Terre di Mezzo editore ci accompagna "a Santiago lungo il cammino portoghese"

Giulio Gasperini
ROMA –
Strade diverse portano comunque a mète note. Santiago di Compostela è destinazione oramai prospera e certa. Per arrivarci, tradizionalmente, si parte da Puente alla Reina, una piccolissima località della Navarra, e si percorre il cosiddetto Camino Francés. Ma già anticamente le strade che conducevano alla tomba dell’apostolo Giacomo erano molte di più. Una di queste era il Camino Portugues, che la Terre di Mezzo Editore ci illustra nel libro “A Santiago lungo il cammino portoghese”, scritto da Irina Bezzi e Giovanni Caprioli, e pubblicato nella collana Percorsi.


La strada, lunga 650 chilometri, parte da Lisbona, la magnifica capitale portoghese, dal tratto urbano nervoso e nostalgico d’un passato di potenza coloniale, (“Lisbona è una delle città più belle del mondo”, scrisse Carolina Invernizio), e sconfina in Spagna, fino ad approdare in uno dei tre grandi luoghi del pellegrinaggio cristiano.
I 650 chilometri del percorso di srotolano su una terra ancora di natura indomita, poco contaminata, che conserva, per molti aspetti, il carattere di purezza. Tanti, inoltre, i luoghi attraverso i quali si può passare: a partire da Fatima, altro grande centro spirituale e religioso, per finire alla graziosa e fascinosa Porto (il cui centro storico è stato dichiarato, nel 1996, Patrimonio dell’Umanità), oppure in importanti luoghi artistici come Coimbra.
Ma il libro di Terre di Mezzo Editore non dà soltanto informazioni e chiarimenti sui luoghi visitati e da visitare; offre tutta una serie di informazioni pratiche, utilissime al viaggiatore che, zaino in spalla, si appresta a intraprendere un cammino d’avventura. Dove dormire, cosa portarsi, cosa può diventare assolutamente necessario o assolutamente inutile, quanto si spende (e tracciare in tutta tranquillità un preventivo delle spese).
Ci sono informazioni, inoltre, indispensabili per chi voglia intraprendere il viaggio in bicicletta: utili, in questo senso, saranno le cartine, le distanze tappa per tappa e le indicazioni dei luoghi dove trovare ospitalità, corredati da informazioni tecniche e pratiche.
Insomma, se quest’estate avrete il coraggio di optare per un viaggio alternativo, il libro della Terre di Mezzo editore vi sarà assolutamente indispensabile: perché la mèta potrà pur rimanere sempre la stessa, ma le strade per arrivarci sono infinite.

Alla riscoperta del patrimonio antropologico delle "Fiabe e storie della Maremma"

Giulio Gasperini
ROMA –
L’editore Effigi, di Arcidosso, ha recentemente ripubblicato, in una nuova revisione anastatica, “Fiabe e storie della Maremma”, la summa del lavoro di Roberto Ferretti, fondatore dell’Archivio delle tradizioni popolari della Maremma grossetana. Ferretti fu appassionato studioso del folklore della sua terra, tanto da dedicare la sua tesi di laurea proprio alla riesumazione (e alla salvaguardia) del materiale antropologico e folkloristico declinato, in particolar modo, nella forma della fiaba, una delle concretazioni più originali e peculiari.

La tradizione della fiaba, anche in Maremma, è ovviamente quella orale, alla quale Ferretti ha dato una struttura narrativa per poter sopravvivere al logorio e all’usura del tempo che passa e che strazia la memoria. In questa maniera trovano nuova dimensione, sulla carta, le storie che i vecchi raccontavano ai nipoti, seduti fuori degli usci, nelle tiepide sere d’estate, oppure quelle che servivano per intrattenere la famiglia tutt’intorno al focolare del camino, nelle notti di freddo pungente.
La Maremma è terra aspra e ostile all’uomo: la sua canzone più celebre canta “tutti mi dicon Maremma Maremma / a me mi pare una Maremma amara / l’uccello che ci va perde la penna / io c’ho perduto una persona cara”. La malaria, soprattutto, diffusa in una regione di immense paludi malefiche, mieteva vittime su vittime. L’umanità che qui si diffuse si abituò al dolore, al sacrificio del sudore che le zolle pretendevano; ma si legò strettamente alla terra (le conquiste sofferte, si sa, son le più soddisfacenti) in un legame inscindibile, in una forma d’amore feroce.

