Ernesto Ferrero: Perec, l’umano e la letteratura

Giulia Siena
ROMA
 – Una delle presentazione de “Il Condottiero” di Georges Perec avviene a Roma durante Più Libri Più Liberi. Per conoscere meglio lo scrittore francese, noto per il suo amore quasi morboso per elenchi, liste ed enumerazioni, membro dell’OuLiPo e padre incontrastato del Novecento Letterario Francese intervistiamo Ernesto Ferrero, traduttore de “Il Condottiero” (Voland).

 

Ernesto Ferrero traduce in Italia per Voland “Il Condottiero”, uno dei primi lavori Georges Perec. Come ha affrontato questa avventura?

Ho affrontato questo lavoro con molta simpatia perché tradurre mi piace tantissimo e non succedeva da diverso tempo quindi, quando Daniela di Sora di Voland mi ha proposto questo, lavoro ho accettato. L’ho fatto perché faccio il tifo per i piccoli editori, per la loro capacità, la loro passione e il loro ammirevole coraggio. Allora mi sono avvicinato a questo testo con molta curiosità, affascinato anche dal tema dell’umano, il tema del falso e dell’arte. Poi, portandomi dietro il ricordo dell’affetto che Italo Calvino aveva per Perec, è stato ancora più piacevole affrontare “Il Condottiero”.

 

Infatti, Perec e Calvino, un legame letterario e umano che Lei descrive molto bene nella postfazione de “Il Condottiero”.

Calvino era un uomo schivo, quasi burbero, ma per Perec aveva l’affetto di un fratello maggiore e gli piaceva il rigore costruttivo, la capacità di Perec di arrivare alla narrazione attraverso la macchina costruita molto minuziosamente. Una stima verso lo scrittore francese che portò Calvino a produrre scritti molto belli per la morte di Perec trenta anni fa, riuscendo a dire con una chiarezza e una lucidità grandiosa quello che andava detto. Perec voleva scrivere molte cose – come poi effettivamente fece – cambiando registro, genere e argomento poiché aveva la grande facilità di giocare con elementi combinatori con i quali riempiva il suo vuoto affettivo.

 

“Il Condottiero” è l’esempio della grande capacità di Perec di descrivere con minuzia di particolari le figure, i sentimenti e le azioni  dei suoi personaggi. Ma la trama di questo libro potrebbe anche riflettere il dissidio affettivo dello scrittore? 

Questa è la storia di un uomo, di un falsario che per dodici anni si limita a replicare in maniera perfetta opere altrui, ma arriva poi il momento in cui entra in crisi perché vuole esprimere se stesso e decide di farlo. Ma questa sua iniziativa scatena, però, una crisi esistenziale che lo porta a un delitto che vive come una liberazione. Ed è questo rapporto committente-falsario che Perec vive come un rapporto morboso e delicato tra padri e figli, un rapporto che lo scrittore francese ricerca e dal quale vuole inconsciamente liberarsi.

 

Secondo Perec la letteratura è un mosaico e tutti gli scrittori contribuiscono a creare questo mosaico con le proprie opere. Oggi cos’è la letteratura secondo Ernesto Ferrero?

Per me continua ad essere la migliore attività conoscitiva che possiamo donare a noi stessi. Quest’arte ha la licenza di una rilettura verosimile che forse riesce ad arrivare più vicino a quella verità più umana e più poetica che l’uomo cerca. E oggi dobbiamo continuare a sfruttare questa possibilità e continuare a porci aperti alla ricerca attraverso i libri; la letteratura, di risposta, deve esplorare e cercare. Vedo, però, che l’andamento generale è diverso; pare stia vincendo l’intrattenimento a discapito del nostro tempo che sì, ve n’è sempre di meno, ma viene speso con leggerezza.

 

Siamo a Più Libri Più Liberi e mi sorge spontanea un’ultima domanda: la piccola e media editoria diventerà mai grande?

Se avessimo governi degni di questo nome sarebbe normale studiare dei provvedimenti per far sì che la piccola e media editoria (si può anche parlare di librerie indipendenti) crescesse senza snaturarsi, ma la realtà è un’altra. C’è chi dice che per sopravvivere deve crescere, però crescendo potrebbe essere costretta a cambiare, ad acquisire elle inclinazioni commerciali che minerebbero il progetto editoriale iniziale. Perché la piccola e media editoria che a noi piace, e secondo il mio parere ben fatta, è quella che fa ricerca e laboratorio. Allora spero che sì, diventi grande in questo senso, ma rimanga piccola nelle scelte editoriali, quelle che non fanno libri solamente per scopi commerciali.

 

ChronicaLibri ha intervistato Pietro De Bonis, autore di “Brezze Moderne”

Alessia Sità
ROMA –  Baciami alle sei del mattino/capirai che t’amo dall’odore dei cuscini/dai miei occhi chiusi/sempre pronti a fissarti.”
Qualche mese fa ho recensito “Brezze Moderne”, il nuovo lavoro di Pietro De Bonis edito da Lupo Editore. I suoi versi mi hanno letteralmente conquistata e affascinata. ChronicaLibri ha intervistato il giovane autore, che racconta il dietro le quinte della sua ultima ‘fatica’ letteraria. Quella di De Bonis è una scrittura chiara e limpida, che arriva dritta al cuore.
Come è nata la tua raccolta“Brezze Moderne”?
Che brutto il termine raccolta… chiamiamolo libro dai! “Brezze Moderne” è nato da sé  mi sono fatto solo trovare pronto a pigiare i tasti della tastiera, ai suoi richiami.
Perché hai scelto questo titolo per il tuo libro?

Anche qui non saprei risponderti, devi sapere che il primo lettore della mia scrittura sono io stesso. Credo che le opere belle si formino da sè, che l’essere umano serva solo da filo conduttore, da mediatore, per consegnarle agli altri esseri umani. La bellezza della creazione che continua attraverso noi, è una cosa stupenda.
In quale dei tuoi versi ti riconosci di più?

In tutti.
Manifestare un disagio esistenziale scrivendo le proprie sensazioni ha una funzione terapeutica per te? Qual è il ruolo della scrittura nella tua vita?
Ma cosa serve pubblicare i propri disagi? Non bastano già i pensieri quotidiani? Li dobbiamo anche far pesare ad altri? No… alle persone cosa interessa venire a sapere di te, di chi sei e cosa provi? Credo che se si voglia scrivere, lo si debba fare principalmente per gli altri, qui sta il darsi, il donarsi. Un lettore vuole leggere cose che lo riguardano, è chiaro prenda spunto sempre dalle vicende personali, ma attribuisco loro un’ottica più ampia, meno egoista, meno morbosa. La scrittura nella mia vita aumenta ancora di più la bellezza della vita stessa.
Come ti sei approcciato alla poesia?

La scrittura si è approcciata a me, mi ha scelto lei, non io.
Cosa ispira i tuoi versi?

L’amore, i giorni.
Hai un poeta o una poesia a cui sei particolarmente affezionato?

Alda Merini, in “Brezze Moderne” (edito da Lupo) apro con una dedica proprio rivolta a lei.
Tre aggettivi per definire “Brezze Moderne”

Vasto, semplice, attento.

Se siete curiosi di assaporare la bellezza di “Brezze Moderne” vi invito a leggerlo e, a tal proposito, vi segnalo che il libro può essere ordinato in tutte le librerie o acquistato su IBS.

