“Scongela l’arrosto”, Chronicalibri intervista Giovanni Battista Odone

Luigi Scarcelli
PARMA
– Passioni, famiglia, quotidiano e legami sono alcuni degli ingredienti di “Scongela l’arrosto”, il libro di Giovanni Battista Odone pubblicato da Lupo Editore. Dopo aver recensito il romanzo Chronicalibri ha intervistato l’autore per scoprire come comincia un’esperienza narrativa come “Scongela l’arrosto”.

 

“Scongela l’arrosto” è la tua prima esperienza narrativa; come è nato questo libro?

Il libro è nato da una mia proiezione nel futuro: ho immaginato come, subendo passivamente i più banali accidenti della vita, senza tener conto dei possibili accadimenti tragici, sarei potuto diventare a distanza di vent’anni. Un esercizio utile per riflettere sul proprio presente: giocare con l’ipotesi del proprio futuro.

 

Famiglia, umori, amori e cambiamenti: perché hai scelto questo tipo di storia?

Perché in un epoca in cui ci raccontano che siamo soli, individui persi alla ricerca di relazioni, dimentichiamo troppo facilmente che ciò che siamo e diventiamo discende ancora ed inevitabilmente dal nucleo famigliare in cui cresciamo: una microsocietà che ci segnerà per sempre, nei ricordi come nella personalità.

 

Ci sono momenti o persone della tua vita che hanno ispirato “Scongela l’arrosto”?

Guardando adesso al periodo in cui scrissi questo romanzo, posso dire che fu un momento di accelerazione della mia personale crescita. Devo ammettere che la vicenda narrata, misto di fantasia e realtà, è punteggiata di episodi, persone ed oggetti che restano nella mia memoria come compagni di viaggio.

Il tuo è un romanzo incentrato su alcune tematiche forti, tra queste la famiglia. Allora sorge quasi spontanea la domanda: secondo te la creazione di una famiglia è la fine della passione di una coppia o solo una fase di maturità che spesso viene gestita inconsapevolmente?

La famiglia è come tu decidi che sia. Diventa come tu vuoi che diventi. Certo, non tutti gli accadimenti della vita dipendono dalla tua volontà, ma il raccolto di domani dipenda dalla semina di oggi. Per chi decide di intraprendere un “viaggio nella famiglia” sarebbe fondamentale chiedersi se la semina che si vuole sia la fine della passione, una fase di maturità gestita inconsapevolmente, o qualcosa di più gioioso.

 

Giulio e Lara hanno due caratteri completamente diversi, i classici due opposti che si attraggono. Ma l’attrazione può durare?

L’attrazione è un crinale da percorrere godendo del panorama: di tanto in tanto si scivola giù. Ma è così avvincente risalire verso il crinale dell’attrazione per la donna che ami, che vale la fatica e lo sforzo tornare su. Per godere nuovamente, ancora una volta, del panorama.

 

Personaggio cruciale del libro è Sara, figlia di Lara e Giulio, che nel romanzo assume diversi ruoli. Come hai costruito questo personaggio e cosa rappresenta, è una semplice spettatrice, una complice o una vittima?

Sara era nata come un contorno: un’appendice della strana coppia di adulti. Solo successivamente è diventata voce narrante e punto di vista preponderante nella vicenda. Tragicamente si trova a scoprire il vero volto del padre, capendo come questo è uscito sconfitto dal rapporto con la donna della sua vita, senza nemmeno avere la forza di abbandonare la partita.

 

C’è un autore che pensi abbia influenzato il tuo modo di scrivere o a cui ti sei ispirato?

Come ho raccontato al mio Prof. Di Italiano dei tempi del Liceo, i toni del mio romanzo volevano essere ispirati da Raymond Carver, con la tragicità di gesti semplici o avvenimenti monotoni: ma la passione per il racconto della vita mi ha fatto aggiungere in diversi brani qualche colore in più.

“L’horror è un contenitore che può più di altri toccare corde essenziali dell’animo umano”: ChronicaLibri intervista Claudio Vergnani

Michael Dialley
AOSTA – Un viaggio particolare in un’Italia popolata da zombie: questo il contesto del nuovo romanzo di Claudio Vergnani, “I vivi, i morti e gli altri”, uscito da poco per la Gargoyle Books.
Tinte fosche, luoghi misteriosi e rumori sinistri provocati da quelli che sembravano morti, sono invece gli ingredienti che tengono il lettore vigile e attento a tutti i dettagli.
ChronicaLibri ha intervistato l’autore per cercare di capire cosa c’è dietro questo romanzo e per dar voce a chi ha dato la luce a quest’avvincente storia.

 

Ha scritto una saga di vampiri, prima de “I vivi, i morti e gli altri”: che cosa l’ha avvicinata agli zombie? Come mai ha incentrato il nuovo romanzo su queste creature?
Né i vampiri né gli zombi hanno molta importanza per me: mi servivano solo per creare uno sfondo horror conosciuto dove poter raccontare soprattutto altro.

“Ritengo che l’horror sia un contenitore che, se usato adeguatamente, può più di altri toccare corde essenziali dell’animo umano”: queste le parole che ha usato in un’intervista per definire il genere horror.

 

Nel suo nuovo romanzo emerge la fragilità del protagonista, Oprandi, che viene quasi schiacciato dalla realtà, dalla società composta da cannibali: è questo, forse, un ritratto dell’uomo odierno e del mondo reale, trasposto ed enfatizzato poi nella realtà horror?
Di solito sfuggo le metafore. Spesso sono banali o ambigue. Ma certamente Oprandi si muove in un mondo che è solo un passo avanti al nostro, e infatti lo interpreta lucidamente in tutta la sua miseria, ignoranza, ingiustizia e pericolosità. Paradossalmente, pur essendo un uomo con tutte le carte in regola per crollare definitivamente, l’essere un figlio di questi nostri tempi gli sarà d’aiuto per non smarrire definitivamente sé stesso nel momento della catastrofe e dell’orrore.

 

Crede che il genere horror possa essere uno strumento utile alle persone per evadere, visto il periodo storico nel quale viviamo oggi?
È difficile da dire. Potrebbe sembrare di sì, ma i risultati delle vendite tendono a dire il contrario. Forse i tempi senza speranza in cui viviamo spingono maggiormente il lettore verso il fantasy, dove i buoni soffrono ma poi vincono, i cattivi vengono umiliati e sconfitti, e mille creature soprannaturali ma perbene ispirano al lettore la possibilità di un mondo magari ancora sconosciuto, ma decisamente migliore e più giusto di quello reale.