Ferretti, anche grazie all’aiuto di amici e conoscenti di ogni luogo della Maremma, ha potuto in questa maniera conoscere le diverse leggende e le diverse fiabe che cambiano, fatalmente, anche a pochi chilometri di distanza: perché anticamente anche quei pochi chilometri erano un percorso accidentato, e i contatti tra i paesi erano sporadici e saltuari.

Noi, nella nostra accelerazione degli anni Zero, abbiamo una diversa coscienza sia del tempo che della distanza, le due grandi “verità a priori” (secondo la prospettiva kantiana). Molto tempo fa, quando il tempo era più lento e le distanze più lunghe, le fiabe raccontate divennero un’inesauribile ricchezza; che oggi, fortunatamente, ci vengono ripresentate, perché anche noi possiamo renderci conto che, forse, rallentare potrebbe anche voler dire re-imparare ad ascoltare.

“10 Libri dell’estate da Editore”: Edizioni Cento Autori

ROMA – Non esiste una stagione buona per dedicarsi alla lettura. Leggere un libro è un’esperienza straordinaria, che ti cattura e ti porta lontano. E quando ritorni alla realtà, ti senti appagato e arricchito. Tuttavia, l’estate è una stagione magica, leggera come la brezza marina ed è più facile e piacevole lasciarsi andare sulle ali della fantasia…Con queste parole le Edizioni Cento Autori spiegano perché leggere d’estate e ci consigliano i loro “10 Libri dell’estate da Editore”. Continua

"Sex and the Vatican": quando le inchieste rischiano di diventare marketing.

Giulio Gasperini
ROMA –
L’inchiesta “Sex and the Vatican”, pubblicata da Piemme nel 2011 e subito acquistata e pubblicata anche in Francia, è, come recita il sottotitolo, un “viaggio segreto nel regno dei casti”, un’inevitabile prosecuzione di un articolo, a firma dello stesso Carmelo Abbate, dal titolo “Le notti brave dei preti gay”, uscito in edicola su un numero di “Panorama” dell’estate scorsa.
L’articolo si interessava soltanto dei tanti preti gay che, dopo aver affollato i seminari, sono ordinati sacerdoti e inviati nelle parrocchie di tutto il mondo; costì, alcuni riescono a reprimere (ovviamente, reprimendo anche sé stessi) la loro naturale inclinazione naturale, altri riescono a viverla accettandosi e finanche considerandola parte della grazia di Dio, altri ancora la vivono in maniera disordinata e caotica, soffocante e inebriante, stordendosi di incontri sessuali e di passioni scostanti.