66THAND2ND: John Graham Davies ha battuto Berlusconi

Giulia Siena
ROMA
– Lo abbiamo incontrato a Roma in occasione di Più Libri Più Liberi e quando lo senti parlare capisci che potresti rimanere impigliato nella fitta rete che crea la sua voce. Sì, perché con la voce John Graham Davies si è guadagnato il successo negli anni Settanta come attore teatrale. Oggi, dopo un passato sulle tavole del palcoscenico e come drammaturgo, l’attore britannico veste i panni di scrittore e arriva in Italia con “Ho battuto Berlusconi! Racconto in due tempi (più supplementari e rigori)”. Il libro, pubblicato dalla casa editrice romana 66THAND2ND, è una felice commistione di ironia e quotidianità, politica, passione e sarcasmo. Il protagonista del racconto, Kenny Noonan è un tifoso sfegatato del Liverpool e segue la sua squadra fino a Istanbul per la finale di Champions League contro il Milan. Allo stadio Olimpico Atatürk, Kenny si trova rocambolescamente seduto accanto a Silvio Berlusconi. Da qui parte un racconto che usa le parole del calcio per arrivare alla storia, alla politica e alle lotte che ha dovuto affrontare Liverpool e un uomo come Kenny.

 

ChronicaLibri intervista l’autore di “Ho battuto Berlusconi!”,  John Graham Davies.

 

Una delle peggiori figure della politica italiana entra in un libro di un attore-autore inglese: Berlusconi è un buon personaggio per un libro come il Suo?
Come tantissime persone grandi e potenti anche Berlusconi può ribaltarsi – e alle volte si ribalta – in una caricatura di se stesso; io sono britannico e penso a Margaret Thatcher che per alcuni versi assomigliava al politico italiano, la Thatcher, infatti, negli anni Ottanta è diventata la caricatura di se stessa. Sono personaggi talmente trabocchevoli che perdono la loro credibilità e diventano personaggi perfetti per un libro.

 

John Graham Davies prima di “Ho battuto Berlusconi” è un attore e la Sua professionalità in questo settore è entrata nel libro. Infatti Kenny, il protagonista del racconto, ha la forza narrativa di un attore e si esprime in un monologo che percorre tutta la storia. Come è avvenuto il passaggio dal palcoscenico alla scrittura?
Quando ero ancora attore ho scritto un monologo, quando poi ho cominciato a scrivere questo la prima cosa che mi è balzata in mente è stata l’importanza della voce, il modo di parlare, il ritmo e il ritmo mi piace moltissimo. Quando l’attore parla in maniera diretta è perché si crea una vera intimità; scrivendo questo libro che è appunto un monologo, più andavo avanti e più mi rendevo conto che la formula del monologo poteva funzionale.

 


Nel libro parla di Liverpool, di quei giovani che tenevano molto alla politica e ai propri diritti. Non pensa che la Liverpool di oggi sia cambiata? In che direzione sta andando la nuova Inghilterra?
Sono d’accordo in parte perché sì, certo, è vero: oggi i giovani di Liverpool non si sentono più parte di un movimento organizzato perché queste forme di aggregazione sono state superate e distrutte così da rendere difficile, per esempio, mettere inpiedi una resistenza contro il processo di privatizzazione che sta andando avanti. Dall’altra parte, però, ci sono prese di posizione: le manifestazioni di dicembre a Liverpool per protestare contro la privatizzazione della sanità era piena di giovani. Dal mio punto di vista c’è molto desiderio, anche da parte dei giovani, di resistere, l’unico problema è trovare modi nuovi e adatti al giorno d’oggi per attuare questa resistenza.

 

C’è una città italiana che le ricorda Liverpool?
Sicuramente non conosco così bene il vostro Paese per stabilire un paragone, forse potrebbe aiutarmi Lei, dovrebbe essere comunque una città portuale come Genova o Livorno perché le città portuali sono aperte sul mondo e sono abituate ad accogliere gente e quindi abituate alla mescolanza e alla tolleranza.

 

Io Le dico che leggendo “Ho battuto Berlusconi” vedevo un po’ degli scorci di Genova, ma se dovessimo guardare al futuro, a un nuovo libro cosa pubblicherebbe per il mercato italiano?
Credo che un libro a quattro mani con un amico funzionerebbe nel mercato editoriale italiano. Ora sto scrivendo nuovamente di un uomo di Liverpool dei primi dell’Ottocento, un uomo che ha combattuto la schiavitù e a forza di lavorare nelle navi e aiutare gli schiavi a scappare, contrae una malattia che lo rende cieco. Per il resto della vita, quindi, quest’uomo continua a combattere le varie forme di schiavitù. Chissà se questa trama potrebbe coinvolgere i lettori italiani…

 

Noi, allora, aspettiamo il nuovo libro!

 

Trenta Editore, una vocazione imprenditoriale al buono e al bello

Giulia Siena
MILANO
– La storia di Trenta Editore parte nel 2004 con la pubblicazione del libro “Gli Chef del Vino”; da allora la casa editrice milanese è diventata un punto di riferimento nel settore editoriale legato all’enogastronomia. Ma quali sono state le scelte, i cambiamenti e quali sono le novità per l’imminente anno nuovo lo chiediamo a Barbara Carbone, amministratore delegato della casa editrice.

 

Perché Trenta Editore, come nasce l’idea?

Per passione e per vocazione imprenditoriale. Da giornalista professionista a editore il passo è stato lungo e complesso, ma le sfide mi hanno sempre appassionato e in un campo come quello della cultura, e dell’editoria nello specifico, ancora di più. Avevo scritto molti libri per altre case editrici, alcuni di successo; nel 2004 avevo voglia di mettermi in gioco, avevo un’idea innovativa e la possibilità di dedicarmi al progetto: la cosa più difficile è stata sicuramente la ricerca di un partner per la distribuzione, senza il quale non avrei mai iniziato. Editoria per me ha sempre significato pubblico e libreria, capacità di confrontarsi sul campo, una condizione indispensabile per diventare imprenditori nel settore. E tutt’oggi è la sfida più difficile: editare libri che siano di interesse, comunicarli alla libreria prima che al pubblico e seguire da vicino
tutte le dinamiche che stanno dietro alla produzione e diffusione è il vero impegno. E’ un dato di fatto che ogni settimana arrivino sugli scaffali delle librerie migliaia di volumi, ma è qui che si misura la capacità di ogni singolo ‘attore’ del settore ovvero quella di valutare, promuovere e confrontarsi con gli utenti finali affinché non arrivi sempre lo stesso messaggio, lo stesso tipo di informazione, dagli stessi operatori, ma l’offerta di prodotti editoriali sia sempre la più ampia, interessante e di valore.

 

Trenta Editore nasce nel 2004 con lo scopo di occuparsi di temi all’epoca ancora poco inflazionati (leggo dal sito); ma alla luce del successo della cucina e dell’enogastronomia sui mezzi di comunicazione è cambiata la vostra proposta editoriale?