 

Una persona mi ha detto “leggi e rilassa la mente”, ed effettivamente la lettura ha, su di me, quest’effetto; a lei in che modo la lettura aiuta? Perché consiglierebbe alle persone di leggere un buon libro?
Me l’avesse domandato anche solo due anni fa mi sarei detto d’accordo, e avrei spiegato il perché. Oggi, le confesso, non lo so più. Qui in Italia la maggioranza dei lettori non legge, si limita a scorrere con gli occhi un insieme di parole che altri hanno scelto per loro. Non acquistano un libro, acquistano un autore, per pigrizia, per abitudine, per sentirsi rassicurati. Forse un giorno la gente tornerà a leggere, e allora, chi lo sa, potrò rispondere diversamente alla sua domanda, se le parrà ancora d’attualità.

 

I lettori, ormai, la conoscono nel genere horror: in quale altro genere le piacerebbe impegnarsi? Sta già lavorando a qualche altro progetto?
È uscito in questi giorni un thriller, Per ironia della morte, dove cerco ancora una volta di inserirmi in un genere, con amore e rispetto delle sue strutture classiche, e per poterlo poi rinnovare dall’interno con il mio stile considerato drammatico, profondo e ironico nello stesso tempo.

 

Come scrittore, quali sono le tre parole che preferisce?
Me ne basta una: quella giusta, schietta e sincera che arriva dritta al cuore e alla mente di un lettore attento e intelligente. Quella parola è tutto. Perché, come dico sempre, un romanzo è solo un’opera parziale, al quale solo un lettore attento e ricettivo può dare il soffio della vita, portandolo con sé nel suo mondo, arricchendolo con la sua partecipazione, le sue considerazioni e, perché no, con il suo amore. A mio parere è tutto qui, tutto quanto qui.

Come nasce un romanzo-favola : ChrL intervista Hélène Battaglia

ROMA -Hélène Battaglia è una giornalista di moda, blogger e, da qualche mese, anche scrittrice. Infatti, Hélène somiglia molto a Hope, la protagonista del suo primo libro,  “Appuntamento al Ritz”. Il romanzo, pubblicato da Dalai Editore, ha le sfumature della favola. Per conoscere i retroscena del libro e la sua autrice, ChronicaLibri ha intervistato Hélène Battaglia.

 

Hélène Battaglia, da giornalista a scrittrice: “Appuntamento al Ritz” è il tuo primo libro, come è nato?
“Appuntamento al Ritz” è un sogno diventato infine realtà dopo qualche anno di attesa, archiviato in un file sul mio desktop. Da ragazzina sognavo di fare la giornalista. E da giornalista ho sempre sognato di esordire, un giorno, come scrittrice. Devo ammettere che questo passaggio si è fatto in modo del tutto naturale. E poi è arrivato quel famoso giorno in cui ho sentito che era giunto per me l’ora di uscire allo scoperto con il mio primo romanzo. Sono cose che non capitano per caso. Sono più che mai convinta che ognuno di noi debba seguire il proprio istinto e lanciarsi. Prima o poi. L’ho fatto e ne sono orgogliosa. CARPE DIEM.
Il tuo romanzo ha tutti gli ingredienti della favola, ma qual è la ricetta perfetta per un libro che coinvolga il lettore?
Per me, non esiste una ricetta perfetta. Ogni autore ha la sua. « Appuntamento al Ritz » contiene molto sogno e cosi l’ho voluto. Ho sempre amato le favole dall’HAPPY END. Essere riuscita a scriverne una moderna, mi rende assai felice. Non mi definirei di quel tipo di autori dalla scrittura strategica. Non seguo nessun trend. Scrivo con il cuore e le mie storie sono l’unico frutto della mia fantasia e del mio vissuto mixati in modo armonico, credo.
Hope, la protagonista del tuo libro è la versione 2.0 dell’eroina di Truman Capote?
Anche se sono molto lusingata dal paragone, Hope non è Holly. Hope è unica. Un elegante cigno in mezzo alle anatre. Il mio desiderio più grande è che Hope possa un giorno diventare un nuovo modello di femminilità al quale le nuovi generazioni possano aspirare. Una ragazza sincera, romantica, ambiziosa e coraggiosa. Naturalmente bella e sofisticata. Colta e in gamba. Come vorrei tornassero ad essere le ragazze di oggi.
L’ultima pagina del tuo libro ora la attende Vienna e un Natale speciale in compagnia di persone speciali…ma questa è un’altra storia”. Appuntamento al Ritz avrà un seguito?
Se ci sarà un sequel? Certo la favola continua. Non poteva essere altrimenti. La spumeggiante e dolcissima Hope ed i suoi amici torneranno, tra pochi mesi ormai, per nuove strepitose ed intriganti avventure. Non mancate!
Entri il libreria: quali sono i tre libri che scegli?
Bella domanda che mi fai. Ti daro’ i titoli dei tre romanzi che non vedo l’ora di divorare appena ultimata la stesura di questo mio secondo romanzo. Nei mesi in cui scrivo sono infatti e per scelta, in totale astinenza di lettura. Morte a Pemberley di P.D James, L’occhio dello Zar di Sam Eastland e Il tradimento del templare di Franco Cuomo.

 

Quali sono le tre parole che preferisci?
Speranza- amore- sogno.

 

 

ChronicaLibri intervista Corinna Bajocco

Stefano Billi
Roma – ChronicaLibri ha intervistato Corinna Bajocco, autrice del libro “New York. Viaggio nella Grande Mela”. Pubblicato da Polaris, il libro non è solo una guida, è anche l’inizio di un grande viaggio nella metropoli statunitense.

 

 

Come è nato il desiderio di scrivere un libro su New York? 

Dico sempre che la più bella delle routine è comunque sempre una routine. Io per ragioni varie che spaziano dallo studio al lavoro, già da almeno un ventennio ero una aficionada della Grande Mela e la mia vita era scandita da frequenti andirivieni.  Così che mi ero quasi abituata alla città, sembrava non stupirmi più. Poi una mattina, dopo il solito caffè di Starbucks, mi trovo ad osservare una scena di vita comune seduta su una panchina di uno dei tanti community garden dell’East Village e tutto mi è sembrato, ex abrupto, nuovo e diverso. Quel giorno è nata la mia personale e privata New York, quella costruita attorno a me, ai miei avanti e indietro, ai miei amici, alle mie letture, ai libri di altri, alle mie aspettative, al cibo che mi piace mangiare, agli incontri inaspettati, ai volti curiosi,  ai profumi e alle lingue che, pur non essendo genuinamente newyorchesi, per me sono New York. E ho iniziato a pensarla e a scriverla. Qualche mese dopo ero a Firenze a discutere il libro con il mio editore, perché i desideri abbiamo il dovere di realizzarli.

