“La famiglia è il primo luogo inospitale in cui siamo chiamati a vivere”: ChronicaLibri intervista Roberta Lepri.

Io ero l'AfricaGiulio Gasperini
AOSTA – L’Africa è terra infinita. È terra immensa e potente, prorompete di energia. L’Africa è l’origine, è il luogo del primo arrivo. L’Africa è natura pura, forza dirompente, natura incontaminata, che non conosce limiti. E ancora più spettacolare ed emozionante è quando l’Africa diventa noi, il nostro intimo, la nostra interiorità più autentica. Roberta Lepri ha scritto un magico romanzo (“Io ero l’Africa” per Avagliano Editore), dove tutti questi piani si allacciano e intrecciano con altre tematiche, con altri fattori sapidi dell’umano.

 

L’Africa: una terra d’affascinante e ancestrale magia. Una terra da dove l’uomo è partito, migliaia di anni fa, alla scoperta delle nuove terre oltre l’orizzonte. Come mai hai scelto l’Africa come setting della tua storia?
L’Africa è il luogo ideale per ambientare una storia che vuole indagare il mutare dei rapporti tra le persone al variare del territorio. Non solo culla dell’umanità ma territorio magico per antonomasia, questo continente ha visto l’uomo partire in tempi remoti ma anche tornare in quelli recenti: da dominatore, in cerca di ricchezze e terre da sfruttare. Questo luogo così lontano e misterioso per me è stato fonte di continue sorprese, appena, da bambina, cominciai a capire quanto fosse stato importante nella storia della mia famiglia. Mio nonno e mia nonna, come i protagonisti del romanzo, erano infatti emigrati in Somalia negli anni 50 per sfuggire alla mancanza di lavoro che c’era in Italia.
Sono cresciuta con i loro ricordi, in una grande casa piena di cimeli africani, di lance, pelli di animali esotici, fotografie di piantagioni di banane. Le mie fiabe della buonanotte erano le storie somale che la nonna Maria mi raccontava con pazienza, e che parlavano della shamba, del fiume Giuba, dei bambini del posto.
Un dono straordinario, questa Africa famigliare, insieme intima e misteriosa, che ho conservato con cura nella memoria, e ho piegato infine alle esigenze del racconto. Un luogo in cui tutto può cambiare all’improvviso e in cui le persone possono ritrovarsi o, al contrario, perdersi completamente.

 

Questa tua Africa familiare, questa tua saga di crescite e di maturazioni, cosa può dire al mondo di oggi, alla nostra società che si trova forse nella crisi più feroce e profonda di cui si conservi memoria? Dove possiamo, noi, trovare quest’Africa, questa terra mitica, questo ancestrale fonte di favole e miti intramontabili?
Proprio perché non riusciamo a ricordare un periodo altrettanto difficile, è importante recuperare la memoria di periodi come quelli di cui ho raccontato nel mio romanzo, in cui si doveva emigrare per sopravvivere, lavorando per mandare i soldi a casa e permettere così ai figli di crescere e studiare; in cui la differenza tra i grandi principi di uguaglianza (quelli socialisti del protagonista e di suo figlio) e una realtà che poteva divenire ostile li trasformava rapidamente nel loro opposto; in cui i rapporti famigliari erano costretti a sfilacciarsi, incalzati da cambiamenti rapidissimi della società. Non sono le stesse cose che stiamo vivendo adesso? L’Africa ognuno ce l’ha dentro se stesso, nascosta da qualche parte. È il DNA di quando, messi in difficoltà, abbiamo trovato una soluzione. “chiudigliocchievedil’africa” il gioco che la piccola Bianca inventa per nonna Angela, non è un modo per fuggire dalla realtà ma un modo per ritrovare se stessi nel ricordo di quando eravamo migliori. E siamo stati tutti migliori, come persone e come popolo.

 