Dal 2004 a oggi abbiamo fatto molti progressi, ci siamo strutturati con collane tematiche, abbiamo migliorato la comunicazione, ma non abbiamo certamente cambiato mission: Trenta Editore continua a presidiare il comparto enogastronomico con sempre maggiore attenzione verso quei temi ‘insoliti’, talvolta più curiosi e meno alla portata dei grandi player di mercato. Lo facciamo con serietà e senza mai dimenticare il pubblico che, accanto ai grandi personaggi televisivi, cerca anche temi più sfiziosi, tecniche antiche rivisitate, ingredienti più sani, ma altrettanto golosi.
Non solo: abbiamo anche provato ad affrontare argomenti più diffusi, penso ad esempio ai libri sullo Champagne – sempre di gran moda – con un taglio innovativo e aperto; ci interessava tutto il pubblico della libreria, non solo gli esperti e gli appassionati e quindi abbiamo scelto di raccontare un tema di grande prestigio parlando di emozioni, di storie, di uomini che ogni giorno hanno a che fare con vigneti e grappoli d’uva, prima che con prestigiose etichette dai prezzi inavvicinabili; e questo è stato apprezzato dal pubblico che ha scoperto un volto sconosciuto della regione Champagne.

 

Quali sono le novità autunno/inverno 2012 targate Trenta Editore?

Tre in particolare: C’è tort@ per te 2, Vito Mollica e Manuale di conversazione sullo Champagne. Tre titoli molto diversi tra loro che incontrano esigenze diverse: il primo segue il grande successo di C’è tort@ per te (2011), una carrellata di soffici dolci ideati dalle food blogger. In questa nuova edizione i blogger sono diventati 33, dai
16 originari, e il ricettario si è arricchito di insoliti racconti legati al tema del viaggio e delle spezie; quasi in contemporanea è stato anche lanciato un divertente cofanetto a valigia (per non perdere il tema del viaggio) che raccoglie il libro e una tortiera Ballarini per mettere in pratica le ricette. Vito Mollica, lo chef premiato dalla Guida L’Espresso e dal Sole 24 Ore come miglior cuoco del 2012, inaugura la collana 30 Gourmet, dedicata ai grandi protagonisti del comparto; si tratta storie e racconti di piatti, in un’elegante veste, con testi in italiano e inglese, e rappresentano la punta di diamante delle nostre collane, per un pubblico colto e molto appassionato alla cucina di un certo livello. Manuale di conversazione di Champagne, come improvvisarsi esperti intenditori è invece un curioso libercolo in 10 capitoli per imparare a conoscere i fondamentali di questo importante prodotto, mentre si cerca di… conquistare la propria partner. Aneddoti, battute e pratici consigli raccontano a un vasto pubblico come anche la bollicina più famosa al mondo può essere oggetto della scelta di tutti durante una cena e può diventare spunto di conversazione e di romantici incontri!

 

I tre libri sui cui puntate in questo momento?

Oltre a quelli che ho già raccontato, I peccati di gola dei campioni, storie e ricette di grandi sportivi, scritto da un giornalista della Gazzetta dello Sport (Francesco Velluzzi) per la collana 30 Storie; L’oroscopo nel piatto perché leggere che esistono ingredienti e ricette adatte a ciascun segno (e alla coppia) è un tema davvero originale; e Mille e un… panettone, una chicca per scoprire che il dolce italiano più noto al mondo può avere dei risvolti in cucina davvero unici.

 

Barbara Carbone prima di essere editore è autore di libri, come si vive in questa doppia veste?

Ho abbandonato la doppia veste anni fa… Fare l’editore è un mestiere impegnativo che non lascia tregua: parlare con gli autori, con i librai, con tutti i canali della distribuzione; leggere e curiosare tra gli scaffali; osservare quanto avviene nel mondo in campo editoriale; adeguarsi alle nuove tecnologie e sviluppare progetti in linea
con il mercato; cercare di dare ai propri prodotti il giusto taglio per il pubblico del momento… Se le mie giornate avessero 36 ore sarei molto più felice!

 

Fare libri è…

Nella prefazione di uno dei nostri libri, La cena della Vigilia, che nel 2009 apriva la collana 30 Storie, ho scritto: “Quello che oggi non vorrei mai smettere di fare è incontrare persone, conoscere le loro storie, raccontare loro la mia, vivere con loro. Per cinque minuti, un’ora, per sempre. Chi può dirlo. Nessuno, questo è il bello. Non puoi sapere chi o cosa ti cambierà la vita, puoi solo fare delle scelte.” Come quella di fare libri…

Antonio Di Costanzo: tra cronaca e giallo, ecco il papà di Jacopo Fernandez

Marianna Abbate

ROMA – Come avrete capito dalla mia entusiasta recensione, che potete leggere qui, Antonio Di Costanzo è un tipo simpatico. E, nonostante le nostre divergenze filologiche sulla questione del qual (che lui vede come un troncamento, mentre io sostengo essere un’elisione) l’intervista che segue vi dimostrerà quanto accennato in precedenza. Tra orari di lavoro impossibili e impegni imprescindibili, ha trovato il tempo per raccontare ai lettori di Chronicalibri un po di sé.

Da giornalista a scrittore, o da scrittore a giornalista: qual è il mestiere che ti senti cucito addosso? 

“Entrambi. Dipende dai giorni e, soprattutto, dall’umore. Ma forse la mia è solo un’illusione”.

Scrivere: quali sono i sacrifici e le soddisfazioni di questo mestiere?

Chi fa il giornalista sacrifica famiglia e amicizie. Lavora il primo dell’anno, il 26 dicembre, alla Befana e a Pasquetta. Ha orari folli e una vita poco regolare. Ma tutto questo forse, a pensarci bene, non è un sacrificio è una scelta. Scrivere libri, invece, per me sono brevi momenti di follia che si accendono e spengono a intermittenza”.

Perché scrivere un giallo? In cosa si differenzia il tuo libro dai gialli classici?

“Ho scritto romanzi perché quando ho deciso di farlo mi sembrava un’idea intelligente. Il tempo mi dirà se avevo torto o ragione. Il mio dovrebbe essere un giallo-comico, ma sono contrario alle etichette. Posso dire che è incentrato sul protagonista, un uomo scorretto, un cronista beone pieno di difetti e socialmente sconveniente. Jacopo è la tipica persona che una ragazza non potrebbe mai portare a casa per presentarlo come fidanzato ai propri genitori. Dicono che è molto divertente”.

Quanto di te c’è in Jacopo Fernandez, il protagonista dei tuoi romanzi? Cosa ti accomuna a lui, quanto vorresti ti accomunasse e cosa odi di lui?

Bho, posso dire solo che i miei non sono libri autobiografici. Quando però invento un personaggio saccheggio nella mia vita, in quella di amici e parenti e di tutti quelli che ho incontrato. Adoro Jacopo Fernandez, è quello che vorrei essere anche se so che non accadrà mai”.

Cosa significa essere un giornalista eroe? E’ un valore che si raggiunge per merito o un’etichetta mediatica?

“Ah dovresti chiederlo ai giornalisti eroi, non di certo a me. Comunque posso dire che questa è la tipica etichetta che qualcuno appiccica addosso a certi cronisti che magari hanno sacrificato la propria vita soltanto facendo il proprio lavoro. Gli stessi cronisti che quando erano sconosciuti, magari erano vessati, tenuti a distanza e infangati da chi poi li esalta per specularci sopra”.

Esistono ancora giornalisti eroi? Potresti citare qualche esempio?