 

Perché un lettore di Chronica Libri dovrebbe assolutamente visitare New York? 

Perché chiunque dovrebbe visitare New York almeno una volta nella vita. Perché con un viaggio se ne fanno in realtà mille. Perché  ad ogni angolo lo attenderebbe una suggestione di pagine che ha amato, di film che ha visto, di piccole scenografie naturali che ha immaginato. Perché il cibo è divino. Perché è incredibilmente veloce, e in continuo cambiamento. Perché è diversa da come ce la immaginiamo prima di arrivare. Perché è marcia, fradicia e affascinante. Perché se fai colazione nell’Upper West, magari mangi seduto allo stesso tavolo di John Berendt, o Yoko Ono.  Perché restituisce la curiosità nelle cose, che un po’ è morta in quest’altra parte del pianeta.

 

Secondo Lei, New York è ancora l’emblema del sogno americano, o sta perdendo la sua magia col tempo?

New York è il posto dove nascono le opportunità.  Certo, c’è la crisi finanziaria. Certo devi lavorare su ritmi tiratissimi che nulla hanno a che fare con la ciclicità del tempo letto alla maniera mediterranea. Certo devi fare il callo ad alcune rigidità dell’uomo americano, e anche ad un po’ di spocchia. Ma se davvero c’è un desiderio da realizzare, quello è il posto dove provarci. Ancora.

 

Qual’è l’aspetto di New York che più l’affascina?

New York è una metropoli, una megalopoli, Gotham. E, come è stato detto di Lei in passato, non una città perfetta, ma un perfetto esempio di città. Eppure questa sua dimensione, dal di dentro, non si percepisce. New York è una trama di villaggi che si intersecano, di lingue che si fondono, di tradizioni che si mescolano e tutto pare tranne che quella proiezione verticale luccicante che affolla l’immaginario del Vecchio Mondo. Di New York mi affascina questa ambivalenza, e le sue crepe. Quelle rughe che se osservate bene sotto ci trovi una città stratificata e meravigliosa.

 

Perché i lettori di Chronica Libri dovrebbero leggere il suo libro?

Ci sono pagine e pagine scritte su New York, e tutte decisamente più autorevoli delle mie. Forse bisognerebbe leggere piuttosto quelle. Però un giorno, un autentico newyorchese di nome Adam Yauch, che era il leader di una band straordinaria (i Beastie Boys), stava bevendo qualcosa in un bar di Brooklyn casualmente seduto al bancone vicino a me. Lo costrinsi ad una breve conversazione, ed ai miei racconti.  Senza conoscerlo, ovviamente. Una mezz’ora dopo mi disse che ero una ficcanaso. Ecco, se a qualcuno dovesse far piacere  leggere una specie di guida turistica scritta da una ficcanaso, allora la mia è quella giusta. E poi sono una appassionata di letteratura, nel libro ne troverete tanta, raccontata proprio negli angoli dove è nata. Infine, se c’è una partenza in programma, prima di fare le valigie, forse fra le mie pagine scoprirete la voglia di un viaggio non preconfezionato.

La Pagina Che Non C’Era, la scrittura arriva in periferia

POZZUOLI  – Sono state due giornate intense di studio. Due giorni in cui discutere, confrontarsi, leggere e scrivere sono diventate l’attività principale di oltre 350 studenti all’interno della III edizione de La Pagina Che Non C’Era. Il progetto, che solo qualche mese fa è stato premiato come migliore attività nazionale per la promozione alla lettura in ambito scolastico dal Ministero e il Centro per il libro e la lettura, nasce da un’idea di Diana Romagnoli e Maria Laura Vanorio, docenti dell’Istituto Pitagora di Pozzuoli. Nella cittadina campana, infatti, si sono dati appuntamento alcuni degli scrittori più interessanti del panorama editoriale italiano: Maurizio de Giovanni, Paola Soriga, Andrea Tarabbia e Andrea Bajani. Per conoscere meglio La Pagina Che Non C’Era e per tirare le somme di questa edizione appena conclusa, abbiamo intervistato Diana Romagnoli.

 

Come e perché nasce un festival letterario a Pozzuoli?
Nasce come un incontro di docenti in una scuola della periferia di una città di provincia. Il rione Tojano, dove sorge l’istituto Pitagora,  è una piccola Scampia senza gli onori della cronaca di quest’ultima e la scuola è una cattedrale nel deserto. Allora, tre anni fa, abbiamo pensato di portare in questo luogo “tosto” la cultura e gli scrittori, ci piaceva l’idea che anche i nostri ragazzi potessero essere protagonisti e fruitori in prima linea di un mondo culturale che spesso viene tagliato fuori dalla vita di periferia.

 

Che ruolo hanno, allora, i ragazzi nel progetto La Pagina Che Non C’Era?
I ragazzi decidono spontaneamente se partecipare e quale ruolo ricoprire; il nostro progetto, poi, ha tante sfaccettature e permette di impegnarsi in vario modo: c’è il concorso nazionale di scrittura quindi è nato un comitato di accoglienza ospitalità affinché i ragazzi del luogo ospitassero i loro coetanei provenienti da altre parti d’Italia.  Inoltre, gli studenti si danno da fare come guide, nel servizio d’ordine e con la documentazione video. Noi docenti e organizzatori per due giorni ci siamo fidati di loro e loro ci hanno dimostrato responsabilità e partecipazione.

 

La prima parte della III edizione de La Pagina Che Non C’Era ha appena chiuso i battenti, quali sono i risultati di quest’anno?
Sicuramente è un po’ presto per tirare le somme ma si può certamente affermare che è stata un’avventura coinvolgente, per gli studenti, per i docenti e per gli autori intervenuti. Soprattutto per questi ultimi è bello vedere come nel gioco letterario – un esercizio in cui i ragazzi devono scegliere un libro e riproporre, tenendo conto dello stile dell’autore, un nuovo finale, un nuovo incipit o solamente un nuovo capitolo del romanzo –  i ragazzi siano determinati e presi dalle trame della storia e dall’allegria della competizione. Nei due giorni di studio possiamo dire di aver coinvolto circa 350 studenti in seminari, corsi di scrittura e tavole rotonde per la didattica dei docenti.