Il tuo romanzo è storia di tanto. Ma soprattutto di due elementi altamente significativi per noi italiani, di nascita e di cultura. La famiglia e l’emigrazione. Che cos’è la famiglia? Perché hai voluto analizzare e indagare proprio questo contesto di legami e di rapporti?
Nell’intervista che mi è stata fatta per Achab ho detto che la famiglia è “il primo luogo inospitale in cui siamo chiamati a vivere”. La mia non è stata una battuta ma è una convinzione profonda, supportata, oltre che da una banale osservazione dei fatti, anche dalla letteratura classica (Pirandello e Gadda, Mann e Kafka) Fin dalla nascita, ci viene caricato sulle spalle il fardello di tutti quelli che ci hanno preceduto, i loro errori, le ansie e le paure. Le aspirazioni mancate, e, spesso, anche i loro segreti. La famiglia non è che un insieme di persone, diverse tra loro, che cercano un equilibrio per vivere. L’arrivo di un nuovo elemento, per quanto accolto con amore, è destabilizzante e quello che la famiglia cerca, fin dal primo istante, è fare in modo che il nuovo si uniformi al vecchio, in modo che tutto scorra nella maniera più piana possibile, per recuperare l’equilibrio perduto.
La crescita per cercare di affermarsi in seno alla famiglia è perciò sempre traumatica – lei cerca di inglobare l’individuo che tenta di affermarsi come tale – sia nelle situazioni che a prima vista possono sembrare idilliache fino ovviamente ad arrivare a quelle che comportano violenza psicologica e fisica. Sono convinta che è proprio nella lotta all’interno della famiglia che l’individuo affronta la sua sfida più grande, quella che lo porterà ad essere ciò che è all’interno della società civile. Jodorowsky, mia fresca lettura, è stato un grande osservatore di queste dinamiche.

 

E per quanto riguarda l’emigrazione?
La tematica dell’ emigrazione è certo un grande banco di prova con cui mi è piaciuto confrontarmi, perché ripropone su ampia scala proprio le dinamiche di cui parlavo sopra: lo strappo dalla famiglia d’origine è anche quello dalla terra d’origine, per la sopravvivenza e l’affermazione del sé. Certo, un fenomeno che può essere doloroso (è il caso di Teo, il protagonista maschile del mio ultimo romanzo) ma anche molto liberatorio (come avviene invece per Angela, la protagonista femminile).
E’ sintomatico che questa mia indagine sia stata accolta con insofferenza proprio dalle persone che mi conoscono meglio e con entusiasmo da lettori sconosciuti. Ho pensato che uno scrittore che si allontana da quelli vicini e si avvicina a quelli lontani possa essere su una buona strada.

 

Quest’Africa nel DNA, questa origine di tutto e di tutti, ha potenti richiami ed echi letterari. Come non considerare Karen Blixen e la sua esperienza in terra africana. Quanto ha influito la sua scrittura sul tuo romanzo? Quali sono i tuoi modelli letterari?
Karen Blixen ha influito molto sulla mia scrittura e non solo per il richiamo all’Africa, per cui ho sempre avuto notizie di prima mano grazie ai racconti dei miei nonni. L’opera della scrittrice danese è straordinaria e mi ha influenzato soprattutto per il suo senso del mistero, per la capacità di saper cogliere con ampio respiro i contrattempi e le sorprese della vita, dando così al racconto un orizzonte vastissimo anche se attento ai dettagli. Penso alla scrittura de “Le sette storie gotiche” o degli straordinari racconti contenuti ne “I capricci del destino”.
Leggo moltissimo e tutto mi influenza, spazio tra stili ed epoche anche molto lontane tra di loro, ma se devo dire un nome tra tutti scelgo Simenon, quello dei romanzi noir come La neve era sporca, o L’uomo che vedeva passare i treni. Mi interessano i rapporti tra le persone e il male che normalmente li attraversa, come questi mutano con grande facilità. Attualmente sto leggendo il Meridiano dedicato ad Alice Munro, che è straordinaria. E amo molto Viola Di Grado, che riesce a sorprendermi a ogni pagina.

 

Tutti noi amiamo alcune parole mentre altre ci rimangono antipatiche. Sia per il suono che per il significato. Sono come le persone, con cui istauriamo rapporti complessi e complicati. Quali sono le tre parole che preferisci? Per quale motivo?
Le tre parole che preferisco sono:
– IDEALE, qualcosa a cui tendere ma anche una situazione di confort assoluto, mentale e fisico. Un ideale politico, la temperatura ideale, la città ideale. Qualcosa di estremamente concreto e insieme appartenente alla sfera del sogno. Contemporaneamente statico e mobile, mi riporta alla velocità della luce sui banchi del liceo, china sui libri di filosofia.
– INTELLIGENZA, la qualità che più amo nelle persone, che sia quella del cuore o della mente – ideale, appunto, se ci fossero entrambe – la capacità di approcciarsi a qualsiasi problema e di risolverlo in modo brillante. E’ la dote superiore a qualsiasi altra: non invecchia, anzi, con il tempo migliora e dona una bellezza ineguagliabile alle persone che ne sono dotate.
– ARTE, direi che è il risultato dell’applicazione delle altre due: tensione e riflessione, espressione di un’intelligenza umana che è sviluppo continuo. Si potrebbe abolire qualsiasi altra materia, e attraverso lo studio dell’arte comprendere l’intero percorso dell’umanità: la sua storia, la matematica, l’architettura, la filosofia, il mutare del linguaggio, la capacità di comprensione tra i popoli o le tensioni che ne hanno determinato lo scontro. Nessuna meraviglia, che in un’epoca dominata da una dittatura del denaro si voglia togliere l’insegnamento dell’arte dalle scuole. Lo definiscono “inutile” ma direi che per gli interessi dominanti è, invece, dannoso.