“No non ho esempi da fare, anche perché il termine eroe non mi piace e secondo me non è corretto. Ci sono cronisti bravi e meno bravi. Gli eroi lasciamoli stare, anche perché storicamente fanno una brutta fine”.

Che cos’è l’ispirazione?

“Non ne ho idea. Io mi metto al computer e scrivo romanzi quando non riesco a prendere sonno la notte. Forse l’ispirazione si chiama insonnia”.

Chronicalibri si occupa di mostrare il volto della piccola e media editoria italiana: com’è il tuo rapporto con Cento Autori?

“Ecco. Ripensandoci, un uomo che si avvicina al prototipo dell’eroe l’ho conosciuto: si chiama Pietro Valente ed è il fondatore della mia casa editrice: Centoautori. Di professione fa il farmacista, ma quello che guadagna l’investe nella casa editrice per diffondere la cultura a Napoli e provincia. Ha avuto anche il coraggio di pubblicare libri scomodi come il Casalese e lo fa soltanto per spirito di servizio e per migliorare la sua terra, rimettendoci tempo e soldi. E poi è una persona corretta. Mandai il primo libro in casa editrice, mi contattarono dopo qualche mese e mi offrirono un contratto per pubblicarlo. Senza tante chiacchiere e false promesse. Una vera rarità”.

Che consiglio potresti dare a chi vorrebbe approcciarsi alla scrittura? Cosa deve fare un aspirante scrittore?

“Non ascoltare i consigli degli altri aspiranti scrittori. Sono ideologicamente contrario a dare consigli”.

“Non mi piacciono i racconti con troppe coincidenze”. Conversando ad Aosta con Deborah Monica Scanavino.

Giulio Gasperini
AOSTA – Ci siamo conosciuti a un delizioso festival, Babel, che qui ad Aosta si tiene tra fine aprile e inizio maggio. Andai alla presentazione del suo libro, una raccolta di racconti intitolata “L’appartamento e altri racconti” (edito dalla END Edizioni) e le proposi un’intervista. Anzi, una chiacchierata. E così è stato. Quella che ho cercato di riprodurre è proprio una conversazione, tra una cedrata e una tazza di tè, che ci siamo concessi, per più di tre ore, ai tavoli del “CAFé-librairie” di Aosta. In barba alla claustrofobicità dei monti, che tanti additano e accusano.

 

Alcuni dettagli di questi racconti mi hanno colpito; soprattutto le pagine che parlano più della contemporaneità. I racconti “Sexting” e “Thinspiration”, principalmente, sono molto interessanti anche perché io non avevo francamente idea che esistessero tali pratiche e non avevo mai letto un’analisi così attenta. “Sexting” m’ha colpito tantissimo: proprio anche questa terminologia inglese sparsa che dà proprio un’idea di freddezza. Questa ragazza che vive un comportamento come se fosse una cosa dovuta, quasi; senza neppure elaborarla in prima persona perché così va fatto, quella è l’impostazione che una determinata cultura ti dà. E questa terminologia secondo me lo scandisce molto bene, perché son tutti termini anche molto usati: termini tecnici che rendono ancora più asettico quello che viene compiuto.
Esatto, volevo proprio indicare questo iato tra la vita di questa ragazza qua, che sicuramente, come dici tu, mette in gioco valori che lei stessa non riconosce assolutamente. Questo racconto l’ho scritto per il concorso “Donne in opera” che quell’anno aveva come argomento “il corpo” e siccome io sono ossessionata dall’idea di essere originale, quando partecipo ai concorsi cerco sempre di declinare l’argomento nella maniera più originale possibile. Cerco, cioè, proprio la cosa che mi interessa ma che declino proprio nel modo che nessun’altra delle partecipanti fa. E mi piaceva quest’idea qua perché cercando in internet, sui blog e anche sui giornali erano uscite queste storie di ragazzine che vendevano le loro foto pornografiche via sms in cambio di ricariche di cellulare; dopo, intervistate o comunque sentite, dicevano: “Beh ma dov’è il problema, cioè che differenza c’è tra una mia foto e il calendario della Belen? Non c’è nessuna differenza proprio” e questa rappresenta una caduta dei valori: mi piaceva proprio l’idea di far parlare queste ragazzine in prima persona.


E infatti quello che a me ha colpito molto in tutti questi testi è proprio questa angoscia, questa sorta di irrimediabilità di un finale, questa accelerazione all’inevitabile, a quello che non è più scongiurabile.
Sì ma perchè io non posso scrivere di amore, non sono capace.
E quando scrivi d’amore, comunque, direbbe Gianna Nannini è “un amore cannibale”. Nel libro, però, l’amore da qualche parte c’è, tipo in “Ciò che ho di più importante” – una sorta di horror erotico -. Talmente cannibale da finire sottoterra. E anche in “Un dolce per te”…
Sì, quello è un po’ diverso perché lui è innamorato ma lei non lo segue. Più che altro nel primo, “L’appartamento”, c’è un amore particolare, in cui loro sono molto vicini e molto in sintonia…

Però è nel contesto di una società completamente disinteressata: l’appartamento lascia il vuoto nel palazzo e addirittura si richiede l’autorizzazione per quel buco, quel vuoto, e invece è ben più importante: è un’umanità che è sparita ed è andata chissà dove…
E continua a sparire: ad esempio, dall’altra parte del mondo ci sono tre coppie che spariscono di nuovo e magari spariscono anche altre perché nessuno se ne accorge. Questo è il paradosso. Perché a me piacciono comunque le storie che finiscono e fanno piangere. Io adoro Stephen King; mi è capitato di leggere un suo libro in cui i protagonisti alla fine si sposano, ma a me piacciono i finali che mi lasciano un po’ di angoscia dentro: li trovo più belli, più emotivi; mi emozionano di più rispetto a sapere che i protagonisti sono felici, perché forse la felicità, almeno da un punto di vista dei racconti, è limitante, e anche perché l’infelicità è una situazione dalla quale tu puoi uscire e puoi, poi, diventare felice. Tra l’altro, secondo me, un libro non finisce con l’ultima pagina: o il protagonista muore e allora lì è finito, è morto, però un libro, un racconto, mostra solo una parte della vita di un personaggio perché poi il personaggio dopo continua la sua vita anche se non è scritta, quindi io nella mia mente mi costruisco il suo futuro, me lo immagino.


Il genere del racconto si presta molto bene a questa scelta; offre un’opportunità maggiore, rispetto a un romanzo, di costruire più parti, più frammenti…
I finali che scrivo sono molto aperti. Lasciano al lettore la possibilità di prendere i dati che ho scritto e riutilizzarli immaginando quale possa essere il futuro. Alcuni miei amici si lamentano dei finali e mi dicono: “Tieni il lettore per mano e poi lo lasci lì”. È però questa una precisa mia scelta stilistica.

Funziona molto bene: questi son racconti costruiti con una pregevole accelerazione. Ad esempio, “Il ragno”. Impressionante proprio il fatto che quest’ansia claustrofobica nasce proprio dal quotidiano, dagli aspetti più rassicuranti.
Una delle paura più grandi, più irrazionali è di non essere al sicuro in posti dove dovremmo esserlo.