 

E gli scrittori cosa pensano quando con questo progetto tornano tra i banchi di scuola?
In questi tre anni si sono avvicendati diversi scrittori e ognuno di loro ha dato molto a La Pagina Che Non C’Era e si è arricchito dal contatto con i ragazzi. Loro, questi ultimi, hanno capito attraverso i libri e il confronto con gli autori che le emozioni si possono descrivere in maniera profonda. Hanno capito che per stato d’animo si intende molto di più di una risata fragorosa o del pianto. Quest’anno, grazie alle parole di Maurizio de Giovanni, Paola Soriga, Andrea Tarabbia e Andrea Bajani hanno scoperto che anche il dolore più profondo si può descrivere.

 

Si può pensare a La Pagina Che Non C’Era in versione itinerante?
Abbiamo provato questa formula il primo anno, volendo diffondere nelle scuole della Campania il nostro progetto anche per sopperire alla chiusura nel 2010 di Galassia Gunterberg. Ora, invece di portare il nostro progetto in giro per la regione, vorremmo che Pozzuoli e il rione Tojano diventassero un polo, un luogo geografico nel quale raccogliere e far crescere la cultura. Vorremmo, in questo modo, che anche in Italia i ragazzi diventassero protagonisti di grande evento letterario.

Irene Vella: da amiche a stronzamiche con il sorriso

Giulia Siena
ROMA
Irene Vella è un’esplosione di vitalità, colore, idee e linguaggio. La sua ottima inventiva ha dato vita a “Credevo fosse un’amica e invece era una stronza”, un manuale di sopravvivenza alle stronzamiche. Ma questo libro pubblicato da Laurana è molto di più: è un racconto divertente, amaro, disilluso e speranzoso sui rapporti umani e l’affetto. Ecco a voi l’intervista di ChronicaLibri alla vulcanica autrice.

 

 

Da “Sex and the Cake” a “Credevo fosse un’amica e invece era una stronza”, come mai sei uscita dalla cucina per affrontare a muso duro le stronze?
Diciamo la verità: è che forse in cucina non ci sono mai entrata 🙂 di quel libro io ho curato le storie, mentre la parte dedicata alle torte è stata affidata ad una cake designer, quindi potrei direi che ho fatto da assaggiatrice. Ma è stato proprio dopo aver finito di scrivere quel libro che ho sentito forte il richiamo delle stronzamiche, e di mettere nero su bianco le mie esperienze e quelle di mia figlia, nella speranza che un manuale di difesa potesse servire alle altre per evitare di ripetere i nostri errori.

 

Le stronzamiche sono parte di noi, ci seguono fin dall’infanzia ed è proprio durante questo delicato periodo di vita che possono prendere il sopravvento. Tu scrivi questo “manuale di difesa” anche per tutelare i propri figli, raccontaci un po’.
Diciamo che l’idea mi è venuta proprio perchè ne ho incontrate talmente tante che il libro si è praticamente scritto da solo, e poi ogni volta che parlavo di questa mia idea a qualche amica (quelle vere però) mi rispondeva così: “ ma dai un libro sulle stronzamiche, spettacolo. Vuoi che ti racconti della mia? Successivamente è capitato che fosse la mia bimba a cadere nelle mani delle piccole stronzamiche ed allora è scattata la voglia di riscatto che si è tradotta in questo libro. Riprendendo un paragrafo “Ma la verità (proprio quella vera vera eh) è che la voglia di scrivere questo piccolo manuale di sopravvivenza mi è venuta quando, ho visto mia figlia, oggi dodicenne, cadere nelle mani di piccole stronzamiche. Sì, perché questo genere femminile, esiste anche in miniatura, è dentro di loro, è più forte di loro, non importa quanto amore ti professeranno, ad un certo punto la voglia di sparlare di te con il gruppo delle seguaci sarà troppo forte, e si mostreranno per quello che realmente sono. Delle api regine in cerca del consenso della folla, sia esso composto da seienni o da dodicenni; il palco è il loro regno, lo scherno il loro strumento, la maldicenza la loro arma.” Ma la vendetta è arrivata, e riprendendo una recensione fatta dall’amica scrittrice Lucia Giulia Picchio “Un regolamento di conti in piena regola e un monito a tutte le stronzamiche ( e le loro mamme) in circolazione: prima di fare le stronze accertatevi che la vostra vittima non abbia una mamma che faccia la scrittrice. Potreste trasformarvi ( in senso metaforico, s’intende) nel prossimo cadavere che vedremo scorrere, sedute sull’orlo dal fiume, con il suo prossimo libro in mano.”

 

Stronzamiche a scuola, in famiglia, in palestra, a lavoro, tra le altre mamme a scuola e in fila al supermercato sotto forma di curate vecchiette stronze. Quali sono le stronzamiche peggiori?
Le stronzamiche peggiori sono di sicuro quelle che tu credevi fossero amiche, e invece erano stronze. Sone le buone rassicuranti, come si dice in toscano “Le acque chete” che sono poi quelle che rompono i ponti, insomma le gatte morte. Quelle che in tutti i laghi e in tutti i luoghi vorranno fotterti quello che è tuo, fidanzato, amici, lavoro, all togheter now.
Ma come si vince l’impulso di strangolare le stronzamiche sul lavoro?
Magari proprio non vincendolo e lasciandosi andare, perchè bisogna essere per forza buone? Se ci accorgiamo che l’amica è una stronza possiamo sempre batterla, diventando stronze di rimando. E ricordatevi sempre il detto delle nonne: non c’è niente di più pericoloso di un buono quando diventa cattivo, lei non si aspetterà una vostra reazione, così voi l’avrete fottuta su tutti i piani.
5. Si può combattere una stronzamica con le sue stesse armi?
Certo che sì, ma il problema è che noi buone e coglione rimaniamo tali anche quando ci vendichiamo, e alla fine siamo pure capaci di essere dispiaciute della nostra vittoria, quindi direi che per vincere davvero meglio isolarle, le peggiori nemiche delle stronzamiche sono loro stesse, basterà lasciarle da sole per un po’ e si autodistruggeranno, come nei migliori film di JAMES Bond.

Donne buone, solari e spontanee si nasce, stronze si può diventare. Come diventare furbe e non farsi fregare?
Secondo me è una questione di sopravvivenza, arriva un certo punto nella vita in cui dopo innumerevoli batoste per forza di cose le antenne antistronze si alzeranno da sole, il rischio però sarà quello di lasciarsi prendere la mano e fare una selezione all’ingresso talmente forte da rimanere sole. Il consiglio? Rimanere se stesse, sempre, le stronzamiche vinceranno una battaglia, noi buone coglione vinceremo la guerra della vita. Tanto come dice la legge di Murphy “ se qualcosa può andare male, lo farà”, ma io sono profondamente convinta del fatto che un’anima pura vince sempre, quindi è solo questione di tempo.