“L’horror è un contenitore che può più di altri toccare corde essenziali dell’animo umano”: ChronicaLibri intervista Claudio Vergnani

Michael Dialley
AOSTA – Un viaggio particolare in un’Italia popolata da zombie: questo il contesto del nuovo romanzo di Claudio Vergnani, “I vivi, i morti e gli altri”, uscito da poco per la Gargoyle Books.
Tinte fosche, luoghi misteriosi e rumori sinistri provocati da quelli che sembravano morti, sono invece gli ingredienti che tengono il lettore vigile e attento a tutti i dettagli.
ChronicaLibri ha intervistato l’autore per cercare di capire cosa c’è dietro questo romanzo e per dar voce a chi ha dato la luce a quest’avvincente storia.

 

Ha scritto una saga di vampiri, prima de “I vivi, i morti e gli altri”: che cosa l’ha avvicinata agli zombie? Come mai ha incentrato il nuovo romanzo su queste creature?
Né i vampiri né gli zombi hanno molta importanza per me: mi servivano solo per creare uno sfondo horror conosciuto dove poter raccontare soprattutto altro.

“Ritengo che l’horror sia un contenitore che, se usato adeguatamente, può più di altri toccare corde essenziali dell’animo umano”: queste le parole che ha usato in un’intervista per definire il genere horror.

 

Nel suo nuovo romanzo emerge la fragilità del protagonista, Oprandi, che viene quasi schiacciato dalla realtà, dalla società composta da cannibali: è questo, forse, un ritratto dell’uomo odierno e del mondo reale, trasposto ed enfatizzato poi nella realtà horror?
Di solito sfuggo le metafore. Spesso sono banali o ambigue. Ma certamente Oprandi si muove in un mondo che è solo un passo avanti al nostro, e infatti lo interpreta lucidamente in tutta la sua miseria, ignoranza, ingiustizia e pericolosità. Paradossalmente, pur essendo un uomo con tutte le carte in regola per crollare definitivamente, l’essere un figlio di questi nostri tempi gli sarà d’aiuto per non smarrire definitivamente sé stesso nel momento della catastrofe e dell’orrore.

 

Crede che il genere horror possa essere uno strumento utile alle persone per evadere, visto il periodo storico nel quale viviamo oggi?
È difficile da dire. Potrebbe sembrare di sì, ma i risultati delle vendite tendono a dire il contrario. Forse i tempi senza speranza in cui viviamo spingono maggiormente il lettore verso il fantasy, dove i buoni soffrono ma poi vincono, i cattivi vengono umiliati e sconfitti, e mille creature soprannaturali ma perbene ispirano al lettore la possibilità di un mondo magari ancora sconosciuto, ma decisamente migliore e più giusto di quello reale.

 

Una persona mi ha detto “leggi e rilassa la mente”, ed effettivamente la lettura ha, su di me, quest’effetto; a lei in che modo la lettura aiuta? Perché consiglierebbe alle persone di leggere un buon libro?
Me l’avesse domandato anche solo due anni fa mi sarei detto d’accordo, e avrei spiegato il perché. Oggi, le confesso, non lo so più. Qui in Italia la maggioranza dei lettori non legge, si limita a scorrere con gli occhi un insieme di parole che altri hanno scelto per loro. Non acquistano un libro, acquistano un autore, per pigrizia, per abitudine, per sentirsi rassicurati. Forse un giorno la gente tornerà a leggere, e allora, chi lo sa, potrò rispondere diversamente alla sua domanda, se le parrà ancora d’attualità.

 

I lettori, ormai, la conoscono nel genere horror: in quale altro genere le piacerebbe impegnarsi? Sta già lavorando a qualche altro progetto?
È uscito in questi giorni un thriller, Per ironia della morte, dove cerco ancora una volta di inserirmi in un genere, con amore e rispetto delle sue strutture classiche, e per poterlo poi rinnovare dall’interno con il mio stile considerato drammatico, profondo e ironico nello stesso tempo.

 

Come scrittore, quali sono le tre parole che preferisce?
Me ne basta una: quella giusta, schietta e sincera che arriva dritta al cuore e alla mente di un lettore attento e intelligente. Quella parola è tutto. Perché, come dico sempre, un romanzo è solo un’opera parziale, al quale solo un lettore attento e ricettivo può dare il soffio della vita, portandolo con sé nel suo mondo, arricchendolo con la sua partecipazione, le sue considerazioni e, perché no, con il suo amore. A mio parere è tutto qui, tutto quanto qui.