L’inchiesta di Abbate, invece, esplora ogni singolo aspetto della sessualità soffocata dalla tonaca, dalle dottrine e dalla tradizione di Madre Chiesa: a cominciare dai preti gay (e dalle tante e tante perversioni, finanche sacrileghe) per finire alle suore lesbiche, oppure ai figli dei preti e delle suore o ancora alle compagne e ai compagni di religiosi di tutto il mondo. Parallelamente, Abbate evidenzia anche il comportamento che, in determinate situazioni, viene perseguito dai vertici della Chiesa, dalla discrepanza ipocrita tra quelle che sono le direttive e le imposizioni e quelle che, invece, sono le azioni pratiche, sia contro terzi che contro sé stessi. La Santa Romana Chiesa, negli ultimi tempi, è stata costantemente al centro del dibattito, colpita da uno scandalo dopo l’altro: dai gravissimi casi di pedofilia ai più complessi dibattiti sui seminari, sulla loro utilità, e sul sempre più crescente diffondersi (complice anche internet e la comunicazione sfrenata) di comportamenti omosessuali tra i suoi rappresentanti, quelli che più a contatto con la gente e le persone svolgono il loro ministero. E sia chiaro: un prete gay, pure se sessualmente attivo, può svolgere il proprio compito e la propria missione in maniera decisamente migliore (e più fruttuosa) di un prete bigotto, attento soltanto a rispettare i formali precetti che non i morali bisogni.
A don Franco Barbero, Carmelo Abbate aveva promesso che non sarebbe stato pruriginoso; e, per sua stessa ammissione, è stata “una promessa che in parte non ho mantenuto”. Effettivamente, tale inchiesta, così sapidamente scritta e strategicamente pubblicata, rischia di virare da interessante inchiesta a riscatto bieco, a personale affondo contro un sistema che, oggettivamente e spregiudicatamente, ha delle pecche intollerabili. Però, più che un atto di accusa, “Sex and the Vatican” corre il rischio di convertirsi in una cieca crociata: proprio di quel tenore che, alla Chiesa, tutti rimproverano di perseguire con così spietata disumanità.

"Papà Mekong", dove ancora si può scommettere sull’intima bontà dell’uomo.

Giulio Gasperini
ROMA –
Arduo è scrivere un romanzo che abbia come argomento i viaggi. Perché si rischia di essere pedanti, di scrivere inutili glosse, di voler dare troppe informazioni che pertengono più a una guida turistica che non a un prodotto di finzione narrativa. Corrado Ruggeri, consumato giornalista ed esperto viaggiatore, ha pubblicato per
Infinito Edizioni, casa editrice dalla vocazione del sociale, “Papà Mekong” (2011, collana Grandangolo), un libro che su questi due fronti (guida vs. romanzo) si dondola con misura e sobrietà.
È una storia, quella di “Papà Mekong”, che si orchestra tramite l’allacciarsi e l’intersecarsi di tante altre storie: tante individualità che, spesso gravate da un passato ingombrante e prepotente, si trovano a toccarsi, anche solo a sfiorarsi, in una progressione alla casualità che pare piuttosto un disegno geometrico del destino.

Silvia è la donna che trova un messaggio del padre, morto da anni, e principia a indagare nell’Oriente sulla vera persona del padre; Amina è la ragazza che attraversa un’infanzia difficile e spietata e trova conforto spirituale nel lavoro a Kalighat, dalle Missionarie della Carità, e conforto sentimentale tra le braccia del giovane dottore Peu; Pietro è l’uomo d’affari italiano con un passato oscuro, e un ancor più oscuro avvenire; Wong è la donna che si prostituisce per vivere, e rimane vittima innocente del suo primo e vero (quanto magari involontario) amore. Tutte storie nelle quali la lontananza gioca un ruolo fondamentale, e nelle quali in qualche caso si trasforma in un crudele addio, in altre sa evolversi e coniugarsi in un’attesa più pura e proficua.

Corrado Ruggeri né giudica né valuta. Soltanto, si fa burattinaio, abile tessitore di fili – in qualche caso fors’anche troppo prevedibili o esasperati – d’una vita che sa rifiorire anche in luoghi di dolore e di sofferenza, tra i lebbrosi della mitica Kolkata o tra i bambini orfani d’una terra martoriata da guerre inspiegabili. Su tutti questi travasi di sorte e su tutti questi frammenti di dolore domina quella che una giovane donna, ostaggio dell’odio immotivato, definì “l’intima bontà dell’uomo”: la capacità, cioè, di rendersi partecipi del dolore degli altri (la nobile compassione!) e di attivarsi affinché il dolore non rimanga soltanto una fotografia, una denuncia sterile, ma possa significarsi in un domani migliore, in un altro giorno che non sia manifesto di propaganda né pura retorica. E tutto questo Ruggeri lo fa mai scivolando nel sentimentalismo, in cui così facilmente si può sprofondare descrivendo storie come questa.
Forse l’autore esagera troppo le casualità, che sono chiamate a edificare un destino; ma il risultato (e il messaggio finale) si smarcano decisamente dalla fiction narrativa, per rappresentarsi indipendenti e per veicolare il messaggio più nobile di tutti: il rispetto d’ogni vita e d’ogni dignità, a ogni latitudine e longitudine.