Tutte le stronze vengono per nuocere?
Assolutamente no. Altrimenti io questo libro non l’avrei mai scritto. Diciamo che ci sono dolori che mi sarei e avrei voluto risparmiare a mia figlia, ma cosa sarebbe la vita senza un po’ di stronzamiche? A volte servono a capire quanto si tenga al proprio uomo, al proprio lavoro e alle vere amicizie, quindi riscriverei il detto “una stronza al giorno leva il medico di torno” (ora magari non proprio al giorno, ma una ogni tanto può fare anche bene alla proprio autostima, più riuscirai a schiacciarle, più sarai gratificata:)

Con tutto questo pullulare di persone false, come si fa a riconoscere la vera amicizia e fidarsi degli altri senza cadere nelle trappole tese dalle stronzamiche?
Ti rispondo con uno status che ho messo qualche giorno fa su facebook, proprio dopo essere stata con alcune di quelle che reputo le amiche di tutta una vita, quelle buone. “Le vere amiche sono quelle che prima truccano te, e poi si preparano loro, sono quelle che ti fanno provare milioni di vestiti, poi ti guardano e ti dicono la verità “questo è più figo, ma quello ti fa più secca”, sono quelle che non hanno paura di ascoltare, ma non hanno nemmeno paura di dire quello che pensano, perché le vere amiche fanno questo, dicono in faccia quello che pensano. Le vere amiche non hanno bisogno di tante parole, né di tanti sorrisi, spesso il silenzio parla per loro, così come i loro occhi che sono un libro aperto. Le vere amiche a volte abitano lontano e non si sentono per settimane, mesi, ma tu sai che basterà alzare un telefono, e se sarà necessario, loro si precipiteranno da te. Le vere amiche sono tesori preziosi, e sono convinta che siano gli altri amori della nostra vita. Una vita senza amiche è come una giornata senza sole, triste e buia.”

Progetti futuri?
Sto lavorando al prossimo libro, che avrà come soggetto mio figlio Gabriele detto lo gnomo, in versione naturalmente ironica, cinica e pungente, con un titolo che nulla avrà da invidiare a questo.
Poi approfitto di questa intervista per dire che sto cercando collaborazioni (naturalmente retribuite) e per dare vita ad una rubrica visto le innumerevoli richieste di aiuto e di ringraziamenti da parte di tutte le ragazzine vessate dalle bulle, vorrei parlare delle donne, per ridere sorridere e riflettere tutte insieme.
Le tre parole che preferisci?
Adoro, stronza e ti amo.
La prima è un consenso totale, quando mi piace da morire una cosa, una persona, un modo di essere io “Adoro”, e si capisce che mi prende da dentro.
Per la seconda, Come diceva Funari “ se una è stronza non glie poi dì sciocchina, gli hai da dì stronza”, la trova una parola quasi onomatopeica e tanto liberatoria, quando mi arrabbio è l’insulto che uso di più perchè efficace ed immediato.
La terza: Far capire a chi ti sta vicino che lo ami mi dà gioia, io con la mia famiglia sono così, ai miei figli glielo dico in continuazione, tipo “mi passi l’acqua, te l’ho detto oggi che ti amo?” loro scoppiano a ridere e mi dicono “dai mamma bastaaa”, ma io so che sono felici.
Non smetterò mai di farli sentire amati, penso che un bambino amato sia un bambino felice, e diventerà un adulto capace di dare amore e di innamorarsi. L’altro giorno mia figlia ridendo mi ha detto “mamma babbo ma la smettete di baciarvi di nascosto in cucina? Sembrate due fidanzatini”, ma era felice perchè sa che ci amiamo.
C’è un ‘altra parola che mi piace dire, è Lui, diminutivo di Luigi, il mio maritino mister, la metà della mia mela.
“Luiiiiii te l’ho detto quanto ti amo oggi?”.

 

Irene Vella è anche su FB.

Librerie: intervista a Paolo Cremisini, Libreria Di Cave

Giulia Siena
ROMA
– Da oltre 100 anni la Libreria Di Cave (via Santa Caterina da Siena, 65) è l’indirizzo storico dei libri antichi e rari. Fondata nel 1908 da Salvatore Di Cave, oggi la libreria è gestita da Paolo Cremisini (nella foto in basso) e conta oltre 12.000 volumi. Qui si possono trovare uscite recenti di seconda mano (scontati al 50%), saggi, romanzi e un’ampia selezione di libri su Roma. In questa libreria nel cuore di Roma la letteratura conserva ancora il suo senso.

 

