nubi erano ancora distanti. Quella saetta non potevaessere caduta sulla sua proprietà. I nuvoloni neri e argento si
amalgamavano e ribollivano, alimentandosi e consumandosi
a vicenda.
Chiuse gli occhi, calmandosi e inspirando a fondo. Si era
forse immaginato quel tuono? Stava iniziando a vaneggiare,
come lo scherniva sempre Gaffin? Aprì gli occhi.
E le nubi erano proprio lì, sopra la sua casa.
Era come se fossero venute avanti all’improvviso, con l’intenzione
di colpire mentre lui distoglieva lo sguardo. Ora dominavano
il cielo, estendendosi per parecchia distanza in ogni direzione,
massicce e opprimenti. Poteva quasi sentire il loro peso
schiacciare l’aria attorno a sé. Trasse un respiro carico di improvvisa
umidità e sentì del sudore solleticargli la fronte.
Quelle nubi turbinarono, cumuli scuri color nero e argento
scossi da lampi bianchi. Tutt’a un tratto ribollirono verso il
basso, come l’imbuto di un tornado che veniva a prenderlo.
Cacciò un urlo, sollevando una mano come farebbe un uomo
davanti a una luce accecante. Quell’oscurità. Quella sconfinata,
soffocante oscurità. Lo avrebbe preso. Lo sapeva.
E poi le nubi scomparvero.
La sua pipa colpì le assi del portico con un lieve schiocco,
gettando uno spruzzo di tabacco bruciato sui gradini. Non si
era reso conto di averla lasciata andare. Renald esitò, guardando
il cielo azzurro ora vuoto, rendendosi conto che stava
rabbrividendo per nulla.
Le nubi erano di nuovo all’orizzonte, lontane circa quaranta
leghe. Rintronavano in modo sommesso.
Raccolse la pipa con una mano tremante, chiazzata dall’età
e scurita da anni passati al sole. È solo uno scherzo della tua
mente, Renald, si disse. Stai uscendo di testa, certo come due
più due fa quattro.
Era sulle spine per via del raccolto. Quello lo metteva sulle
spine. Anche se con i ragazzi usava parole ottimistiche, non era
naturale e basta. Ormai sarebbe dovuto germogliare qualcosa.
Aveva coltivato quella terra per quarant’anni! L’orzo non ci
metteva molto a germogliare. Che fosse folgorato, no che non
ci metteva molto. Cosa stava succedendo al mondo di questi
tempi? Non ci si poteva fidare che le piante germogliassero, e
le nuvole stessero dove avrebbero dovuto.
Si costrinse a rimettersi a sedere sulla sua sedia, le gambe
che gli tremavano. Eh già, sto diventando vecchio…, pensò.
Aveva lavorato come agricoltore per tutta la sua vita. Non
era facile nelle Marche di Confine, ma se lavoravi sodo, potevi
ottenere una vita prospera coltivando raccolti resistenti. ‘Un
uomo ha tanta fortuna quanti semi ha nel campo’aveva sempre
detto suo padre.
Be’, Renald era uno degli agricoltori più prosperi della zona.
Tanto da comprare le due fattorie accanto alla sua e da poter
portare al mercato trenta carri ogni autunno. Ora aveva sei
bravi uomini a lavorare per lui, che aravano i campi e tenevano
in buono stato gli steccati. Non che ogni giorno non dovesse
calarsi nel letame e mostrare loro cosa voleva dire coltivare
per bene. Non potevi lasciare che un po’ di successo ti rovinasse.
Sì, aveva lavorato la terra, vissuto la terra, come suo padre
era sempre solito dire. Comprendeva il tempo atmosferico
meglio di chiunque altro. Quelle nubi non erano naturali. Rintronavano
piano, come ringhi animali in una notte buia. In attesa.
In agguato nei boschi circostanti.
Sobbalzò a un nuovo boato di tuono che parve troppo vicino.
Quelle nubi erano lontane quaranta leghe? Era questo che aveva
pensato? Ora che le esaminava, gli pareva che fossero a dieci.
«Non metterti in testa strane cose» borbottò fra sé. La sua
voce gli dava una sensazione buona. Reale. Era bello sentire
qualcosa di diverso da quel rombo e dall’occasionale cigolio
delle imposte al vento. Non doveva essere in grado di sentire
Auaine all’interno, intenta a preparare la cena?
«Sei stanco. Tutto qua. Stanco.» Frugò nella tasca del suo
farsetto e tirò fuori il portatabacco.
Un debole rimbombo provenne da destra. Sulle prime, immaginò
che fosse il tuono. Però questo rimbombo era troppo
stridulo, troppo regolare. Non era un tuono. Erano ruote in
movimento.
E infatti un grosso carro tirato da un bue sormontò la collina
di Mallard, appena a est. Era stato Renald stesso a darle quel
nome. Ogni collina che si rispetti ha bisogno di un nome. La
strada era chiamata strada di Mallard. Perciò perché non dare
lo stesso nome anche alla collina?
Si sporse in avanti sulla sedia, ignorando di proposito quelle
nuvole mentre strizzava gli occhi verso il carro, cercando di
distinguere il volto del carrettiere. Thulin? Il fabbro? Cosa stava
facendo, come poteva guidare un carro tanto carico da toccare
il cielo? Sarebbe dovuto essere al lavoro sul nuovo aratro
di Renald!