ChronicaLibri intervista Corinna Bajocco

Stefano Billi
Roma – ChronicaLibri ha intervistato Corinna Bajocco, autrice del libro “New York. Viaggio nella Grande Mela”. Pubblicato da Polaris, il libro non è solo una guida, è anche l’inizio di un grande viaggio nella metropoli statunitense.

 

 

Come è nato il desiderio di scrivere un libro su New York? 

Dico sempre che la più bella delle routine è comunque sempre una routine. Io per ragioni varie che spaziano dallo studio al lavoro, già da almeno un ventennio ero una aficionada della Grande Mela e la mia vita era scandita da frequenti andirivieni.  Così che mi ero quasi abituata alla città, sembrava non stupirmi più. Poi una mattina, dopo il solito caffè di Starbucks, mi trovo ad osservare una scena di vita comune seduta su una panchina di uno dei tanti community garden dell’East Village e tutto mi è sembrato, ex abrupto, nuovo e diverso. Quel giorno è nata la mia personale e privata New York, quella costruita attorno a me, ai miei avanti e indietro, ai miei amici, alle mie letture, ai libri di altri, alle mie aspettative, al cibo che mi piace mangiare, agli incontri inaspettati, ai volti curiosi,  ai profumi e alle lingue che, pur non essendo genuinamente newyorchesi, per me sono New York. E ho iniziato a pensarla e a scriverla. Qualche mese dopo ero a Firenze a discutere il libro con il mio editore, perché i desideri abbiamo il dovere di realizzarli.

 

Perché un lettore di Chronica Libri dovrebbe assolutamente visitare New York? 

Perché chiunque dovrebbe visitare New York almeno una volta nella vita. Perché con un viaggio se ne fanno in realtà mille. Perché  ad ogni angolo lo attenderebbe una suggestione di pagine che ha amato, di film che ha visto, di piccole scenografie naturali che ha immaginato. Perché il cibo è divino. Perché è incredibilmente veloce, e in continuo cambiamento. Perché è diversa da come ce la immaginiamo prima di arrivare. Perché è marcia, fradicia e affascinante. Perché se fai colazione nell’Upper West, magari mangi seduto allo stesso tavolo di John Berendt, o Yoko Ono.  Perché restituisce la curiosità nelle cose, che un po’ è morta in quest’altra parte del pianeta.

 

Secondo Lei, New York è ancora l’emblema del sogno americano, o sta perdendo la sua magia col tempo?

New York è il posto dove nascono le opportunità.  Certo, c’è la crisi finanziaria. Certo devi lavorare su ritmi tiratissimi che nulla hanno a che fare con la ciclicità del tempo letto alla maniera mediterranea. Certo devi fare il callo ad alcune rigidità dell’uomo americano, e anche ad un po’ di spocchia. Ma se davvero c’è un desiderio da realizzare, quello è il posto dove provarci. Ancora.

 

Qual’è l’aspetto di New York che più l’affascina?

New York è una metropoli, una megalopoli, Gotham. E, come è stato detto di Lei in passato, non una città perfetta, ma un perfetto esempio di città. Eppure questa sua dimensione, dal di dentro, non si percepisce. New York è una trama di villaggi che si intersecano, di lingue che si fondono, di tradizioni che si mescolano e tutto pare tranne che quella proiezione verticale luccicante che affolla l’immaginario del Vecchio Mondo. Di New York mi affascina questa ambivalenza, e le sue crepe. Quelle rughe che se osservate bene sotto ci trovi una città stratificata e meravigliosa.

 

Perché i lettori di Chronica Libri dovrebbero leggere il suo libro?

Ci sono pagine e pagine scritte su New York, e tutte decisamente più autorevoli delle mie. Forse bisognerebbe leggere piuttosto quelle. Però un giorno, un autentico newyorchese di nome Adam Yauch, che era il leader di una band straordinaria (i Beastie Boys), stava bevendo qualcosa in un bar di Brooklyn casualmente seduto al bancone vicino a me. Lo costrinsi ad una breve conversazione, ed ai miei racconti.  Senza conoscerlo, ovviamente. Una mezz’ora dopo mi disse che ero una ficcanaso. Ecco, se a qualcuno dovesse far piacere  leggere una specie di guida turistica scritta da una ficcanaso, allora la mia è quella giusta. E poi sono una appassionata di letteratura, nel libro ne troverete tanta, raccontata proprio negli angoli dove è nata. Infine, se c’è una partenza in programma, prima di fare le valigie, forse fra le mie pagine scoprirete la voglia di un viaggio non preconfezionato.