Che credo sia la paura in tempi come questi. La quotidianità dovrebbe essere la protezione più certa e sicura. La casa, ad esempio, è la cosa più quotidiana che abbiamo. Il nostro nido. Tutto lì dentro.
Io ho trovato veramente nella mia casa questo ragno che si dibatteva testardo. Quando ero piccola, mi divertivo a rompere sempre la sua ragnatela, ma avevo i sensi di colpa perché lui la rifaceva sempre. Ha ragione il ragno. L’istinto vince… esatto, e l’idea di questo ragno abbozzolato mi piaceva. Questo ragno che cresce mano a mano e non si sa bene cosa accada. C’è questo finale aperto, c’è il buio che non significa proprio la morte… eh sì, perché in questo caso lei rimane comunque tutta imbozzolata dentro la tela del ragno come se fosse morta. Non c’è luce, non c’è aria. Non dà subito l’idea istantanea della morte… No, più dell’angoscia, dell’agonia che chissà come poi si evolve.

 

Sono racconti che creano un’impressione appena finito di leggerli, un’impressione che dopo è difficile da cambiare. Analizzare troppo fa perdere molto del valore che hanno: è giusto che istinto rimanga. L’agghiacciante è proprio questo pericolo incombente del quotidiano: dal cucinare la torte, dalla farina sulle mani che apre uno scenario impressionante – anche perché non verosimile – però preoccupante.
Son racconti simbolici, perché il racconto sulle torte è un po’ splatter, preso da una situazione normale: un mio amico che fa torte, te le regala ma non le mangia mai con te. Lo trovavo triste e ho provato a crearci un racconto. Il protagonista è sotto ipnosi e non si rende conto di farle con ingredienti maledetti: contro la sua volontà.


E la realtà di oggi quanto entra in questi racconti? Sono estraniate da date ed eventi.
Ho scritto questi racconti nell’arco di 5 anni. Il primo, “La maledizione”, voleva essere un omaggio alla città di Aosta. L’ultimo è “L’ultima salita”. Io amo il noir e l’horror, anche se ci sono generi più contemporanei: “Sexting” e i racconti sull’anoressia. Io cerco di agganciarmi alle paure più ancestrali. Vorrei parlare di paura, scrivere un horror che fa paura adesso come l’avrebbe fatto cinquant’anni fa.

Anche le paure del contemporaneo?
Esatto, soprattutto la paura di non avere punti di riferimento: essere in balia, non essere sicuri. Quello che faccio è delineare la paura in una storia nella quale mancano punti di riferimento. Le paura ci sono sempre, con il benessere o con il non benessere. Paradossalmente, nel momento in cui c’è il benessere, come nel primo racconto, c’è questo maggior distacco, tra ricchezza e insicurezza generale di vita. Anche se stai bene, se hai fatto il massimo per garantirti una vita serena, succede qualcosa che ti fa smarrire.


È evidente anche una certa solitudine dei sentimenti e delle reazioni, delle decisioni prese in solitaria. In questo senso, il racconto più esplicativo è “Dopotutto”.
Volevo raccontare la storia di una donna che subisce uno shock biografico, cioè un evento, come un lutto, un fallimento, che crea una frattura, che distrugge, che devasta la vita della persona. Nel racconto ho scelto di parlare di una violenza sessuale. Ho cercato di informarmi il più possibile, su blog, su internet. La protagonista ha subìto questa grande tragedia nella sua vita, che ha segnato una specie di solco e lei cerca distrattamente per tutta la durata del racconto di dimenticare, di far finta che non sia esistito, finché non si rende conto che l’unica cosa da fare è accettare questa distruzione, questo cambiamento, e andare avanti: riconoscere quello che è successo ma … Dimenticare è impossibile… Però il cambiamento avviene in una condizione di solitudine estrema, o volontaria o involontaria.
Quando hai un problema sei veramente tu da solo a doverlo gestire.

Anche negli altri racconti le decisioni prese sono prese da sole. Anche quando uno si fa del male se lo fa da solo. Anche lei, in “Dopotutto”, dice che è colpa mia, si colpevolizza. È una condizione che attraversa un po’ tutti questi racconti, che sono tecnicamente e stilisticamente molto accelerati: spingono velocemente verso una fine inevitabile. Non è facile scrivere un racconto che ti tiene dalla partenza all’arrivo in sospeso. In “L’elfo fratello” va in scena la decostruzione dell’uomo; e alla fine rimane solo il meccanismo che fa andare avanti in maniera inerziale. Anche qui la solitudine c’è, perché non c’è nessuno che ti rallenta in questa corsa: si consuma tutto nello spazio ridotto. I racconti, in generale, non sono facili, da scrivere; nella tradizione italiana abbiamo pochi autori degni di questo nome…
Perché i racconti vengono valutati poco. Le stesse case editrici son le prime a non valorizzarli.

Il pubblico italiano è anche meno abituato di altri alla fruizione del racconto, ma in generale nel nostro paese manca proprio una tradizione del racconto. Il romanzo è più semplice perché ti permette di recuperare, in altre parti, eventuali cali di tensione narrativa. Il racconto, all’opposto, non dà possibilità di recuperare. I tuoi son racconti che narrativamente funzionano in maniera eccezionale. Interessantissimi, ancora, quelli sull’anoressia, già a cominciare dal titolo…
Ho scritto “Le bambole non mangiano” perché avevo una compagna di scuola che aveva una forma pura di anoressia; lei ha scritto un libro sulla malattia, io l’ho letto e secondo me non diceva le cose come andavano dette. Ho scritto un racconto perché è la mia dimensione. Mi sono iscritta su myspace, ho creato un profilo, ho dovuto mettere delle foto in cui ero molto magra perché altrimenti non ci sarebbe stato un contatto con nessuna, e ho cominciato a conoscere tante ragazze. Una aveva scritto sul suo profilo “Dolls don’t eat”: secondo me il titolo rendeva molto bene l’idea. Quest’idea di essere come bambole: non soffrire, non amare, non mettersi in gioco, non far nulla che potesse fare male; preservare la bambola e preservarti nell’anima. Alcune concetti trasformati in racconto le ho derivati dai colloqui avuti con le ragazze, alcune delle situazioni son prese proprio dalle loro vite. È la mia visione della malattia: la fiammella se non ce l’hai dentro nessuno può far niente. “Le bambole non mangiano” è, per altro, uno dei pochi miei racconti che finisce bene: nel senso che la protagonista arriva a capire di poter vivere, pur avendo questa forma di malattia sempre accanto.


Parliamo della ricerca che fai per scrivere…
Io faccio tantissima ricerca quando scrivo perché il mio insegnante di scrittura creativa, che è anche il mio editore, mi ha spiegato questa cosa: quando tu scrivi devi sapere quello di cui stai scrivendo. Per questo faccio tantissima ricerca ed è una parte molto interessante della scrittura. Per “L’ultima salita”, ad esempio, sono andato addirittura alla sede delle guide alpine per sapere come potrebbe essere un cadavere che cade giù da una montagna: la descrizione del cadavere me l’ha data una guida!


Gran parte della ricerca, a quanto ho capito, avviene tramite la dimensione del blog, che oramai fa parte del nostro mondo: è quasi una nuova forma di cultura, che non si fa più sulla carta…
Permette di venire a contatto anche con persone che hanno i tuoi interessi. È un modo più facile e naturale, anche per le possibilità di aprirsi, di confidare le cose.