Anche se era snello per il mestiere che faceva, Thulin era comunque
muscoloso il doppio di qualunque bracciante. Aveva
i capelli scuri e la pelle abbronzata di uno Shienarese, e teneva
il volto rasato secondo la loro moda, ma non portava il
codino. La famiglia di Thulin poteva far risalire le proprie origini
fino ai guerrieri delle Marche di Confine, ma lui stesso era
solo un semplice campagnolo come il resto di loro. Gestiva la
fucina a Oak Water, cinque miglia a est. Renald aveva giocato
parecchie partite di sassolini con il fabbro durante le sere invernali.
Thulin stava invecchiando: non aveva visto tanti anni
quanto Renald, ma gli ultimi inverni lo avevano indotto ad accennare
al ritiro. Quello del fabbro non era un mestiere per
vecchi. Ovviamente non lo era nemmeno quello del coltivatore.
Chissà se esistevano dei mestieri per vecchi.
Il carro di Thulin si avvicinò per la strada in terra battuta,
giungendo presso il prato recintato di bianco di Renald. Questo
sì che è strano, pensò l’agricoltore. Dietro il carro procedeva
una fila ordinata di animali: cinque capre e due vacche da
latte. Stie di polli dalle penne nere erano legate all’esterno del
carro, mentre il pianale stesso era stracolmo di mobili, sacchi e
barili. La giovane figlia di Thulin, Mirala, sedeva a cassetta con
lui, accanto a sua moglie, una donna dai capelli dorati originaria
del Sud. Era sposata con Thulin da venticinque anni, ma Renald
pensava ancora a Gallanha come ‘quella ragazza del Sud’.
Su quel carro c’era l’intera famiglia, con i loro migliori animali
al seguito. Era ovvio che si stavano trasferendo. Ma dove?
In visita a dei parenti, forse? Lui e Thulin non giocavano
una partita a sassolini da… oh, ormai erano tre settimane. Non
era certo tempo di visite, con l’avvento della primavera e la
fretta della semina. Qualcuno avrebbe dovuto riparare gli aratri
e affilare le falci. Chi l’avrebbe fatto se la forgia di Thulin si
fosse raffreddata?
Renald infilò un pizzico di tabacco nella sua pipa mentre
Thulin arrestava il carro accanto alla sua proprietà. Il fabbro
snello e brizzolato porse le redini a sua figlia, poi scese dal carro,
con i piedi che sollevarono sbuffi di polvere nell’aria quando
colpirono il terreno. Dietro di lui la tempesta distante ribolliva
ancora.
Thulin aprì il cancello del recinto, poi si diresse verso il portico.
Pareva distratto. Renald aprì la bocca per salutarlo, ma fu
Thulin a parlare per primo.
«Ho seppellito la mia incudine migliore nel vecchio campo
di fragole di Gallanha, Renald» disse il fabbro. «Ti ricordi dov’è,
vero? Ci ho messo anche i miei attrezzi migliori. Sono ben
ingrassati e si trovano all’interno del mio forziere più resistente,
foderati per tenerli all’asciutto. Questo dovrebbe impedire
che si arrugginiscano. Per un po’, almeno.»
Renald chiuse la bocca, tenendo la sua pipa mezza piena.
Se Thulin stava seppellendo la sua incudine… be’, significava
che non aveva intenzione di tornare indietro per un bel po’.
«Thulin, cosa…»
«Se non torno,» disse Thulin, lanciando un’occhiata verso
nord «dissotterreresti le mie cose e faresti in modo di occupar-
tene? Vendile a qualcuno che ci tenga, Renald. Non vorrei che
fosse uno qualunque a battere su quell’incudine. Mi ci sono
voluti vent’anni per racimolare quegli attrezzi, sai?»
«Ma Thulin!» farfugliò Renald. «Dove stai andando?»
Thulin si voltò di nuovo verso di lui, appoggiando un braccio
sulla ringhiera del portico, con un’aria solenne negli occhi
castani. «C’è una tempesta in arrivo» disse. «Perciò ho pensato
che era meglio dirigermi a nord.»
«Una tempesta?» chiese Renald. «Quella all’orizzonte, intendi?
Thulin, pare brutta – ah, sì, che le mie ossa siano folgorate
– ma non ha senso scappare. Abbiamo avuto brutte tempeste
in precedenza.»
«Non come questa, vecchio amico» disse Thulin. «Questo
non è il genere di tempesta che si possa ignorare.»
«Thulin?» chiese Renald. «Di cosa stai parlando?»
Prima che lui potesse rispondere, Gallanha lo chiamò dal
carro. «Gli hai detto delle pentole?»
«Ah,» disse Thulin «Gallanha ha lucidato quelle pentole col
fondo di rame che a tua moglie sono sempre piaciute. Sono sul
tavolo in cucina che aspettano solo Auaine, se vuole andarle a
prendere.» Detto questo, Thulin fece un cenno col capo a Renald
e s’incamminò verso il carro.
Renald sedette stupefatto. Thulin era sempre stato un tipo
schietto: preferiva dire quello che gli passava per la testa, poi
andare avanti. Era parte di quello che a Renald piaceva di lui.