“L’arte? Un serissimo modo per giocare”: ChronicaLibri intervista Luigi Imperato.

Giulio Gasperini
ROMA – La sua definizione dell’arte mi ha folgorato (e spiazzato). Cerchiamo sempre di incoronarla, di darle obiettivi e meriti a volte persino fin troppo pretenziosi. Spero la rendiamo altera. Sicché diventa antipatica, ostile. Pare che voglia discriminare. E invece è soltanto colpa di chi, tale arte, l’ha costruita e se n’è servito. Luigi Imperato, drammaturgo attore poeta (“Voce rauca di mare”, Editrice Zona), in questa bellissima intervista ci spiega come l’unica e vera arte sia quella che riesce a scherzare e a dissacrare. E sia, ancor più, quella che ci fa giocare; e divertire.

I nostri appena inaugurati anni Dieci stanno accelerando ancora più vertiginosamente degli anni Zero. Ci sono rumore, parole che si sovrappongono, fiati inutili, assedi di sillabe. “L’udito è offeso / da suono indiscreto / che si fa presente, / non richiesto, / pretende ascolto / solo perché, / senza ragione, / emesso”. Dalle tue poesie si evince chiaramente come tu opponga al rumore i tuoi silenzi, che “non sono assenza” e che sono coraggiosi ché “non hanno paura”. Come potremmo, secondo te, rendere tutto questo rumore meno molesto? O, addirittura, potremmo riuscire a produrne meno?
Sì, per me il silenzio è un valore. Mi accorgo però che non è semplice trovare chi condivida questa mia idea. Il silenzio viene valutato spesso come un dis-valore, in qualche caso addirittura un problema. Una persona silenziosa non viene “interpretata” come una persona che ascolta o che pensa, ma, in alcuni casi, come una persona con difficoltà. Questo secondo me è legato ai tempi del mondo moderno. Quello che conta oggi è arrivare subito al risultato, è mostrare subito le proprie carte. Se possibile prima di subito. La prima impressione è quella che conta e solo una loquacità vivace, pimpante, performativa è in grado di ammaliare, di conquistare, di affascinare in modo immediato. Il pensiero lento, il silenzio, la meditazione sono molto meno in linea con i tempi a cui siamo abituati. Sia chiaro che poi io non ho soluzioni in tasca, come non sono immune da contraddizioni. Io stesso sono completamente immerso nel mio tempo e io stesso sono affascinato dal ritmo, dalla velocità, dalla performance, dal talento. Mi confronto con questi temi in maniera quotidiana occupandomi di teatro, ma allo stesso tempo, quando posso, cerco di fermarmi e meditare sull’importanza dell’attesa, del risultato da raggiungere senza fretta, della bellezza dell’ascolto senza l’ansia di dover subito entrare in ogni discorso con il diktat del “fare bella figura”. Ecco forse un modo, per quanto parziale, per rendere il rumore meno rumoroso sarebbe fare un passo verso la consapevolezza del rumore. Va bene il social network, va bene il web 2.0, va bene il tablet… ma ogni tanto staccare la spina e rendersi conto che non c’è bisogno di tutto quel “cinguettio” continuo è già un piccolo passo avanti.

Siamo stati costretti a “cinguettare” molto, in effetti. L’afflusso di notizie è pari, in velocità, soltanto alla necessità che le notizie hanno di essere consumate. E anche le persone sono diventate soggette alla medesima scala di valori. Ma tu sembri suggerire diversi modelli di umanità: un umanità che parla “parole nate notturne per non farsi notare”, persone che riescano a stare dietro alla fragilità. Ed è eccezionale quest’ultimo augurio che fai al mondo. Di quale fragilità parli? È davvero possibile, in un mondo come il nostro, poter continuare a sospettare noi stessi di essere fragili? E, ancor più grave, mostrarla al resto del mondo?
Se medito sulla fragilità e su quale fragilità io non veda tutelata, mi viene in mente proprio la poesia. Non intendo solo il genere letterario ma la poesia come sinonimo di bellezza. La bellezza, per me, è qualcosa di delicato perché si regge su un confine sottile. È una sorta di soglia al di là della quale si nasconde qualcosa di diverso, non sempre senza valore, ma di diverso. Come teatrante e come autore compio il tentativo di percorrere quel confine delicato, sottilissimo. Sono sicuro di non essere ancora riuscito a fermarmi, anche solo una volta, proprio in quello spazio ristretto, ma sento la necessità di avere quel luogo là come mia meta. La bellezza, la poesia sono sì fragili, ma a loro modo sono un’arma potentissima. L’altro giorno ho rivisto un mio maestro, Michele Monetta (mimo, attore, regista) e lui ha concluso una sua presentazione citando delle parole di Dostoevskij: “La bellezza salverà il mondo”. Ecco quelle parole sento che fanno parte del mio bagaglio insieme a quelle con cui Italo Calvino chiude il suo “Le città invisibili” parlando dell’Inferno che ci circonda: “Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo e’ rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare e dargli spazio”. Questa mi pare anche essere una risposta alla seconda parte della tua domanda. Non dobbiamo vergognarci di quella parte di noi non corrotta, che resiste all’inferno, che sa essere fragile, ma che ha dalla sua la forza della purezza. È un lavoro difficilissimo, che io, sia chiaro, non sono assolutamente in grado di fare fino in fondo. Eppure in qualche modo credo di esserne influenzato, credo che anche solo pochissime delle mie scelte siano state dettate da una sorta di resistenza ad un mondo mercato, ovvero quello che secondo me è realmente l’inferno. Là dove non conta l’uomo ma il sistema si sta sacrificando la complessità tipica dei sentimenti e si sta cedendo alla semplicità dei numeri. Ma forse mi sto allontanando troppo dalla tua domanda…