Le ombre, invece? Qui, nei racconti, ce ne sono tante di ombre… Citi anche King; e Faletti, in apertura. L’ombra che cos’è?
Io sono speleologa; amo molto le ombre e il buio. Quando vado in grotta, ci sono momenti in cui cerco di restare da sola e spengo la luce: mi piace stare qualche minuto completamente al buio nella grotta e ascoltare i rumori. Sono molto più affascinata dal buio però, perché le ombre si muovono, sono più angoscianti.

Danno anche l’idea che qualche cosa ci sia, mentre il buio ti dà l’illusione che non ci sia nulla. Dall’ombra, io ti chiederei di Aosta. A me, trasferito da poco tempo, mi ha dato l’impressione di essere una città molto ombrosa, densa di ombre…
L’ombra ognuno ce l’ha dentro, e se ce l’ha dentro ce la può avere da ogni parte. Io amo molto Aosta e non posso dare ad Aosta la colpa delle ombre che ci sono. A livello architettonico Aosta è una città storica, fondata dai Romani, e prima ancora dai Salassi. Non ha ombre, Aosta; ha la storia. E la storia è fatta dalle persone. Se ci sono ombre nella città, non sono ombre della città ma delle persone che l’hanno abitata e vissuta.


Per questa presenza di antico e di nuovo, Aosta è una città composita: in una forma che neppure Roma è. Roma è molto più ariosa, ti dà la possibilità di scindere e capire quello che vedi. Aosta produce questo effetto molto compatto, quasi come se questi strati di storia si accavallassero, si sovrapponessero anche irregolarmente. Una città ribelle, a questo livello. Un po’ per la conformazione geografica, un po’ per il poco spazio dove costruire: Aosta ha un aspetto molto affascinante.
Aosta è particolare perché quello che più la caratterizza è il freddo. Non è una città comune, ma una città a misura d’uomo: ti dà delle possibilità, degli spazi da ritagliarti, che da altre parti non hai. Ma soprattutto devi combattere con il freddo. E il freddo, a differenza del caldo, non ti permette di lasciarti andare: il freddo devi combatterlo.


Anche è una città che stupisce: in pochi hanno percezione della ricchezza di Aosta. Ci sono dei resti archeologici che neanche a Roma ci sono più, come, ad esempio, il criptoportico. È una città anche molto nascosta, costruita sotto tutto quello che è cresciuto sopra: un aspetto che io avvicino alle ombre, come qualcosa che si cela.
Nei miei racconti le ombre sono sempre nell’interiorità dei personaggi, mentre invece l’ambiente è sempre abbastanza accogliente.


Nel racconto “La chiromante”, invece, ci sarebbe da chiederti se credi nel destino o nel caso…
Io non credo nel destino, nelle streghe, nei fantasmi, non credo nella vita dopo la morte e scrivo di queste cose proprio perché, non credendoci, posso usare uno sguardo di fantasia. Credo nella scienza. Credo nella casualità. Non mi piacciono i racconti con troppe coincidenze, perché nel racconto le situazioni devono avere una loro logicità. Nei racconti, le situazioni sono normali ma prendono delle pieghe interessanti, purché coerenti: è questo quello che cerco con la mia scrittura.

Intervista: Valentina Edizioni, una casa piena di libri

Giulia Siena
MILANO – C’è una casa editrice a Milano che è un po’ una casa, la casa dei libri. Qui i libri vivono: vengono aperti, sfogliati, annusati e raccontati. E’ una casa piena di idee e storie, una casa che oggi ci apre le porte e si racconta. Siamo a casa di Valentina Edizioni e a scoprirne le novità ci accompagna l’editore, Valentina Brioschi.

 

“Mi piace che il luogo dove si pensano e si fanno i libri si chiami Casa. Una Casa abitata da personaggi, storie, avventure..” In questo modo Valentina Edizioni si presenta al lettore; ma come nasce la casa editrice?
La casa editrice è nata un po’ per caso, come nascono tante cose nella mia vita. Mi innamoro di qualcosa o di un’idea e credo sempre sia vincente e geniale. Mille volte ho sbagliato e qualche volta no; sicuramente la scelta di aprire una casa editrice è stata una di quelle volte in cui non ho sbagliato. Credo i nostri libri siano importanti compagni di viaggio nella crescita di un bambino, sicuramente lo sono per me, sono cresciuta; in tutti i sensi.

 

A dieci anni dalla nascita qual è il bilancio di Valentina Edizioni?
Vorrei dare alla parola “bilancio” un’interpretazione personale. Il bilancio del successo raggiunto nel mondo meraviglioso e un po’ magico dei bambini è positivissimo! No mi faccia parlare di numeri – in matematica sono sempre stata una frana – ma la passione e l’amore per il mio lavoro hanno sempre fatto sì che ogni giorno fosse un nuovo bellissimo giorno.

La Sua casa editrice si rivolge soprattutto ai giovani lettori, ai bambini, ma come è cambiato il mercato dell’editoria per ragazzi negli ultimi anni?
Il mercato dell’editoria ha sicuramente subito una forte scossa negli ultimi due anni; forse per la crisi forse per i giochi elettronici che stanno prendendo il sopravvento. Bisogna però tener duro, i nostri figli vanno cresciuti avendo la possibilità di toccare, annusare, respirare ciò che è un libro: uno scrigno dal quale escono musica e parole.

 

Tra scelte dei manoscritti, le illustrazioni, la realizzazione e la promozione dei libri, com’è la vita delle piccoli case editrici in Italia?
La vita in una piccola casa editrice è frenetica, ci si deve occupare un po’ di tutto: dallo scrivere un testo oppure correggere e accettare quello di un altro, tra scegliere le illustrazioni, correggerle, occuparsi della promozione che spesso è affidata ad esterni, il distributore da seguire con il loro calendario, i promotori… Bisogna saper fare un pochino di tutto per mantenere una struttura snella. Noi abbiamo una redazione tutta al femminile,poche teste ma geniali e multitasking.

 

Quali sono le novità autunno/inverno 2012 della Valentina Edizioni?
Le novità sono molteplici e sempre davvero carinissime. Verranno presentate molto in libreria e nelle scuole. La nuovissima e intrigante collana per ragazzi “SWITCH SIERO MUTANTE” (narrativa per ragazzi 7-12), sei episodi avvincenti con metamorfosi da brivido assicurato. LA CAPRA GOLOSA: ultimo capolavoro della serie che tratta di storie di animali distratti, altruisti e sbadati che rispecchiano l’animo dei piccoli lettori (3-7). PASSO DOPO PASSO: nella vita non bisogna mai arrendersi neanche davanti alle difficoltà più grandi. SBRIGATI MA LENTAMENTE : delizioso racconto di una tartaruga riflessiva e di una lepre esuberante. Impareranno ad accettarsi scoprendo il proprio valore. LE GALLINE NON RIESCONO VEDERE AL BUIO: basta determinazione nella vita per riuscire a vedere il mondo con occhi diversi.
TRIXIE TEN: impara l’inglese e impara ad accettare nove rumorosissimi fratelli.