Ma il fabbro poteva anche passare attraverso una conversazione
come un macigno che rotolava in mezzo a un gregge di
pecore, lasciando chiunque sbalordito.
Renald balzò in piedi, lasciando la sua pipa sulla sedia e seguendo
Thulin attraverso il prato e poi fino al carro. Maledizione,
pensò Renald, guardando verso i lati e notando di
nuovo l’erba marrone e gli arbusti secchi. Aveva lavorato sodo
su quel prato.
Il fabbro stava controllando le stie dei polli legate ai fianchi
del suo mezzo. Renald lo raggiunse e allungò una mano verso
di lui, ma Gallanha lo distrasse.
«Ecco, Renald» disse dalla cassetta. «Prendi queste.» Gli
porse un cestino pieno di uova. Una ciocca di capelli dorati le
era sfuggita dalla crocchia. Renald allungò la mano per pren-
dere il cesto. «Dalle ad Auaine. So che siete a corto di galline
per via di quelle volpi dello scorso autunno.»
Renald prese il cestino di uova. Alcune erano bianche, altre
brune. «Sì, ma dove state andando, Gallanha?»
«A nord, amico mio» rispose Thulin. Superò Renald e gli
mise una mano sulla spalla. «Suppongo che verrà radunato
un esercito. Avranno bisogno di fabbri.»
«Per favore» disse Renald, facendo un gesto col canestro di
uova. «Almeno fermatevi qualche minuto. Auaine ha appena
infornato del pane, una di quelle grosse pagnotte al miele che
ti piacciono. Possiamo discuterne durante una partita a sassolini.»
Thulin esitò.
«Faremo meglio a muoverci» disse Gallanha in tono sommesso.
«Quella tempesta sta arrivando.»
Thulin annuì, poi salì sul carro. «Magari potresti venire a
nord anche tu, Renald. Se lo fai, portati tutto quello che puoi.»
Fece una pausa. «Te la cavi abbastanza con gli attrezzi da poter
fare qualche lavoretto, perciò prendi le tue due falci migliori
e convertile in alabarde. Le tue due falci migliori; non economizzare
con qualcosa che vada quasi bene o abbastanza
bene. Prendi le migliori, perché sono le armi che userete.»
Renald si accigliò. «Come sai che ci sarà un esercito? Thulin,
maledizione, non sono certo un soldato!»
Thulin proseguì come se non avesse udito quei commenti.
«Con un’alabarda puoi tirar giù qualcuno da cavallo e infilzarlo.
E, ora che ci penso, potresti prendere le falci meno buone e
farci un paio di spade.»
«E cosa ne so io sul fare una spada? O su come usarla, se è
per quello…»
«Puoi imparare» disse Thulin, voltandosi verso nord. «Saranno
tutti necessari, Renald. Tutti quanti. Stanno venendo
per noi.» Tornò a guardare Renald. «Una spada non è così difficile
da fare. Prendi la lama di una falce e la raddrizzi, poi ti
trovi un pezzo di legno che faccia da guardia, per impedire
che la lama del nemico scivoli giù e ti tagli la mano. Perlopiù
userai cose che hai già.»
Renald sbatté le palpebre. Smise di porre domande, ma
non poteva fare a meno di pensarle. Si ammucchiavano nella
sua testa come bestiame che cercava di passare a forza attraverso
un unico cancello.
«Porta tutto il tuo bestiame, Renald» disse Thulin. «Lo
mangerai – o lo mangeranno i tuoi uomini – e ti servirà il latte.
E comunque sia, ci saranno uomini con cui potrai commerciare
con manzo o montone. Il cibo scarseggerà, considerando
tutto quello che si sta guastando e le riserve invernali quasi
esaurite. Porta tutto quello che hai. Fagioli secchi, frutta secca,
tutto quanto.»
Renald si sporse all’indietro contro il cancello della sua proprietà.
Si sentiva debole e fiacco. Infine si costrinse a porre una
sola domanda. «Perché?»
Thulin esitò, poi si allontanò dal carro, appoggiando di
nuovo una mano sulla spalla di Renald. «Mi spiace essere così
brusco. Io… be’, tu sai come me la cavo con le parole, Renald.
Non so cosa sia quella tempesta. Ma so cosa significa. Non ho
mai tenuto in mano una spada, ma mio padre ha combattuto
nella guerra Aiel. Sono un uomo delle Marche di Confine. E
quella tempesta significa che la fine si avvicina, Renald. Dovremo
essere lì quando arriverà.» Si fermò, poi si voltò e guardò
a nord, osservando quelle nubi che si ammassavano come
un contadino poteva guardare un serpente velenoso trovato
nel mezzo di un campo. «Che la Luce ci preservi, amico mio.
Dovremo essere lì.»
E, detto questo, tolse la mano e montò di nuovo a cassetta.
Renald li osservò allontanarsi, pungolando il bue affinché si
muovesse, diretti a nord. Renald li guardò a lungo, provando
un senso di intontimento.
Il tuono schioccò in lontananza, come il rumore di una frustata,
riverberando contro le colline.
La porta della fattoria si aprì e si richiuse. Auaine uscì e venne
verso di lui, con i capelli grigi raccolti in una crocchia. Erano
così da parecchi anni, ormai; era ingrigita presto, e Renald
era sempre stato affezionato a quel colore. Argento, più che
grigio. Come le nubi.