Non credo tu ti stia allontanando troppo, perché noi viviamo in un mondo che è più un sistema, come hai sottolineato anche tu. Un sistema dove noi siamo incastri, numeri, cifre e dove le facce, i volti, le storie, non sono tenuti in nessun conto. E tu hai trovato un bellissimo regalo, da fare agli uomini: ti auguri di, un giorno, “poter regalare agli uomini / la lentezza di uno sguardo”. E credo che la lentezza sia uno dei più bei regali si possano fare a sé stessi e agli altri. Ma dove va a finire, allora, la velocità? E dove va a finire, al contrario, quell’uomo che grida nel deserto, che “viaggia e tace / spaventato dalla sua voce rauca di mare”? È costretto al silenzio?
Mi piacerebbe che quella che chiami “velocità” fosse al servizio dell’uomo. Purtroppo qualche volta il congegno si inverte e l’uomo diventa uno strumento. Però notevoli sono le eccezioni. L’uso, per esempio, che alcuni artisti fanno della tecnologia ci fa rendere conto di come la “velocità” possa essere, qualora usata con intelligenza, un’arma a favore della ricerca di qualcosa di profondamente umano. E l’innovazione non aiuta l’uomo solo in campo culturale: qualche mese fa a San Giorgio a Cremano (Na) si è tenuta una sorta di giornata di confronto e progettazione sull’utilizzo di strumenti innovativi da porre al servizio delle pratiche del sociale. Si trattava di un Social Start Up, iniziativa interessante e che si ripete, che io sappia, in molte parti d’Italia. Questo è uno dei modi per far sì che la bellezza della velocità non entri in conflitto con quell’uomo che grida nel deserto e che anzi lo aiuti a non ridursi al silenzio. Un silenzio forzato ovviamente, perché oramai è palese che io amo un certo altro silenzio.

Sicché viriamo d’argomento e leggiamo questi tuoi versi: “La verità è che se avessi amato / con tutto l’amore che conosco, / mi avrebbero esiliato, / solitario abitatore del non concesso”. L’amore. Onnipresente forza, distruttiva e costruttiva. Cosa rappresenta l’amore? Qual è, secondo la poesia e l’idea di Luigi Imperato, la sua reale potenza? Il suo più profondo merito? Possiamo farci ancora affidamento, sull’amore?
Cambiamo domanda? Scherzo… L’amore… Davvero è uno degli argomenti più complessi di cui parlare. La poesia è un tentativo di parlarne appunto, ma è anche un tentativo di non scoprirsi. Pina Baush, la nota coreografa morta solo qualche anno fa, diceva che per lei era un continuo lottare tra la volontà di dire e quella di nascondere sé stessa. Questo era per lei la sua danza, questo è, a ben vedere, per me la mia poesia ma anche il mio teatro e i miei tentativi di narrazione in generale. Quando racconto una storia parlo di me, ma non facendo banalmente autobiografia, semplicemente portando nei personaggi parti del mio mondo, del mio modo di guardare a quel mondo. Tra gli oggetti emotivi che più mi tormentano, che più mi costringono a tenere lo sguardo fermo su di loro c’è l’amore. Ed è una danza… una lotta danzante tra quello che voglio e riesco a dire a proposito di questo sentimento e quello che invece non voglio dire, non so ammettere. Quel verso che citi è esattamente questo, un verso troppo esplicito per me, ma anche volutamente criptico. Non riuscirei mai ad aggiungervi una qualche spiegazione, proprio non ce la farei.
L’unica cosa che posso dire forse è che c’è un amore di cui si ha bisogno, ed è quello che fa battere il cuore, fa scorrere il sangue velocissimo come se avessi sempre dieci anni o poco più. C’è un amore bambino che non riesci mai a tradire fino in fondo… poi c’è un amore maturo, che cerca di fare i conti con la stabilità, con un certo modo di stare al mondo, ordinato, inquadrato… ma questo, lo ammetto, ancora non sono riuscito a capirlo fino in fondo. L’ordine e la stabilità mi sembrano in opposizione all’amore, ma ci sarà un modo e prometto che non appena lo scopro lo rendo pubblico.