 

I tre libri sui cui puntate in questo momento?
LO STRANO UOVO, un capolavoro; vorrei tanto che in questo momento il lettore ne avesse uno in mano per poterlo sfogliare e capirne il significato.
Poi, IL GRANDE LIBRO DELLE PAURE, forse ancora più bello perché nella vita bisogna imparare ad affrontare le proprie paure per sconfiggerle. Anche i più grandi hanno paura di qualcosa. PETAL PEOPLE, un meraviglioso mondo popolato da un’intera generazione di simpatici fiori. Lo sapevate che, i fiori come noi umani, hanno le medesime caratteristiche? Nell’ultima pagina il bambino troverà il semino del fiore del libro da far crescere con amore e attenzione. Conoscerà il suo personaggio.


Fare libri è..
Semplicemente meraviglioso e comunque l’unica cosa che so fare…

“Sul ciglio del dirupo”, storie di vita

Giulia Siena
ROMA
“Io non sono nient’altro che un involucro, una scatola che contiene uno strumento che viene suonato, ma non da me. Sono passiva a quello che capita, ho smesso di cercare di influenzare le cose quando non ho trovato altra strada da percorrere che accettare.” A dirlo è Monica, protagonista de “Sul ciglio del dirupo”, il racconto che chiude la raccolta e da cui prende il nome il libro di Emiliano Reali pubblicato da Ded’A Edizioni. Monica è soltanto una dei tanti protagonisti che affollano i diciotto racconti di Reali. Sono storie di vita, storie di donne e uomini, storie di disagio, emarginazione, determinazione. Storie di amore, omosessualità, malattia, partenze e arrivi.
La storia di Fabio che in “Senza pelle” (2004) si ritrova sulla strada a condividere la coperta di un nomade e il fuoco di una prostituta. Fabio però non ha pelle e non ha forma per i passanti o per i clienti che si fermano, ai loro occhi lui non appare. Ma di notte, su quella strada, una macchina perde il controllo e la sua vita torna a prendere consistenza, pelle. La storia di Lina (“Gli uomini di Lina”, 2008) che ammalia e regala piacere attraverso una chat; per gioco, per provocazione, per ribellione e per libertà. Clara (“RH Negativo”, 2005) ha voglia di evadere dal suo mondo piccolo borghese. Lei ha tutto, ma ha bisogno di altro e questo lo trova nei tasti di un pc, tra le righe delle conversazioni via chat con i suoi misteriosi amici. Il mistero l’attrae, ma ne viene travolta fino a scoprire il sottile legame di sangue che lega in modo indissolubile.

Dopo il successo di “Se Bambi fosse un trans” (Azimut, 2009), con “Sul ciglio del dirupo. X anni di storie da raccontare” Emiliano Reali racconta le emozioni con un piglio provocatorio in cui dolcezza e realismo si mescolano.

 

Dalla realtà al palcoscenico. Adriano Marenco racconta “Il pasto degli Schiavi”

Alessia Sità

ROMA – Dopo il romanzo breve “La palude e la balera”, Adriano Marenco racconta ai lettori di ChronicaLibri la sua ultima fatica letteraria: la piéce teatrale intitolata “Il pasto degli schiavi”. Il lavoro appartiene alla collana teatrale, “Scenamuta” edita da Edizioni Progetto Cultura, della quale l’autore si occupa come direttore artistico.
Come nasce “Il pasto degli Schiavi”?
In gran parte per caso. Una di quelle situazioni che non sai mai dove finisce la casualità o dove comincia il destino. Dovevo fare un altro spettacolo. Già si era avanti con le prove. Un paio di settimane prima della prima l’attrice ha dovuto rinunciare. Ovviamente è stata bruciata viva. Insomma mi trovavo solo con l’attore. Allora ho cominciato a rielaborare il pezzo per farne un monologo. Provare a salvare capra e cavoli. E mi sono trovato in mano un testo che raccontava tutto quello che sentivo di dover dire sul tema del potere in quel momento. Ma quel momento è valido in ogni tempo. È stata un’esplosione. Ha letteralmente fatto bum. È sgorgato. Tutto il sedimentato interiore di anni è traboccato fuori. Non vedeva l’ora. Come punti riferimento, oltre a quello evidente, ci sono Trujillo, Caligola e Sarah Kane, Thomas Bernhard, Ho cercato di dire tutto quello che avevo sullo stomaco. E’ un monologo forte condensato, tra la preghiera e l’imprecazione.
La condizione di degrado esistenziale descritta in questa piéce si riallaccia in qualche modo alla condizione disumana ampiamente affrontata nel tuo romanzo breve “La Palude e la Balera”?
Il potere è il pasto degli schiavi, esattamente come il cecchino il pasto dei resti umani della palude. In un qualche modo il potere e il cecchino sono due facce della stessa medaglia. essi sono il padrone di quegli altri. Ma in fondo quegli altri lo vogliono. Non saprebbero farne senza. Questo degrado che tu dici è il tessuto del nostro tempo. Quindi è inevitabile che si rifletta nei miei scritti. Il pasto è una vivisezione del potere e soprattutto, e questa è la parte che più mi inquieta, di come il potere sia in qualche modo, oscuro ma imprescindibile, contagioso. Di come il carnefice si attacchi dentro di noi. Per attrazione. Il potere che ci marcisce dentro richiama e vuole quello esterno. Siamo noi che lo cibiamo. Siamo noi che ci cibiamo.
Qual è il vero significato del continuo gioco di buio e luce?
Il gioco buio-luce è solo un entrare e uscire dalle sbarre e da noi stessi. E’ un altro modo per indicare lo scambio tra due cause ed effetti che non possono fare a meno l’un dell’altro. Insomma il carnefice non esisterebbe senza la vittima e viceversa.
Come mai hai scelto il genere del monologo e non hai optato per un faccia a faccia fra il potere e gli schiavi?
Servivano due attori per un faccia a faccia! La verità è che avrei potuto usare uno specchio. Anzi potrebbe essere un’idea per un prossimo allestimento. Il potere è lo schiavo e viceversa.
Perché proprio il potere? Pensi che sia quello il vero male della nostra società?
Il potere non è il problema principale. Il potere è. E’ ineludibile. È le fondamenta della nostra civiltà.
L’uomo in gabbia è la metafora di chi si rinchiude nel proprio apparente benessere protetto dalla ‘sporcizia’ sociale o è il vero ‘schiavo’ del potere che non ha il coraggio di ribellarsi alla logica di un sistema corrotto e spietato?
La gabbia deve permettere di uscire. Le sbarre non possono essere troppo strette. Perché il potere non è ingabbiabile. Lui è talmente forte che può tranquillamente affermare che è lui che si protegge, ma ovviamente come lui può uscire gli altri possono entrare. Egli però è talmente convincente che lui può uscire ma gli altri non arrivano all’evidenza di poter entrare. Lui è già dentro di noi. Così come la sporcizia  fuori è lui stesso. Pervade ogni cosa. Stiamo parlando in un certo modo, evidentemente, di dio. Di una proiezione distorta e ingannevole. Come le scimmie. Credo siano l’imitazione trionfante della vita. Sfacciate. Pulciose. Orgogliose di esserlo. C’è in effetti un mucchio di ciccia al fuoco.
Progetti per il futuro?
Tra pochi giorni andrà in scena un mio testo nuovo, “Jansi, la Janis sbagliata”. Un monologo quasi cantato su Janis Joplin. E dato che non sia mai che faccio qualcosa appetibile al pubblico, è senza neanche una canzone. In compenso è davvero una partitura per voce e basso. È praticamente un concerto. Un concept album di interiora di Jansi. Quando seguo le prove lo faccio ad occhi chiusi. Muovendomi come ballassi dentro. Meglio solo dentro che sono una frana. Mi preme per chiudere, dire che “Il pasto degli schiavi” è il primo numero di una collana teatrale della quale mi occupo come direttore artistico. “Scenamuta” edita da Edizioni Progetto Cultura. Sono già stati pubblicati talenti veri del teatro. Affermati e altri nascenti come Fabio Massimo Franceschelli con “Veronica”, Dario Aggioli con “Autore chi guarda” e Silvia Pietrovanni con “Bada-mi”.
Tre parole per definire “Il pasto degli Schiavi”?
Le scimmie scorrazzano.