«Quello era Thulin?» chiese Auaine, osservando il carro sollevare
polvere in lontananza. Un’unica penna di pollo nera veniva
sospinta dal vento lungo la strada.
«Sì.»
«E non si è fermato, nemmeno per una chiacchierata?»
Renald scosse il capo.
«Oh, ma Gallanha ha mandato le uova!» Auaine prese il cestino
e iniziò a trasferirle nel suo grembiule per portarle dentro.
«È così cara. Lascia il cestino lì per terra: sono certa che
manderà qualcuno a prenderlo.»
Renald si limitò a fissare verso nord.
«Renald?» chiese Auaine. «Cosa ti è preso, vecchio ceppo?»
«Ha lucidato le sue pentole per te» disse lui. «Quelle col fondo
in rame. Sono sul tavolo della sua cucina. Sono tue, se le
vuoi.»
Auaine rimase in silenzio. Poi lui udì un netto rumore di
qualcosa che si rompeva e si guardò indietro. Lei aveva lasciato
afflosciare il grembiule e delle uova stavano scivolando giù,
cadendo a terra con un tonfo e rompendosi.
Con voce molto calma, Auaine chiese: «Ha detto nient’altro?»
Lui si grattò la testa, su cui in realtà non restavano molti capelli.
«Ha detto che la tempesta stava arrivando e che dovevano
dirigersi a nord. Thulin ha detto che dovremmo andare anche
noi.»
Rimasero immobili per un altro momento. Auaine tirò su il
bordo del suo grembiule, conservando la maggior parte delle
uova. Non degnò di un’occhiata quelle che erano cadute. Il
suo sguardo era fisso verso nord.
Renald si voltò. La tempesta aveva fatto un nuovo balzo in
avanti. E pareva essere diventata in qualche modo più scura.
«Penso che dovremmo dar loro ascolto, Renald» disse
Auaine. «Io… io andrò a preparare quello che ci occorrerà portare
con noi dalla casa. Tu puoi andare a radunare gli uomini.
Hanno detto per quanto staremo via?»
«No» rispose lui. «Non hanno nemmeno detto davvero
perché. Solo che dobbiamo andare a nord per la tempesta. E…
che questa è la fine.»
Auaine trasse un brusco respiro. «Bene, tu pensa a far preparare
gli uomini. Io mi prenderò cura della casa.»
Si precipitò dentro, e Renald si costrinse a distogliere lo
sguardo dalla tempesta. Girò attorno alla casa ed entrò nell’aia,
chiamando a raccolta i braccianti. Era gente robusta, bravi
uomini, tutti quanti. I suoi figli avevano cercato fortuna al-
trove, ma i suoi sei lavoratori per lui erano quasi come figli.
Merk, Favidan, Rinnin, Veshir e A’damad si radunarono attorno
a lui. Sentendosi ancora intontito, Renald mandò due di loro
a riunire gli animali, altri due a imballare grano e provviste
che avevano lasciato per l’inverno e l’ultimo uomo ad andare
a prendere Geleni, che era andato al villaggio per dei semi
nuovi, nel caso in cui la semina fosse andata male rispetto alle
loro scorte.
I cinque uomini si sparpagliarono. Renald rimase lì nell’aia
per un momento, poi andò nel granaio per prendere la sua
forgia leggera e portarla alla luce. Non era solo un’incudine,
ma una forgia completa e compatta, fatta per essere trasportata.
L’aveva montata su ruote: non si poteva lavorare a una
forgia dentro un granaio. Tutta quella polvere poteva prendere
fuoco. Sollevò i manici, portandola fuori nell’angolo apposito
a lato dell’aia, costruito con solidi mattoni, dove poteva effettuare
piccole riparazioni quando necessario.
Un’ora più tardi aveva attizzato il fuoco. Non era esperto
come Thulin, ma aveva appreso da suo padre che essere capace
di lavorare un poco i metalli faceva una grossa differenza.
Avolte non si potevano sprecare ore per andare e tornare
dalla città solo per aggiustare un cardine rotto.
Le nubi erano ancora lì. Cercò di non guardarle mentre lasciava
la forgia e si dirigeva nel granaio. Quelle nubi erano come
occhi, che sbirciavano da sopra la sua spalla.
Dentro il granaio la luce filtrava attraverso crepe sulla parete,
cadendo su polvere e fieno. Aveva costruito lui stesso quella
struttura, circa venticinque anni prima. Continuava ad avere
intenzione di rimpiazzare alcune di quelle travi del tetto
incurvate, ma ora non ci sarebbe stato tempo.
Giunto alla parete degli attrezzi, allungò una mano verso la
sua terza miglior falce, poi si fermò. Trasse un profondo respiro
e prese invece dal muro la migliore. Tornò fuori alla forgia
e le tolse l’impugnatura.
Mentre gettava da parte il legno, Veshir – il più anziano dei
suoi braccianti – si avvicinò tirando un paio di capre. Quando
Veshir vide la lama della falce sulla forgia, la sua espressione
si rabbuiò. Legò le capre a un palo, poi si diresse verso Renald,
ma non disse nulla.
