“Le nostre ore contate”, il romanzo di esordio di Marco Amerighi

Giorgia Sbuelz
ROMA – Estate 1985. Quattro ragazzi hanno quattordici anni e la voglia di fondare una band, ma senza il necessario addestramento, come la buona scuola punk dei Sex Pistols e degli Stooges di Iggy pop ha dimostrato. Questo è il punto di partenza de Le nostre ore contate,  romanzo d’esordio di Marco Amerighi edito da Mondadori.
Sauro, Momo, il Dottore e il Trifo sono un gruppo di amici che prova a farsi valere nella provincia italiana sperduta tra le colline toscane, ma lontano dalle bellezze tipiche della regione. Badiascarna, infatti, “sembra l’avamposto extraterrestre di un film di fantascienza: un segmento di case modeste disposte lungo una strada male asfaltata, il cimitero all’estremità nord, il mattatoio del Nesti e il vecchio campo sportivo all’estremità sud. Non appena riprendono le curve e la provinciale si snoda verso il bosco, le case si diradano e il paese con i suoi duecento abitanti sparisce.”
A Badiascarna però c’è dell’altro: due enormi torri di refrigerazione della NovaLago, una centrale geotermica costruita su un lago boracifero ai limiti del bosco che nacque con l’intento di creare posti di lavoro e benessere. Ciò che realmente ha prodotto, è stata una pioggerellina di corpuscoli d’amianto che si è depositata sulla vegetazione circostante e nei polmoni dei lavoratori fino a scavarci dentro delle lesioni. Ironia della sorte, il benessere millantato si è trasformato in una promessa di morte chiamata mesotelioma, la malattia che infesta il torace di Rino.

Rino è il padre di Sauro, poco più che cinquantenne è stato costretto al prepensionamento per tacere sulle reali condizioni della Ditta. Il suo allontanamento dalla vita lavorativa lo conduce ad uno stato di auto-emarginazione, dove le confabulazioni si mischiano ad una maniacale militanza comunista, fatta di opuscoli, libretti  e di comizi declamati nello sgabuzzino della lavatrice. A farne le spese sono i figli, Elio e Sauro, più di tutti Sauro, che si dimostra insofferente alle stranezze e all’aggressività paterna, pur continuando ad accudirlo, fino al giorno in cui, inspiegabilmente, Rino lo caccia di casa.
Così Sauro fugge, portando con sé il dolore del rifiuto paterno e quello scioccante per la morte del Trifo, il fragile amico di sempre.
Una fuga lunga vent’anni, scivolati tra silenzi, rancori e segreti. Poi l’appello della madre di Sauro: ritornare per cercare proprio lui, quel Rino che lo aveva cacciato via, disperso chissà dove e consumato dal male.

Nessuno può sfuggire al proprio passato, tantomeno Sauro, che ritorna all’origine del tutto, ritrovando la sua cittadina natale esattamente come l’aveva lasciata. Perché i cambiamenti spaventano, perché è più facile fingere che sia tutto a posto e nascondere le preoccupazioni sotto il tappeto.

Sauro temporeggia. Non sa di preciso se vuole rintracciare quel Rino più volte percepito come un alieno. Si rivede ragazzo mentre innalza un altare per le preghiere dirette al suo idolo, David Bowie. Ripercorre il sacrificio di un ramarro colpito dalle fionde dei ragazzi, strascico di quella crudeltà che appartiene dell’infanzia. Ricorda il passaggio alle pulsioni adulte attraverso l’incontro con Bea, l’affascinante ragazzina che viene dalla città e che ama disegnare così come ama costruire legami.
Il tempo scorre pur rimanendo fermo al 1985. Gli scenari si dipanano in sella allo stesso Garelli che fu del padre di Sauro per andare a lavoro e che diventa il destriero di una banda di ragazzi che vuole fare qualcosa di memorabile. Qualcosa per sgattaiolare fuori dalla polvere, non solo d’amianto, che si deposita sulle loro esperienze, crude e intense come solo i ragazzi sanno vivere e come solo la provincia più scarna può rappresentare.

Un romanzo forte quello di Amerighi, a metà strada tra il genere di formazione e la denuncia sociale, ma che utilizza toni sommessi: descrive senza gridare, racconta senza svelare, schiva il compassionevole e dosa il senso del mistero di cui alla fine è pregna l’opera. Il mistero del tempo, che fugge o si cristallizza sulle ferite delle persone, della differenza tra vivere e sopravvivere, della morte che sfila al passo con i ragazzi del luogo, che eppure di morte non si dovrebbero occupare.
Un vago sapore delle atmosfere del racconto The Body di King, da cui è stato tratto il film Stand by me, se non altro per la stagione scelta: l’estate, la stagione che apparterrà sempre ai ragazzi di ogni generazione.

“Era la prima volta che avvertivamo la necessità di scomparire agli occhi dei nostri genitori. Se c’era qualcosa che avevamo capito, in quelle lunghe e afose giornate d’agosto, era che non avevamo bisogno di nessuno, tantomeno di loro”.

Al grido di Rebel Rebel l’età adulta saluta la giovinezza che scompare, lasciando il biglietto per un altro giro, o un’altra occasione, in quella cittadina coperta da strati di grigio di una sostanza velenosa, che tutto ha conservato e tutto ha distrutto.

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