Al “Gigliesca 2011” si discute dell’acqua.

ISOLA DEL GIGLIO (Gr) – Alla Dogana, sul Lungomare del Porto, nella splendida Isola del Giglio, nell’arcipelago toscano, sabato 25 giugno 2011 si terrà la prima edizione del Festival Gigliesca. Quest’anno l’argomento della manifestazione sarà l’acqua, risorsa fondamentale e imprescindibile per la vita, la cui scarsità sta sempre più assumendo i connotati di una tragedia umanitaria (si considera che, le prossime guerre, nel mondo, non saranno causate dal petrolio e dal suo approvvigionamento ma dall’acqua stessa).

Alle ore 19 Paolo Sortino, autore di Elisabeth (Einaudi), e Armando Schiaffino, Presidente del Circolo culturale gigliese, apriranno i lavori, intessendo un dialogo sull’argomento del Festival, mentre a seguire Patrizia Laurano, autrice di Garibaldi fu sfruttato (effequ), collegherà l’argomento dell’acqua con quello “re” dell’anno 2011: i 150 anni dell’Unità della nostra penisola, parlando di Garibaldi e l’acqua. A conclusione dei lavori il sindaco Sergio Ortelli premierà il vincitore dell’edizione 2011 del Premio Letterario “Isola del Giglio”.

Alle ore 22, invece, per chiudere i lavori della manifestazione, al Porto della Baia del Saraceno, suoneranno I Gatti Mézzi, presentando “un concerto di swing e canzoni acquatiche dall’Arno al Tirreno”.

"Virginia Woolf e il giardino bianco": perché non si dovrebbe scherzare sui santi.

Giulio Gasperini
ROMA –
Stephanie Barron ha la febbre dei gialli letterari: dalla sua pena è nata, da qualche anno, la nuova declinazione di Jane Austen che, senza denaro e non ancora pubblicato The Pride and the Prejudice, si diverte a indagare e risolvere i piccoli misteri delle campagne inglesi. In questo nuovo romanzo, invece, la Barron tiene a riposo l’autrice di Mansfield Park ed Emma, e decide di riesumare alla modernità un’altra autrice cardine di tutta la letteratura del ‘900: niente meno che la Woolf, Virginia Woolf. In “Virginia Woolf e il giardino bianco”, pubblicato da TEA nella Narrativa, si diverte, la Barron, a inventare gli ultimi giorni di vita della grande scrittrice inglese.

Tutti conosciamo la sua morte: il 28 marzo 1941 uscì dalla sua casa nel Sussex, dove viveva con il marito Leonard, raggiunse le rive dell’Ouse, si riempì le tasche del soprabito di pietre e si abbandonò alla corrente. Nella mia fine è il mio principio, scrisse Agatha Christie: e proprio da qui, dalla fine, la Barron principia la sua indagine poliziesca, una sorta di thriller da architettura di giardini.