Come fare un’alabarda? Thulin aveva detto che erano buone
per strattonare un uomo giù da cavallo. Bene, avrebbe dovuto
rimpiazzare il lungo manico ricurvo con un’impugnatura
dritta e più lunga di legno di frassino. L’estremità flangiata
del manico si sarebbe estesa oltre la parte terminale della lama,
foggiata in una punta grezza e rivestita di un pezzo di stagno
per una maggiore forza. E poi avrebbe dovuto riscaldare
la lama e percuotere la punta fino a mezza strada, formando
un gancio che avrebbe potuto strattonare un uomo giù da cavallo
e forse ferirlo allo stesso tempo. Fece scivolare la lama in
mezzo alle braci ardenti per arroventarla, poi iniziò ad allacciarsi
il grembiule.
Veshir rimase lì per un minuto circa, a osservare. Infine si
fece avanti, prendendo Renald per il braccio. «Renald, cosa
stiamo facendo?»
Renald si liberò dalla sua stretta. «Andiamo a nord. La tempesta
sta arrivando e noi andiamo a nord.»
«Andiamo a nord solo per una tempesta? Ma è follia!»
Era quasi la stessa cosa che Renald aveva detto a Thulin. Un
tuono risuonò in lontananza.
Thulin aveva ragione. I raccolti… i cieli… il cibo che si guastava
senza preavviso. Renald lo sapeva perfino prima di aver
parlato con Thulin. Dentro di sé lo sapeva. Questa tempesta
non sarebbe passata sopra le loro teste per poi svanire. Doveva
essere affrontata.
«Veshir,» disse Renald, tornando al suo lavoro «sei un bracciante
in questa fattoria da… quanto, quindici anni, ormai? Sei
il primo uomo che ho assunto. Ho sempre trattato bene te e gli
altri, non è così?»
«Mi hai trattato bene» disse Veshir. «Ma, che io sia folgorato,
Renald, non hai mai deciso di abbandonare la fattoria prima
d’ora! Questi raccolti si ridurranno in polvere se li lasciamo.
Questa non è un’umida fattoria del Sud. Come possiamo andarcene
così?»
«Possiamo,» rispose Renald «perché se non ce ne andiamo,
non avrà importanza se avremo seminato o meno.»
Veshir si accigliò.
«Figliolo,» disse Renald «tu farai come dico io, e questo è
quanto. Va’a terminare di radunare il bestiame.»
Veshir si allontanò a grandi passi, ma fece come gli veniva
detto. Era un brav’uomo, anche se era una testa calda.
Renald tirò fuori la lama dalle braci. Il metallo era ora incandescente.
La appoggiò contro la piccola incudine e iniziò
a percuotere la sezione bitorzoluta dove l’angolo inferiore della
lama incontrava la barba, appiattendola. Il rumore del martello
sul metallo pareva più forte del normale. Riverberava come
il fragore del tuono, e i suoni si fusero. Come se ogni colpo
del suo martello fosse esso stesso parte della tempesta.
Mentre lavorava, quei rintocchi sembrarono formare delle
parole. Come se qualcuno stesse borbottando in fondo alla
sua testa. La stessa frase, più e più volte.
La tempesta sta arrivando. La tempesta sta arrivando…Continuò a martellare, mantenendo il filo sulla falce, ma
raddrizzando la lama e formando un uncino alla fine. Ancora
non sapeva perché. Ma non aveva importanza.
La tempesta stava arrivando e lui doveva essere pronto.
Mentre osservava i soldati con le gambe incurvate che legavano
su una sella il corpo di Tanera avvolto in una coperta, Falendre
si oppose all’istinto di ricominciare a piangere e al desiderio
di vomitare. Era la più anziana e doveva mantenere un
minimo di compostezza se si aspettava che lo facessero anche
le altre quattro sul’dam sopravvissute. Cercò di dirsi che aveva
visto di peggio, battaglie in cui era morta più di una sola
sul’dam, più di una sola damane. Le riportò alla memoria il
modo esatto in cui Tanera e la sua Miri avevano incontrato il
loro destino, però, e la sua mente si ritrasse da quel pensiero.
Rannicchiata al suo fianco, Nenci piagnucolò mentre Falendre
accarezzava la testa della damane e cercava di inviare sensazioni
calmanti attraverso l’a’dam. Quello pareva funzionare
spesso, ma oggi non così bene. Le sue stesse emozioni erano
troppo in subbuglio. Se solo avesse potuto dimenticare che la
damane era stata schermata, e da chi. Da cosa. Nenci piagnucolò
di nuovo.
«Consegnerai il messaggio come ti ho ordinato?» disse un
uomo dietro di lei.
No, non un uomo qualunque. Il suono della sua voce agitò
la pozza di succhi gastrici che Falendre aveva nello stomaco. Si
costrinse a voltarsi per guardarlo, si obbligò a incontrare quegli
occhi freddi e duri. Cambiavano a seconda dell’angolazione
della sua testa, ora azzurri, ora grigi, ma erano sempre come
gemme lucenti. Falendre aveva conosciuto molti uomini
duri, ma ne aveva mai incontrato uno che lo era a tal punto da
perdere una mano e solo pochi istanti dopo comportarsi come
se avesse perso un guanto? Si inchinò in modo formale, dando
uno strattone all’a’dam cosicché Nenci facesse lo stesso. Finora
erano state trattate bene, per essere delle prigioniere in
quelle circostanze: era stata data loro perfino acqua per lavarsi
e, a quanto pareva, non sarebbero rimaste prigioniere a lungo.