Sapevo che l’argomento dell’amore sarebbe stato un po’ difficile, perché l’amore non è mai facile. Così come non è mai facile quadrare il dolore. Nella tua raccolta parli molto di dolore, lo declini in parecchie tipologie, dalla guerra (“Dormi, la guerra / è vicina”) a una sorta di esilio (“Sono pronto ad aspettarti. / Attendo l’esilio / per poter ricominciare”). Una “voce rauca” canta queste poesie, puntando a un luogo altrove, “Dove anche il dolore / diventa ricordo”. Come si fa maturare, dunque, il dolore? Dal dolore quali frutti si possono raccogliere?
Io penso che il dolore sia l’unico modo per maturare. La sofferenza è un percorso obbligatorio che ti permette di entrare in contatto con la realtà e di capirla fino in fondo. Tutto quello che c’è intorno a noi è problematico, difficile, forse proprio per questo affascinante e proprio per questo utile alla narrazione. Se non ci fosse il dolore, se tutto fosse perfetto non avremmo bisogno dell’arte. Quest’ultima per me è un modo meraviglioso per evadere dalla sofferenza ma ancor più per guardarla in faccia fino in fondo, per capirla, per essere pronti a reagire ad essa o solo a non soccombere. Anche la comicità, quella che io trovo interessante, ha a che fare sempre con un contrasto, un conflitto. I temi anche più grossolani come possono essere quelli del sesso e della merda creano un effetto comico immediato non a caso: parlano della parte animale dell’uomo e del suo pudore di essere bestia prima ancora che uomo, carne oltre che spirito. Vi è una ferita implicita alla base di tutto ciò che forse riguarda il sogno impossibile dell’immortalità e il suo contrasto con la finitezza del proprio corpo. Ed è quella ferita la vera cosa interessante per me. Cosa c’è di più tremendamente comico che scherzare sulla morte? E che cos’è l’arte se non un serissimo modo per scherzare, ancora meglio: giocare.

Sicché non rimane che capire che l’arte è un gioco. Il più tremendo, e serio, gioco umano.

“Cronache da un mondo (im)possibile”: intervista a Frank Solitario. Ma davvero, come ti chiami?

intervista Frank SolitarioGiulia Siena
ROMA
–  “Cronache da un mondo (im)possibile” è un romanzo costruito su racconti ironici e a quasi paradossali, un libro nel quale confluiscono ironia, dolcezza e sguardo analitico. Dietro le “Cronache” c’è la penna di Frank Solitario, uno pseudonimo che cela un abile comunicatore/osservatore.
Appena lo incontro, non contenta del nome d’arte, gli chiedo curiosa il suo vero nome… nulla da fare, Frank rimane sul vago. Ma ho l’arma dell’intervista: non potrò scoprire il suo vero nome, ma tutto il resto sì!

 

“Cronache da un mondo (im)possibile” si apre con diversi racconti suddivisi in “venti stanze”, tu quale stanza preferisci?