Il corpo della Woolf fu trovato soltanto molti giorni dopo la sua scomparsa: è possibile che la scrittrice avesse soltanto simulato il suo suicidio per sparire e poi uccidersi molti giorni dopo la data ritenuta ufficiale? Dove aveva passato questo arco di tempo? Da chi si era rifugiata?
La detective improvvisata è, appunto, un architetto del paesaggio, Jo Bellamy, che approda a Sissinghurst Castle per studiare (e ricostruirlo, negli States, per un suo cliente/amante) il famoso White Garden che la scrittrice Vita Sackville-West (raffinata scrittrice, coraggiosa viaggiatrice e appassionata amante anche omosessuale) aveva creato per la sua amata Virginia: un giardino completamente bianco, in ogni dettaglio. Qui, in un casale dimesso della proprietà, la Bellamy rinvenirà un diario, scritto pare da Virginia stessa, che principia con la data successiva a quella, conosciuta e ufficiale, della sua morte.
La saggezza popolare ci ammoniva (e il sagrestano della Tosca lo cantava con sguardo torvo) che coi fanti si può anche scherzare, ma che i santi devono esser lasciati in pace. E se la storia è incalzante e il romanzo scorrevole, alla fine della lettura rimane un po’ l’agrodolce retrogusto (e l’assurdità imbarazzante) di essersi, effettivamente, troppo baloccati coi (e sui) santi. Mentre, al contrario, i santi andrebbero lasciati in pace, soprattutto quando possono (e devono) godere meritatamente della loro letteraria giusta gloria.

"Siamo stati diseducati alla sopportazione della sofferenza". ChrL intervista Lorenzo Minoli.

Giulio Gasperini
ROMA – Capita spesso che autore e recensore non si accordino sulla comprensione di un romanzo. E che il confronto tra i due sia faticoso e finanche un po’ arido, se non si ha la possibilità di confrontarsi serratamente per edificare, insieme, una possibile chiave di lettura. In queste situazioni sarebbe più opportuno realizzare un’intervista con l’arte del contraddittorio. Ma, si sa, non sempre è possibile, soprattutto in quest’epoca dove, se si può affidare tutto alla procura d’un computer, nessuno riesce a sottrarsi. In questo caso è avvenuto così: non ho avuto la possibilità di confrontarmi passo dopo passo con l’autore, Lorenzo Minoli, sui tanti luoghi del suo romanzo, “Il momento perfetto”, sui quali mi sarei, con lui, confrontato apertamente.

Come prima domanda le darei l’opportunità d’un chiarimento (che serve in primo luogo a me). Dopo aver letto la mia recensione, lei mi ha scritto che l’aveva trovata un po’ “cattiva” e che, a suo parere, non avevo centrato il tema. Vorrei che mi chiarisse questa prospettiva, per la quale avrei frainteso il suo romanzo.

Innanzitutto mi pare che ci sia una differenza importante tra il commento/giudizio in generale e le stelle date (si tratta del sistema di voto di http://www.anobii.com/ N.d.I.). Non che onestamente mi importi più di tanto ma mi piacerebbe capire come si va da quel che viene scritto sul libro ad una valutazione così bassa. Infine non ho proprio capito il penultimo paragrafo “Le prove si susseguono, con i soliti padri autoritari, le madri soffocanti d’affetto, le fidanzate asfissianti, le crisi prodotte dalla fine delle illusioni: ogni volta la storia pare un copione perfetto, con ritardi più o meno bilanciati, ma pur sempre con tappe obbligate, che non possono esitare nel presentarsi. Lorenzo Minoli gioca a riscrivere la sua personale versione del perfetto copione del perfetto adolescente: che ogni volta ha un nome e un carattere diverso, un fisico e un colore di occhi nuovo, ma che, alla fine, indaga sempre per le stesse risposte.” In realtà sembra che si sia letto un altro libro, non ritrovo nulla di tutto questo nella storia. Le fidanzate non sono asfissianti: sono incerte e spaventate dall’insicurezza del giovane che non ha gli strumenti emotivi e culturali per capire cosa succede intorno a lui. Di madri soffocanti d’affetto non ce n’è neanche una, semmai una (quella di Francine) comprensiva e “madre”; l’altra proprio l’opposto della madre affettiva. Infine proprio non ho capito il concetto di riscrittura della stessa storia con caratteri diversi. Quali sono questi caratteri diversi?