Eppure chi era in grado di dire cosa poteva far cambiare
quella situazione, con quest’uomo? La promessa di libertà poteva
far parte di un qualche piano.
«Consegnerò il tuo messaggio con la cura che richiede»
esordì Falendre, poi esitò. Quale onorifico aveva usato lei?
«Mio lord Drago» si affrettò a concludere. Le parole le seccarono
la lingua, ma lui annuì, perciò doveva essere bastato.
Una delle marath’damane apparve attraverso quell’impossibile
buco nell’aria. Portava tanti gioielli quanto un membro
del Sangue e, addirittura, un puntino rosso nel mezzo della
fronte. «Per quanto hai intenzione di rimanere qui, Rand?» domandò,
come se quell’uomo dagli occhi duri fosse un servo,
piuttosto che ciò che era. «Quanto siamo vicini a Ebou Dar?
Questo posto pullula di Seanchan, sai, e probabilmente fanno
volare dei raken tutt’attorno.»
«Ti ha mandato Cadsuane a chiedermelo?» disse lui, e le
guance della donna si imporporarono un poco. «Non resteremo
ancora molto, Nynaeve. Qualche minuto.»
La giovane donna spostò lo sguardo verso le altre sul’dam
e damane, che prendevano tutte ordini da Falendre, fingendo
che non ci fossero marath’damane a sorvegliarle e specialmente
non uomini con giubbe nere. Le altre si erano rimesse in ordine
meglio che potevano. Surya aveva lavato via il sangue dal
proprio volto e da quello della sua Tabi, e Malian le aveva fasciate
con lunghi rotoli di garza tanto che sembrava che indossassero
dei bizzarri cappelli. Ciar era riuscita a ripulire buona
parte del vomito che aveva sporcato la parte anteriore del suo abito.

Fanucci Editore tutti i diritti riservati.
“Presagi di tempesta”, R. Jordan – B. Sanderson, collana Collezione Fantasy, Fanucci Editore, Roma, 2011, 944 pp, 25 euro.

Anteprima: leggi il primo capitolo di "Londra tra le fiamme" , l’ultimo libro di Joe R. Lansdale

ROMA – Grazie alla collaborazione con Fanucci Editore, anche questa settimana nella rubrica Leggendo Crescendo di ChronicaLibri, potrete trovare in anteprima il primo capitolo di un nuovissimo libro per ragazzi. Questa settimana il nostro giornale ospita “Londra tra le fiamme”, l’ultimo e avvincente romanzo di Joe R. Lansdale in uscita tra qualche giorno per Fanucci Editore. Lo scrittore texano regala ai lettori un libro ricco di colpi di scena, un viaggio nel tempo che non fa sconti a nessuno. 

Huck tira le cuoia e Mark Twain taglia la corda
Nella casba di Tangeri, infagottato in un abito bianco pieno
di macchie, Samuel Langhorne Clemens – meglio noto come
Mark Twain, sudato come un gelato, sbronzo come un bonzo
e fetente come un deficiente – se ne stava sdraiato su un
materasso floscio da cui cadevano piume e polvere e, alla
luce di una lampada, rifletteva sulla scomparsa delle proprie
scarpe e sull’enfio cadavere di Huck Finn, la sua scimmietta.
  
Fanucci Editore tutti i diritti riservati.

“Londra tra le fiamme”, Joe R. Lansdale, collana Tif Extra, Fanucci Editore, Roma, 2011, 192 pp, 11.90 euro.

Huck giaceva sull’unico scaffale di quella minuscola topaia,
tumefatto e ricoperto da grosse mosche bluastre. Dal culo gli
ciondolava uno stronzo a forma di fico e altrettanto grosso, e la
lingua che gli spuntava dalla bocca sembrava voler strisciare
verso luoghi più sicuri. Indossava ancora – glieli aveva fatti
infilare lui – il cappellino rosso col laccio sottomento e il panciotto
verde, ma non c’era più traccia dei calzoncini scarlatti da
cui, per questioni di spettacolo, sbucavano le chiappe nude.
Twain non riusciva a capire perché ci fosse rimasto secco.
Restava comunque il fatto che, per qualche arcano motivo,
Huck era morto e senza brache e che, in un’ultima esplosione
gastronomica, era riuscito a incollare quello stronzo a forma
di fico su uno dei due soli libri sullo scaffale – Moby Dick –
mentre la sua lingua protesa raggiungeva quasi l’altro volume,
Ventimila leghe sotto i mari
nome Jules Verne.
Ficcato tra quei due libri di avventure marinare, giaceva
come in un bacino di carenaggio.
Twain si alzò con lentezza per poi chinarsi, con un sospiro,
sull’animale. La stanza puzzava di scimmia e della relativa
merda. Con riluttanza, afferrò Huck per i piedi ma, nel sollevarlo,
si accorse che quel tenace stronzo non intendeva affatto
mollare la presa sul massiccio tomo di Melville, trascinandolo
con sé. Twain dette uno scossone alla scimmia: Mobyfinì per staccarsi assieme allo stronzo. Poi sbirciò con
Dick
cautela dall’unica finestra – la casba sottostante era immersa
nel buio – e fece volare Huck dall’apertura.