 

ChronicaLibri ha intervistato Veronica Elisa Conti, autrice de “Le nebbie di Vraibourg”

Alessia Sità

ROMA – ChronicaLibri ha intervistato Veronica Elisa Conti, autrice de “Le nebbie di Vraibourg” edito da MUP. La giovane e brillante scrittrice racconta come è nato il suo primo romanzo – vincitore nel 2011 del prestigioso Premio Luigi Malerba di Narrativa e Sceneggiatura – svelando i retroscena di un lungo lavoro nato dall’amore e della passione per la letteratura francese e inglese e non solo.
Cosa ha ispirato “Le nebbie di Vraibourg”?
In questo lavoro, che per me è il primo in assoluto, confluiscono tutti gli autori, i luoghi, le opere che ho amato, sognato, letto e riletto. Il gioco dei nomi riconduce alla tradizione letteraria francese e inglese del Romanzo Gotico, ma ci sono dei testi a cui mi sono riferita come una vera e propria documentazione. Innanzitutto l’amato “ Il ritratto di Dorian Gray “. Ho immaginato che la madre del “mio” Dorian avesse letto questo capolavoro e, consapevole della bellezza del figlio, l’avesse così nominato. Il grande Dorian Gray vive un’evoluzione dall’innocenza al piacere senza coscienza, sino all’orrore per se stesso e il contrappasso della morte. Dorian Des Essarts è portatore di bellezza, ma non la cerca, si crede libero, ma la sua presunta libertà è data solo dalla paura che suscita. Finita questa, anche lui rimane prigioniero dello squallore della vita. Altri due titoli sono stati per me fondamentali. “ Il calore del sangue “ di Irène Némirovsky , il cui  ritratto della profonda provincia francese, delle sue meschinità, di quel passato che perseguita il presente mi ha condotto per mano in ogni parola. Infine il meraviglioso “Thérèse Desqueyroux” di Mauriac. Come nel libro di Irène Némirovsky, siamo immersi nella provincia della Francia che tanto amo. Mauriac riesce a far amare la figura di Thérèse , carnefice e vittima, persa tra i sogni e i suoi pini secolari. Una grandissima opera dallo stile moderno, immediato, che suscita mille interpretazioni, il cui finale aperto ci porta a nuove domande, come nella vita. Potrei citare ancora mille opere, immagini e suoni, ma credo e spero che ciascun mio lettore possa trovarli da solo e dare una sua personale risposta.
Il tuo romanzo ha vinto nel 2011 il Premio Luigi Malerba di Narrativa e Sceneggiatura. E’ una bellissima soddisfazione. Secondo te, qual è stato il vero punto di forza del tuo lavoro?
Credo la consapevolezza di quello che stai facendo, di chi sei e chi non puoi ancora essere. Ho cercato, seppur nel mio piccolo, di essere me stessa, riconoscendo con quanta più obbiettività, le mie caratteristiche e potenzialità. Questo mi ha portato a una scrittura personale, nata dalla scuola delle mie numerose letture, ma anche dal sincero riconoscere quanto lungo possa essere il proprio passo.
Leggendo “Le nebbie di Vraibourg” mi sono completamente immersa nell’atmosfera gotica che avvolge il mistero del Castello della Guyenne e dei personaggi che vi abitano. Sei appassionata di letteratura gotica? C’è un autore in particolare che ha determinato il tuo approccio a questo genere letterario?
La Letteratura Gotica di stampo settecentesco, romantico sino a quella del Novecento mi ha appassionato in tutte le sue declinazioni. Potrei citare , andando alla mia libreria, autori dai più celebri a quelli di nicchia  che ho amato e che mi hanno fatto tremare. Tra di loro c’è una  grande Signora del Novecento che mi ha ispirato: Dafne  du Maurier. Personalmente ritengo il suo lavoro gotico, come si può vedere nel suo romanzo più famoso “Rebecca la prima moglie”: il castello, i segreti, l’abile gioco di manipolazione psicologica, portano ad uno stato di tensione che, pur non presentando componenti surreali, sono propri dell’anima nera del Gotico. Poi ci sono i suoi bellissimi racconti: “ Non voltarti ” , “Monte Verità“ , “Il melo“ , “Il piccolo fotografo“ , “L’alibi“ , dove la paura s’ingigantisce in forme inaspettate, surreali e magnetiche, predette da una vecchia indovina o nascoste sulla vetta di un’ impenetrabile montagna. Infine nel romanzo “ Il capro espiatorio “ la realtà della vita dei personaggi, abitanti di un castello francese, è abilmente tagliata in mille sfaccettature che portano il lettore a riflettere sulla natura umana.  Per questo amo Dafne du Maurier: una grande scrittrice, una signora della tensione e dell’insinuazione, maestra nel presentare le maschere della realtà.
I personaggi che popolano il tuo romanzo sono molto ben delineati. Qual è stato quello più complicato da descrivere e in un certo senso da ‘animare’?
E’ stato Etienne.
Ho cercato di rendere credibile sia la sua ingenuità iniziale sia il bisogno di affetto e stabilità che lo immobilizzano in uno schema prestabilito da altri. Mentre scrivevo mi dicevo: “io farei proprio diversamente“ . Ma io non sono in miei personaggi. Pensavo alla sua infanzia,  al suo forte desiderio di stabilità affettiva e anche al contesto temporale in cui viveva. E’ forse il personaggio  per me più difficile da giudicare : avrei voluto da lui più forza, più durezza. Ma Etienne non è così. Non potevo fare diversamente.
Durante la costruzione dell’intreccio narrativo, c’è stato un momento in cui ti sei ritrovata a dover tornare sui tuoi passi per poter garantire al lettore il finale decisamente inaspettato?
Fortunatamente no. Ho cercato di creare con cura un’ “impalcatura“ narrativa che sostenesse bene il gioco in maschera dei personaggi. Sin dal principio ho avuto chiara la fine, o meglio, è proprio dalla fine che ho ricostruito ogni singolo passo della storia. Una tela tessuta a ritroso, ma così ho evitato i nodi.
Cosa vuol dire per te scrivere?
Scrivere è per me avere una seconda vita, quella circolare delle parole. E’ costruire una nuova realtà, ma anche trasporla su carta seguendo non le tue leggi, ma le sue. E’ conoscere intimamente ciascun personaggio e guardarlo fino a renderti conto che anche lui guarda te e che, anche se tu lo hai creato, non ne conosci il più profondo segreto. E’ costanza, esercizio, disciplina, ma soprattutto necessità.
Tre aggettivi per descrivere “Le nebbie di Vraibourg”.
Ambiguo
Ironico
Vendicativo