Mi pare persino troppo banale chiederle che tipo di apporto abbia avuto, nella stesura del romanzo, la sua esperienza come sceneggiatore. Quel che invece mi interessa chiederle è se, secondo lei, sia facile scrivere la sceneggiatura di un film, cosiddetto, “di formazione”. Ne abbiamo visti tanti, di codesti film, ma molti sono tutt’altro che riusciti; e tanti altri ancora contrabbandati come tali ma totalmente lontani dall’essenza della definizione stessa…
Non è banale, la domanda, perché in realtà questo è sempre stato il mio modo di scrivere ispirato dalla letteratura sudamericana; da certa letteratura nordamericana. Certo l’essere anche sceneggiatore mi da i “tempi” ma è tutto li. In quanto a film di “formazione” la definizione mi pare molto ampia: Qualcuno volò sul nido del cuculo, Zabriski Point, Blow Up, Un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Uomini contro tanto per citarne alcuni mi sembrano films di “formazione” in quanto tendono a “formare” animo e cuore. Certo se si vuol parlare di Laura Antonelli e Momo allora sono d’accordo quelli erano films lontani dall’essenza della formazione, ma così non lo erano, ad esempio, La guerra dei bottoni e I ragazzi della via Paal.

Fausta Cialente, nel suo racconto Pamela o la bella estate, condanna la sua eroina a un destino simile al protagonista del suo libro. E anche Woody Allen, in Vicky Cristina Barcelona, pare sottostare allo stesso concetto di fondo: l’estate è la stagione in cui, più di altre, si rischia la crescita, la maturazione, il compimento un cammino cominciato magari altrove ma mai concluso. La sua scelta dell’estate, come scenografia temporale del romanzo, sottostà a questi ragionamenti o ha altre motivazioni?
Nella mia storia l’estate è casuale ed è anche una breve presenza. La storia è in flash back, copre tutte le stagioni. Poi si può dire che l’estate facilita certe situazioni sentimentali ed esistenziali perché col tempo libero specie quando si è studenti si pensa di più al proprio “io” perché ce lo si può permettere e io credo anche perché lo “spogliarsi” fisicamente dei vestiti ci spinge quasi naturalmente verso una libertà esteriore e interiore più difficile quando siamo “vestiti”, “protetti” da vari strati di indumenti. Una mia ipotesi, forse troppo cinematografica anche questa.

Adesso una domanda un po’ campanilista: come mai è così affezionato (come parrebbe dalla lettura del romanzo) a quelle che sono i miei luoghi, le mie coste, i miei piccoli angoli di paradiso, ovvero alla Maremma grossetana?
Sono arrivato in Maremma nel 1963. C’erano stradine di terra (poche), cinghiali (tanti) zanzare (tantissime e grandi come elicotteri). Pochi coraggiosi villeggianti e tanta, tantissima libertà e felicità. Da allora ho passato TUTTE le mie estati in Maremma almeno per un mese. Anche durante i miei vent’anni di USA ho portato tutte le estati i miei figli a passare le vacanze in Maremma, che per me è Maremma non Toscana. Amo le pinete, i venti, i rumori dei boschi, il mare, la durezza della terra e la bellezza della stessa. È nel mio cuore, scolpita e indelebile.

La feroce ma fredda rabbia (per l’impotenza e magari il rimpianto) di Gianni, lo smarrito e impacciato dolore di Maria, la presenza incombente di Francine: crede possibili tali sentimenti ancora ai nostri tempi, nei quali la velocità delle nostre vite rende ogni scalino umano di crescita più un inciampo che un’occasione per maturare?