Fu un lancio pregevole, che fornì alla scimmia un sostanziale
abbrivo.
Poi Twain udì un tonfo sonoro, e si rese conto che tale era
stato il suo impeto, nello scagliare via l’animale, da averlo spedito
dritto contro un muro, dalla parte opposta dello stretto
vicolo.
Non era certo quello il modo giusto di chiudere una vecchia
amicizia, ma Twain non aveva la minima intenzione di
seppellire quella piccola figlia di puttana; anzi, il vedersela
morire sotto gli occhi l’aveva fatto incazzare non poco. Huck
era sparito per un giorno intero, tornando in evidente stato di
malessere, e aveva vomitato più di una volta per poi piazzarsi
sullo scaffale come a voler schiacciare un sonnellino.
A un certo punto della nottata Twain si era accorto di un
rumore che, per un attimo, aveva creduto provenire dal suo
stesso intestino; ma gli era bastato accendere la lampada per
capire che in realtà si trattava di quello stronzo a forma di fico
schizzato via dal culo di Huck. Poi aveva visto la scimmietta
scalciare a ripetizione, prima di restare immobile.
Troppo sbronzo per muovere anche un solo dito, Twain si
era limitato a spegnere la lampada e riaddormentarsi.
Qualche ora più tardi, distrutto dal mal di testa ma abbastanza
sobrio per chiedersi se avesse sognato oppure no, l’aveva
accesa di nuovo scoprendo che, in effetti, Huck era ormai
defunto come il romanzo vittoriano ma senza neanche la speranza
di poter sopravvivere su uno scaffale. Già le mosche se
la stavano spassando alla grande, impegnate a perlustrare
ogni centimetro dell’animale, e – grazie al feroce caldo africano
– dal cadavere di Huck fumigava un tanfo capace di mandare
al tappeto un avvoltoio.
Poche storie. La scimmia doveva sparire.
Adesso che Huck era ormai uscito in tutti i sensi dalla sua
vita, Twain decise di concedersi un drink, scoprendo però di
non avere niente da bere. La fiasca in pelle di capra che di solito
conteneva del vino era vuota. La gettò a terra, calpestandola
nella vana speranza di farne sgorgare qualche misera goccia.
Niente da fare, purtroppo. Asciutta come un rigagnolo
marocchino in piena estate.
Si tolse la giacca, la scosse e la appese alla spalliera, prima
di sedersi e valutare il da farsi. Aveva ormai venduto tutta la
sua biblioteca, fatta eccezione per Ventimila leghe, che era firmato
dall’autore, e quel Moby Dick con tanto di stronzo. Non
possedeva neanche una copia delle proprie opere.
Che depressione.
Quando gli parve di essersi rimesso abbastanza in forze, si
alzò per prepararsi un caffè nel piccolo bricco di vetro. Un
caffè assai leggero, visto che gli erano rimasti solo i fondi del
giorno prima, così come nel contenitore di stagno trovò un
paio di biscotti stantii che riuscì a mangiare soltanto inzuppandoli
in quella brodaglia.
Nel tempo che impiegò a fare colazione, dalla finestra già filtrava
la luce e, dalla casba sottostante, salivano suoni e rumori.
Soffiò sulla lampada e recuperò il Moby Dick dal pavimento,
pulendolo con uno straccio e gli avanzi del caffè. Sul libro
rimase una leggera macchia: caffè, per l’appunto, non merda,
e poteva anche darsi che in quelle condizioni il volume non
perdesse poi molto valore. Tangeri era piena di avidi lettori di
qualsivoglia cosa scritta in inglese (esclusi, a quanto pareva, i
suoi libri) e non era escluso che da quello, così come dalla copia
autografata di Ventimila leghe, riuscisse a tirar fuori qualche
spicciolo.
Forse potevano bastargli per un pasto vero e proprio, frutta
e olive, e per un bicchiere di vino. Magari anche per l’affitto.
Il tutto era comunque assurdo.
E poi? Non sapeva dove andare a lavorare al suo nuovo
romanzo, che aveva preso la stessa piega della sua vita. Tutti
quelli che conosceva erano morti. Be’, non tutti. Gli era rimasto
qualche amico, per esempio Verne.
Si mise a rovistare per la stanza, trovando le scarpe smarrite,
poi afferrò una grossa sacca di tela bianca e vi ficcò dentro
i pochi oggetti personali e il manoscritto in lavorazione.
Infine prese i due libri. Dopo di che, scese le anguste scale e
piombò quasi di corsa nella casba, imbattendosi all’istante in
un branco di cani che pasteggiavano col cadavere di Huck.
Fu infine il più grosso, un bastardo con un solo occhio e per
di più semichiuso da chissà quale feccia, a strappare la scimmia
dalle grinfie degli altri commensali imboccando di gran
carriera il vicolo, con la coda dell’animale che sbatacchiava sul
lastricato.
Twain mollò un sospiro.
Forse anche lui sarebbe finito così, una volta morto. Gettato
in mezzo alla strada, divorato dai cani.
Sempre meglio che farsi sbranare dai critici letterari. Quei
figli di puttana.