La ventesima.
Dalle pagine emerge una dolcezza particolare. E’ così?
Si, è tutto così ironicamente e drammaticamente fuori posto in quel racconto (Un futuro remoto): l’editoria ottusa e miope, l’autore tronfio che pensa di fare capolavori d’avanguardia (io stesso), gli stupidi compromessi per diventare qualcuno che non sei.
Un racconto intenso è quello dei due manichini che si innamorano. Come è nato quel racconto, cosa ti ha spinto a dare vita a due esseri inanimati?
I manichini prendono il posto di uomini e donne che smettono di essere vivi poiché perdono la capacità di provare sentimenti. Ho sentito subito che alla deumanizzazione potesse fare da contraltare l’anima profonda e commovente degli oggetti inanimati.
Il tuo romanzo procede per figure, cioè tutti i racconti diventano “visibili” agli occhi del lettore.
Il mio è un approccio visivo; scrivo così come si gira un cortometraggio. Una volta che fisso l’immagine iniziale poi tutto si svolge indipendentemente da me. Quando tutto si è svolto è necessario dargli una forma narrativa, altrimenti non si ottiene qualcosa di significativo. La mia scrittura nasce dall’emotività e poi viene rivista, sviluppata in base al mio stile narrativo.
Quindi il senso fondamentale per te è?
E’ la vista. E’ fondamentale perché con la scrittura doni immagini, sei il regista di un film che il lettore riproduce secondo la sua sensibilità  leggendoti. Con la scrittura puoi far vedere quindi; rispetto alla cinematografia hai il vantaggio di lasciare decidere al lettore come immaginare quello che tu gli stai descrivendo.
Il racconto per me cruciale del tuo libro è quello in cui un vecchio nobile decaduto si alza tutti i giorni per aprire e chiudere a fatica le finestre delle sue venti stanze. Questo personaggio è la personificazione di un’attesa?
Questo personaggio è attesa e lotta. L’uomo nella sua vecchiaia, ormai stremato dalla vita, per me è un personaggio epico. Nonostante la consapevolezza della mancanza di senso dei suoi giorni, ogni mattina lotta con tutte le sue forze per conquistarlo un senso, è un eroe epico che non sa accettare l’ arrivo del buio.
Accanto a te in questo libro c’è stato il lavoro di consulenza di Veruska Armonioso, editor dell’Agenzia Letteraria Verba. Come avete lavorato e in cosa è cambiato “Cronache..” dopo il lavoro con la Armonioso?
Veruska è intervenuta sul testo solamente per perfezionare alcuni dettagli rispettando il mio stile. Credo che l’editing debba essere solo un lavoro di limatura senza snaturare il carattere dell’autore. L’editor è colui che serve anche a tirar fuori, a plasmare il carattere di un autore che ha già in sé molta forza espressiva. L’autore deve riconoscere la piena autorità dell’editor per tutto quanto non ha a che fare con il suo stile di scrittura. Struttura del manoscritto, copertina e molte altre cose che contribuiscono a rendere inattaccabile il tuo lavoro dal punto di vista formale. Veruska in “Cronache da un mondo (im)possibile” mi ha aiutato ad individuare un filo che intrecciasse tutti i racconti in un unico romanzo. Un procedimento fondamentale soprattutto in Italia dove c’è una diffidenza di fondo verso i racconti.
E qual è il fulcro del tuo romanzo?
La presa di coscienza del percorso dell’esistenza. Ogni personaggio affronta le tematiche fondamentali dell’esserci, in fasi della vita diverse. Rimango sempre più colpito dal modo in cui la gente percepisce la realtà. Le persone si lasciano coinvolgere molto di più dalle morbose immagini dei media, dalla fiction costruita intorno alle notizie che dalla propria vita. Vorrei far distogliere lo sguardo dalla realtà rappresentata in modo morboso e riportare l’attenzione su di una finzione narrativa che spera di essere talmente interessante da farci perdere prima e ritrovare poi.
Pretenzioso?
E’ solo il modo in cui si comunica verso l’esterno che può essere pretenzioso. L’ideale espressivo a cui aspiro è quello di comunicare con diversi strati di profondità a seconda dell’interpretazione del lettore, ma di arrivare in qualche modo a più persone possibile. 

Che cos’è la comunicazione per te?
E’ solo un mezzo a disposizione per veicolare un contenuto.
E’ fondamentale non ingannare il lettore come fanno alcuni critici letterari su stimati giornali; qualche giorno fa è stato dato voto 10 all’ultimo libro di Faletti; assegnare 8 sarebbe già stato uno sproposito, ma un 10 significa perdere ogni freno inibitorio.
Non oso pensare a quale voto si potrebbe dare ad una riedizione della Divina Commedia.
Come sei arrivato a pubblicare con Il Foglio Letterario?
Ho conosciuto l’editore, Gordiano Lupi, attraverso il suo libro “Nemici miei” e l’ ho subito amato. Mi sono detto: chi è questo pazzo che si presenta al mondo editoriale facendosi odiare da tutti? Devo conoscerlo.
“Cronache da un mondo (im)possibile” è il secondo libro che pubblico con questa casa editrice toscana dopo “Storie ai minimi termini”.
Loro partendo dalla gavetta sono riusciti a portare due libri in finale al Premio Strega. Speriamo nei detti popolari e nella cabala.
Le tre parole che lo scrittore Frank Solitario ama?
Niente, nulla e zero. Ma non le scrivo mai proprio perché le amo.
Perché, tendi a tutelare ciò che ami?
Oscillo tra due opposti inconciliabili: il Nulla e il Tutto. La scrittura è forse il mio punto d’ equilibrio.