Perché si entra in una libreria come questa?
Perché qui si trovano libri di cui non si parla, magari qui il lettore trova qualcosa di diverso. Si entra per curiosità e poi ci si ferma senza fare caso al tempo che passa. Perché ogni tanto bisogna fermarsi, riflettere: un libro scritto bene ti aiuta a stare da solo, stimola la fantasia e l’intelligenza perché con un libro io sto dove c’è l’azione. È questa la forza della letteratura.
Qual è il cliente tipo della libreria Di Cave?
In questa libreria arrivano lettori di tutti i tipi, c’è anche chi compra un libro in base al rumore che fa la carta sfogliandolo! Ma il cliente tipo è il lettore che frequenta la libreria Di Cave da molto tempo, ha una media di 50 anni ed è un cliente affezionato perché sa che qui può trovare libri antichi e di determinati generi: abbiamo essenzialmente saggistica e molti romanzi classici, un’ampia sezione di libri sulla storia di Roma, moltissimi volumi in lingua francese, poi filosofia, storia e arte (fino all’Ottocento). I clienti della fascia tra i 20 e i 30 anni sono solo il 5% del totale, mentre riusciamo ad arrivare a diversi lettori attraverso la nostra rete di vendita per corrispondenza.
Quanto influiscono le logiche di mercato nelle vendite?
Forse dirò una cosa banale ma penso che i classici non muoiano mai! Poi, questo è un osservatorio particolare perché, essendo una libreria molto specializzata, il cliente viene qui già con le idee chiare su quello che potrà trovare. E qui la narrativa rimane particolarmente invenduta secondo una logica di causa/effetto: io da libraio compro classici perché si vendono e altre proposte editoriali che possiamo benissimo definire classici, come Camilleri.
In base a cosa lei sceglie cosa acquistare e quindi proporre al suo lettore?
Io, da lettore, scelgo in base alla mia sensibilità oppure seleziono in base al titolo, alla casa editrice e all’autore. Naturalmente, in una libreria particolarmente settoriale come questa, bisogna fare delle scelte perché il lettore che entra qui non è disposto a comprare tutto ciò che viene pubblicato dal mercato editoriale. Nelle librerie, poi, la qualità dei libri delle piccole e medie case editrici non riesce ad emergere perché c’è un problema di distribuzione, alcuni libri arrivano al lettore solo se quest’ultimo è già indirizzato verso quei titoli.
In un’epoca in cui il libraio è sempre più raro e la figura viene assorbita dai commessi delle grosse catene, Lei come vive questo ruolo?
Io penso che il libraio debba essere consulente e trasmettere al lettore quello che sa. Spesso in una realtà come questa il libraio conosce i suoi clienti, conosce quello che amano leggere, sa quello che comprano e sa cosa ancora potrebbero acquistare, quindi il rapporto tra le due parti è molto diretto. In una grande catena un rapporto così diretto è difficile e molte volte dettato dalle dinamiche commerciali.
C’è un consiglio che si sentirebbe di dare alle librerie indipendenti?
Il mio suggerimento è quello di specializzarsi; se una libreria vuole sopravvivere deve trovare la sua nicchia di clienti e assicurare loro titoli che nel settore prescelto manterranno nel tempo. Poi è molto importante avere un sito internet efficiente e fare anche vendite per corrispondenza.
Un libro che consiglia ai lettori di ChronicaLibri?
Deve sapere che per mia formazione e provenienza sono molto legato come lettore a Georges Simenon e qui, in questa libreria, si riunisce spesso un “circolo simenoniano”. Ho letto tutte le opere dello scrittore belga, tanto che i miei ricordi legati alla Francia si intrecciano alle ambientazioni dei libri di Simenon e io non riesco più a discernere quello che ho vissuto da quello che ho immaginato leggendo. Dopo aver letto Simenon è quasi impossibile non affezionarsi all’autore e ai suoi protagonisti, in questo caso Marcel. Marcel è infatti il protagonista de “Il Treno”, una delle opere più intense dello scrittore belga. Siamo nel 1939 in un periodo sospeso in cui la vita umana non ha più una propria consapevolezza. La bellezza di questo romanzo sta nell’eccellente descrizione che l’autore fa dello straniamento di Marcel.

 

 

INFO
Libreria Di Cave
Al libro ritrovato di Paolo Cremisini

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“È più sensato mantenere separate le valutazioni sull’arte e sull’individuo”: ChronicaLibri intervista Nicola Montenz.

Giulio Gasperini
AOSTA – L’esperienza di Montenz dimostra chiaramente come la musica sia cultura e come la cultura sia interrelazione di soggetti creanti e ammiranti. La sua storia del rapporto tra Ludwig di Baviera e Wagner è un intenso reportage letterario, che si anima a partire dalla fisicità della scrittura e dalla concretezza dell’oggetto veicolare. Su ChronicaLibri è già stato recensito il testo, “Parsifal e l’Incantatore” (Archinto); adesso non possiamo che lasciare la parola all’autore.

 

Mi avvicino a te e al tuo lavoro con un disagio profondo. È il disagio di chi sa di non sapere. La Baviera, Ludwig, Wagner soprattutto, sono nomi e situazioni, opere e maschere, che mi sono, sinceramente, remote. Farò delle domande che nascono, come dire, dalle mie impressioni più genuine, più dirette. Dal tuo racconto, ad esempio, si potrebbe evincere che Ludwig e Wagner siano stati due uomini in fuga dalla realtà. Ma è proprio così? Fuggirono veramente la realtà contingente e finirono per cadere intrappolati in una non-realtà?
Certamente la sensazione è giusta: entrambi, per ragioni molto diverse, furono esseri umani in fuga dal mondo circostante. Wagner fuggiva da un’Europa che non lo riconosceva nei termini in cui lui avrebbe voluto essere riconosciuto: ossia come il più grande compositore e pensatore della sua epoca; per giunta, la fuga divenne, a partire almeno dal 1849, la dimensione reale della sua vita, in quanto il compositore, vuoi per ragioni politiche, vuoi – molto più spesso – per motivi finanziari, ebbe, fino almeno al 1872, molti nemici e moltri spettri da cui fuggire. Per Ludwig il problema fu diverso: egli era un disadattato; dapprima, cercò di costruirsi mondi immaginari – operistici, per esempio, o libreschi – in cui nascondere il proprio malessere esistenziale e il proprio orrore per ciò che gli stava intorno; in seguito, in modo sistematico e patologico, prese a fuggire non soltanto la realtà che lo circondava, e in cui non si riconosceva, ma persino i più normali rapporti umani (per esempio quelli con la famiglia, o con la servitù), invertendo, negli ultimi anni di vita, addirittura la notte e il giorno, in modo da poter vivere nelle tenebre, rassicuranti perché nascondevano ciò che non voleva vedere.

 

Due personalità, io le ho definite prendendo in prestito (forse in maniera impropria), borderline. Entrambi avevano qualcosa di sé stessi da nascondere, o da fuggire; o da ignorare, appunto. Noi plasmiamo questi personaggi attraverso la lettura della tua narrazione, ma tu li hai “tradotti”, ovvero tratti-fuori, dalle testimonianze che loro stessi ci hanno lasciato, da un sottile filo d’inchiostro che, in tempi remoti, monitorava l’intimo umano e ne lasciava una traccia indelebile, perdurante. Cosa significa studiare le persone dalle lettere, ovvero dalle tracce che, loro stessi, consapevoli o meno, hanno seminato e disperso?
Certamente si tratta di due personalità borderline, per ragioni diverse: l’uno, Ludwig, schiacciato da complessi di inferiorità tramutatisi, con il tempo, nel loro contrario e in una nutrita serie di disturbi psichici; l’altro, Wagner, abbacinato da un complesso di superiorità talmente esagerato da sfociare, non di rado, nel grottesco, nel tirannismo familiare, nella propensione verso un pangermanesimo ossessivo e follemente antisemita, da cui si avrebbero tratto linfa vitale, più tardi, Chamberlain, Rosenberg e Hitler. Il lavoro di studio e analisi dei carteggi e dei diari di entrambi ha significato per me, in qualche modo, mettere alla prova in forma diversa le competenze e l’attitudine alla ricerca che, in un altro campo, quello della filologia classica, esercito tutti i giorni; d’altro canto, un simile lavoro mi ha portato necessariamente a toccare con mano il fatto che ogni idolo, ogni leggenda, ogni mito che popola la nostra mente alterna attimi di grandezza suprema a lunghe ore, giornate e anche anni di pochezza, di ombra, di miseria, di malvagità o di follia; e questo è naturale, perché dell’idolo noi siamo abituati a vedere solo il lato su cui si proietta la luce – ed è quello che lui vuole mostrarci -; tuttavia, avere il coraggio di sprofondare in esso, fino a coglierne le più minute brutture, può costituire anche un utile esercizio critico: qualcosa di cui oggi si sente la disperata mancanza, abituati come siamo a rimuovere le sfumature, a gridare perennemente al miracolo, a idolatrare senza mai trovare la forza (o il coraggio?) di interrogarci.