La strada puzzava di pesce marcio e di pesce fresco. Il sangue
che grondava dai tavolacci andava a raccogliersi in minuscole
pozze color ruggine, insinuandosi tra le commessure del
lastricato. L’odore acuto delle olive fin troppo mature impregnava
l’aria e gli aggrediva le narici. Twain si aggirò per le
viuzze contorte, cosa che fino a sei mesi prima gli sarebbe parsa
più complicata del ritrovare la strada nel labirinto di Cnosso,
scovando infine Abdul che disponeva la propria mercanzia
su un consunto ma ancora splendido tappeto marocchino intrecciato
in azzurro, verde e viola. Tra gli oggetti in mostra sul
tappeto spiccava qualche libro. Alcuni di quelli li aveva scritti
proprio Twain, e provenivano dalla sua stessa biblioteca. Tutti
quanti, nessuno escluso, gli ricordavano i soldi che aveva investito
in donne e alcol. Soprattutto alcol.
Abdul occhieggiò Twain, munito di sacca e dei due libri
sottobraccio.
«Amico mio. Altri libri. Vedi bene che non ne ho bisogno.»
«Questi sono gli ultimi, Abdul. Una volta venduti, prendo
il traghetto per la Spagna.»
«E cosa ci fai, laggiù? Meglio che te ne resti qui, tra amici.»
«Vecchio filibustiere. Per tutto quel che ti ho venduto mi
hai dato un tozzo di pane. Questi sono volumi di pregio.»
«Non valgono molto.»
«Ti ho venduto copie firmate dei miei stessi libri.»
«Ahimè, neanche quelle valgono molto. Senza la firma, forse…»
«Davvero spiritoso, Abdul. Se non mi sentissi come con un
elefante seduto in testa, ti darei una bella ripassata vecchio stile,
come facciamo noi in America.»
Abdul scostò la tunica per far intravedere, agganciata alla
cintura, una guaina che conteneva una lama ricurva, sormontata
da un’impugnatura in argento e pietre preziose.
«Be’, lasciamo perdere» disse Twain. «Allora, Abdul, me li
compri questi libri?»
«Giura che sono gli ultimi.»
«Lo giuro.»
Twain si accucciò per disporli sulla coperta che Abdul aveva
steso a terra.
«Cos’è questa macchia sul Moby Dick?»
«La mia scimmia ci ha spiaccicato sopra un fico.»
«Huck? E dov’è?»
«Stamattina è balzato dalla finestra. Aveva deciso di suicidarsi,
è atterrato dritto di testa.»
Abdul lo guardò fisso.
«Anche le scimmie cadono dagli alberi» disse Twain.
«Molto bene. Posso darti…»
«In dollari, Abdul.»
«Molto bene. Posso darti quattro dollari.»
«Cristo santo, guarda che sul Ventimila leghe c’è una dedica
autografa di Jules Verne. Tra tutti e due ne abbiamo a volontà,
di materiale per collezionisti.»
«Okay. Dieci dollari, allora?»
«Perché non quindici?»
«Affare fatto.»

Novità Editoriali

Giulia Siena
ROMA – Letture, letture e ancora letture! Le novità editoriali sono davvero tante e per tutti i gusti. Romanzi, poesia, teatro, tempo libero e letteratura per ragazzi sono i generi che racchiudono le tante proposte di alcune case editrici che ChronicaLibri ha selezionato per voi. 
Le  Edizioni Nottetempo (Roma) portano sugli scaffali delle librerie, l’ultimo romanzo di Mariolina Venezia, “Rivelazione all’Esquilino”. “Non mi ricordo gli occhi” di Giuliano Trentadue e “L’ultima passeggiata” di Gabriella Guidi Gambino sono i nuovissimi romanzi pubblicati da Mursia (Milano). La poesia universale di Sylvia Plath rivive nella raccolta “La luna e il tasso” pubblicata nella collana Acquamarina della Via del Vento Edizioni (Pistoia). 

Dopo il successo teatrale della scorsa stagione, gli Oblivion portano da domani in libreria “I promessi esplosi”, libro con dvd edito da Pendragon (Bologna). Tra qualche settimana si festeggerà la festa più romantica dell’anno… “San Valentino dei fessi”, il titolo provocatorio della raccolta di racconti pubblicato da 80144 Edizioni (Roma).
Se volete fuggire dalla routine della città, tra qualche giorno potrete trovare in un libro quello che fa per voi: “Vado a vivere in campagna. Dieci regole per passare dal sogno alla realtà” di Roberta Ferraris pubblicato da Terre di Mezzo Editore (Milano). Aspettando l’estate, il fascino del mare lo potrete trovare ne “L’altalena del sogno” di Alberto Muro Pelliconi pubblicato dall’Editrice La Mandragora (Imola). Per i lettori più giovani arriva fresco di stampa da Sinnos “An dan des, filastrocche per giocare insieme” con le illustrazioni di Paola Cadutti. Il gioco del calcio raccontato ai ragazzi? “Autobiografia della mia infanzia” di Ugo Cornia pubblicato da Topipittori (Milano). “Fino a sfiorarle il viso”, il romantico thriller di Kate Brady e”Altri regni”, il fantasy di Richard Matheson pubblicati da Fanucci Editore (Roma).