 

Sarebbe anche il modo per calibrare meglio gli animi umani e poter capire che, al di là del genio, c’è solo l’uomo a costituire l’impalcatura. E il tuo testo è denso di umanità, nella declinazione più terrena: dispetti, ripicche, sotterfugi, ricatti. Tutti atti (e atteggiamenti) che ben poco penseremmo adattabili all’arte ma che sono invece costituenti dell’umano. Quanto c’è di arte, in questo tuo libro? E quanto c’è di narrazione dell’umano? Il prodotto finale è stato un tuo mirato proposito o te lo sei visto fiorire sotto le mani, scoperta dopo scoperta?
Il fatto è che, quando pensiamo all’arte, spesso dimentichiamo che a crearla sono appunto esseri umani, il cui talento, la cui tecnica e le cui sensibilità professionali possono senz’altro essere straordinari, ma non implicano per forza una corrispondente grandezza morale. Il rigore e la dirittura di un Mahler, tanto per fare un esempio, possono a buon diritto essere considerati eccezioni, in un campo, come quello della musica, in cui spesso è la vanità ad avere il sopravvento, e la grettezza non è un sentimento così lontano dagli animi quanto si vorrebbe credere. Per questo anche il nostro giudizio deve farsi sfumato, ed evitare sia l’idolatria acritica, sia il facile atteggiamento del censore; mi pare invece più sensato mantenere separate le valutazioni sull’arte e sull’individuo che tale arte ha prodotto. Il caso di Wagner, al riguardo, rappresenta in qualche modo un’anomalia, nel senso che la discrepanza tra genio artistico e pochezza umana appare davvero ai limiti dell’umanamente concepibile; pure, questo non deve impedirci di credere che anche in lui si nascondesse un mondo interiore di estrema profondità: come spiegare, altrimenti, la bellezza – talora inarrivabile – della sua musica? Pura applicazione di tecniche acquisite? Naturalmente no – anche perché la sua formazione fu desultoria e certamente lontana dalla completezza accademica. È invece più ragionevole pensare che la musica fosse – insieme al complesso e ristretto groviglio dei suoi veri legami affettivi – la dimensione privilegiata in cui il suo intimo sapeva esprimersi appieno, libero dalle costrizioni della verbalizzazione del pensiero e della dialettica, e momentaneamente separato dalle quotidiane necessità di confronto con gli altri esseri umani. Per rispondere alla seconda parte della domanda, direi che il mio libro cerca di porre in luce i legami tra la vita e l’arte senza insistere con eccessiva minuzia sul secondo aspetto, che è di pertinenza dei musicologi, e sul quale molto (troppo?) è già stato scritto; il mio scopo, del resto, era quello di scrivere un saggio biografico, e se pure la produzione artistica vi svolge un ruolo fondamentale, è altrettanto vero che l’aspetto preponderante di un tale genere letterario è la vita stessa dei soggetti. La forma finale del testo è l’esito di una pianificazione preliminare che segue in modo fedele l’andamento diacronico dell’amicizia tra Wagner e Ludwig, che, nel complesso dei suoi colpi di teatro, scandali, litigi e fughe fu straordinariamente lineare. Il lavoro sui documenti, che è stato lungo, ma anche assai stimolante, mi ha permesso di ricostruire nel dettaglio vicende magari sfumate dalle biografie ufficiali, di approfondire i ruoli svolti da alcuni personaggi, e di fornire, in qualche modo, la mia versione del “romanzo”, cercando sempre di non perdere di vista lo scopo del mio lavoro… ma anche il divertimento per certi episodi, in genere oscurati, per i quali soltanto il sostegno documentario certifica che non sono il frutto di una fantasia malata!

 

E quali sono alcuni di questi “episodi oscurati” che ti hanno particolarmente colpito? Che tipo di influenza possono aver avuto in un rapporto che – correggimi se sbaglio – potremmo definire un ultimo esempio di mecenatismo cortigiano, un po’ anomalo, forse, in una società nella quale oramai tale atteggiamento culturale era oramai inattuabile e sepolto?
Molti sono gli episodi “dimenticati” dai biografi ufficiali di Wagner, che almeno fino agli anni ’60 del XX secolo hanno cercato di evitare lo spinoso argomento della disinvoltura con cui il compositore di comportò nei confronti della moglie: solo per fare un esempio, quando ella morì, Wagner affermò di non poter assistere al funerale a causa di un’infiammazione a un dito! Salvo poi svenire, di lì a poco, quando venne a sapere della morte del cane Pohl. L’intrigo con Malvina Schnorr e il fantasma di suo marito, poi, è talmente incredibile da sembrare inventato di sana pianta, eppure la documentazione che lo sostiene è abbondante e inequivocabile. E persino le furenti schermaglie con il re, a proposito delle anteprime monacensi dell’Oro del Reno e della Walkyria sono state fatte passare come esiti dei capricci di Ludwig, mentre in realtà sono il frutto della prepotenza di Wagner – il quale aveva ovviamente le proprie ragioni, ma cercò di farle valere, nel peggiore dei modi, contro il legittimo proprietario delle due opere.
Il loro esito ultimo, nell’economia dell’amicizia tra i due, fu senz’altro disastroso. Intendo dire: sul piano umano, poiché determinarono il progressivo allontanarsi del re e del compositore, fino al punto di tramutare il loro rapporto in una vera e propria finzione epistolare. Dal punto di vista pratico, non mi sentirei di affermare che il mutamento sia stato radicale, ché Wagner continuò a percepire i denari del re fino all’ultimo giorno della sua vita (compresi i vertiginosi donativi fuori ordinanza che permisero l’edificazione del Festspielhaus).

 

Il tuo nuovo lavoro ha di nuovo a che fare con la Germania, anche se di un’epoca relativamente differente. Il titolo è estremamente suggestivo e anche un poco presago: “L’armonia delle tenebre” tratta dei rapporti tra la musica e il regime nazista. Potresti presentarcelo più dettagliatamente?
L’armonia delle tenebre affronta un capitolo complesso della storia e della cultura del XX secolo, ossia il ruolo svolto dalla musica nella politica culturale del nazismo. L’ultimo capitolo di Parsifal e l’Incantatore toccava, pur se fuggevolmente, il problema dell’intreccio dei concetti di “musica” e “razza”; un problema che la mente di Wagner, per certi versi distruttiva, aveva ponderato in più di un’occasione. Di qui, la curiosità di capire fino in fondo gli esiti di simili derive dell’intelligenza umana.
È nata così l’idea di ricostruire un quadro della cultura musicale in Germania negli anni compresi tra il 1933 e il 1945, partendo dalle premesse teoriche – e in parte, dunque, da Wagner – per arrivare al punto finale: la musica nei campi di concentramento. In sette capitoli, ho cercato di rendere comprensibile al lettore italiano la catabasi del genio musicale tedesco, illustrandone le diverse tappe: le premesse teoriche, cui accennavo prima, e la costituzione di un organismo centralizzato di controllo; le epurazioni; l’apporto di musicologi e critici “militanti” alla causa del regime; il rapporto tra Winifred Wagner e Hitler; la stretta del regime sui suoi artisti; il tentativo di ricostruzione di un moderno (e allineato) panorama musicale tedesco; infine, l’esperienza musicale nel sistema concentrazionario.

 

Tutte ottime premesse per un’ennesima appassionante lettura…

Sassi Junior, 100% di natura e innovazione

ROMA – “Innovative Children’s Books“, questa è la scritta che compare sul sito della casa editrice Sassi Junior. Ed effettivamente questi libri per ragazzi sono innovativi nei materiali, nelle forme e nelle tematiche. Realizzati con inchiostri ecologici e oltre il 9o% di materiali riciclati, i volumi Sassi Junior parlano ai bambini (fin dai primi mesi di vita) e ai ragazzi di ecologia, riciclo e vita naturale. Allora, per scoprire come nascono questi libri dal cuore verde e come si sviluppa il progetto editoriale, abbiamo intervistato l’editore, Luca Sassi.

 

Come nasce l’idea di una collana per bambini interamente dedicata all’ecologia?

L’ecologia è IL tema del XXI secolo, da tutti i punti di vista, economico, sociale, politico, culturale. Mi sembrava dunque una necessità direi quasi storica iniziare i bambini, fin dall’età prescolare, ai temi della sostenibilità ambientale.

 

Carta riciclata e inchiostri ecologici per la forma, animali e alimentazione biologica per il contenuto, ma come nascono i Vostri libri?

Tutto deve essere coerente se vogliamo comunicare un messaggio chiaro ai nostri lettori. La forma e il contenuto devono andare nella direzione “ecologica” che ci siamo dati come mission aziendale. Quindi innanzitutto un packaging che rispetti la natura, ma anche dei temi che sensibilizzino i bambini a queste problematiche, con un linguaggio semplice e chiaro, vicino alle loro esigenze di gioco e spensieratezza.

 

Quali sono le novità invernali? e qualche anticipazione per la prossima primavera in casa Sassi Junior?

In autunno abbiamo pubblicato una nuova “torretta” con dieci libretti da impilare sui concetti base dell’apprendimento, la famiglia, i contrari, i cuccioli degli animali, le forme. Il titolo è “Gioca e Impara!”, un invito ad apprendere in modo ludico, l’unica formula davvero valida per i bambini, specialmente quelli in fascia pre-scolare, cui noi ci rivolgiamo. Credo molto nella possibilità di insegnare giocando, senza precetti noiosi e difficilmente applicabili. Abbiamo poi pubblicato due “valigione” con libretto e puzzle gigante per insegnare ai bambini a contare, “Caccia ai numeri”, e per far loro vivere il modo degli animali ne'”La Fattoria”. Per la primavera, per il momento…top secret…

 

E quali sono in 3 libri che ci consiglia di regalare ai bambini per un’occasione speciale?

Direi le tre novità di cui ho parlato, ma anche la nostra collana su Nina e Nello, molto educativa perché particolarmente incentrata sui temi ambientali, il riciclo dei rifiuti, il riciclo della carta, il latte biologico, l’orto biologico e così via. I due protagonisti sono due bambini curiosi che attraverso varie avventure affrontano i temi dell’ambiente e della natura.

 

Il futuro dell’editoria è la tecnologia a discapito della carta stampata?

Credo di sì, ma questo non significa che i libri di carta spariranno. A breve le avventure di Nina e Nello saranno disponibili anche su IPAD e IPHONE, abbiamo in redazione le demo e sono molto belle. Interattive come nessun libro riesce ad essere, colpiscono l’immaginario dei bambini con figure in movimento, suoni, rumori, etc…insomma, un’esperienza sensoriale totale (a parte l’odorato), come prefiguravo le avanguardie storiche all’inizio del Novecento.

 

Sassi Junior è disponibile anche per IPAd; qual è il connubio tra tecnologia, ragazzi e ambiente?

Come anticipato sopra sei degli otto titoli su Nina e Nello saranno a breve disponibili sull’Appstore. Credo che non si debba demonizzare la tecnologia come spesso succede agli ambienti più tradizionalisti del mondo intellettuale, cui l’editoria a volte appartiene. La tecnologia aiuta enormemente i bambini ad imparare, con un approccio multisensoriale e interattivo che i supporti tradizionali non offrono. Inoltre non dobbiamo dimenticare che la carta viene dagli alberi, gli alberi devono essere re-impiantati se non si vuole un effetto di disboscamento progressivo (ed è per questo che i nostri libri SASSI Junior sono fatti o in carta riciclata o certificata FSC). Le APPS invece sono immateriali, sono un puro flusso di conoscenza e di informazioni, quindi nessuno spreco di materia per realizzarle.

 

Parlando di ragazzi ed ecologia, un tema importante. Come va affrontato?

A mio avviso è importante adeguarsi di volta in volta all’età dei bambini, alle loro capacità di apprendimento. E’ importante cominciare a parlare di questi temi fin dall’età pre-scolare, in modo tale che quasi inconsapevolmente i bambini, gli adulti di domani, si trovino un bagaglio di conoscenze e regole sociali che la nostra generazione ha ignorato e che deve faticosamente apprendere in età adulta.
Quello che si impara da bambini non si dimentica più, fa parte dell’imprinting, delle radici….dobbiamo insegnare ai bambini che l’ambiente è fondamentale per il nostro futuro. Per loro un domani sarà automatico, senza sforzo, applicare certe regole, seguire determinate abitudini, cosa che purtroppo per gli adulti di oggi non è.