Credo che il problema, perché è un problema, al giorno nostro è che siamo stati diseducati alla sopportazione della sofferenza, non fine a se stessa ma come necessario e certe volte ineluttabile, passaggio per il raggiungimento dei nostri traguardi crescita compresa. La sofferenza (della quale non ci si deve compiacere ovviamente) è una parte necessaria per prepararci alla separazione finale. Ma la cultura attuale ha diseducato particolarmente i giovani ed ha fatto un pessimo servizio perché la continua ricerca ad evitare la sofferenza devia certe volte la vita di alcuni di noi e ne varia le aspirazioni finali, abbassandone la qualità. Lo sport lo insegna: con allenamenti duri, con determinazione e tenacia si può aspirare a vincere. Senza si può aspirare semmai eventualmente forse certe volte quando le gare sono proprio facili a partecipare.

Una domanda, per concludere, che noi di ChronicaLibri rivolgiamo a ogni scrittore: potrebbe dirci quali sono (e per quale motivo) le sue tre parole preferite?
Preferite non so; importanti:
Morte. È la fine, oppure l’inizio? E’ un dilemma che mi intriga.
Speranza. Senza non si vive, senza non si butta il cuore oltre l’ostacolo ed allora si vive una vita noiosa
Donna. È tutto. Continuità, madre, moglie, piacere, folle incomprensione, totale coinvolgimento. È tutto e il contrario di tutto.

“I viaggi dei miei eroi li ho immaginati, li ho percorsi, li ho fotografati, li ho desiderati, per molti anni". ChrL intervista Luigi Farrauto

Giulio Gasperini
ROMA –
Non potevo certo esimermi dall’intervistare Luigi! Troppe le passioni comuni, dai viaggi ai suq dell’oriente; troppi gli stessi richiami ad attrarci, le stesse seduzioni a vincerci. Troppo appassionante è stata la lettura del suo romanzo per non avere mille e una domanda da rivolgergli; troppe curiosità che volevano, perentoriamente essere soddisfatte. Ne è venuto fuori un confronto amichevole e stimolante, come se due vecchi amici si fossero fermati, per un attimo, e si fossero ritrovati sotto un medesimo cielo, a distanza di tempo in quantificabile; e si volessero confidare a vicenda tutte le strade percorse. L’intervista è lunga, quasi una doppia confessione (e, come tale, non ho voluto tagliare neppure una virgola!); abbi la pazienza di arrivare sino in fondo. Perché non ne sarai per nulla deluso.

Io sono un adoratore di Oriana Fallaci. E lei scrisse un romanzo che, come il tuo, ha come palcoscenico privilegiato il Medio Oriente. In questo romanzo Oriana costruì la sua particolare teoria del caso e del destino. Nel tuo libro ugualmente queste due entità quasi mitiche hanno un ruolo fondamentale. È per caso la cultura mediorientale che, più di altre, pone irrimediabilmente di fronte a queste due grandi estensioni causali che riguardano l’uomo?
Caso e destino sono entità forse onnipresenti in ogni forma di cultura, tradizione, arte. Non so se in Medioriente queste due estensioni abbiano una valenza diversa, o tanto diversa dalla nostra. Non ho le competenze per dirlo con precisione.
Nel romanzo il mio rimando al destino è sempre a un “destino tangibile”, un destino modificabile come le impostazioni di una macchina fotografica. Dunque il destino di un’immagine diviene “il restare appeso a testa in giù, in attesa di un Giudizio Universale, e magari finire nel cestino in mille pezzi”, e il protagonista “è come un dio minore alle prese con esercizi di creazione”, come un padre che può decidere quale sarà il carattere di suo figlio…
Di sicuro fare esperienza del Medioriente espone al mito, al fascino della storia, perché sono ovunque, è impossibile per chi viaggia in quei paesi non notarlo. E come tutti i luoghi che sono anche ‘luoghi dell’anima’, il Medioriente porta a riflettere molto, forse anche su caso e destino, sul concetto di distanza e di sorte. Poi, credo sia il ‘destino’ di chi si innamora di quei luoghi, il doverli raccontare e condividere…
Nel descrivere lo scenario della narrazione ho cercato di evocare le atmosfere più magiche legate al termine “medioriente”. Quelle delle Mille e una Notte, un romanzo in cui il ‘destino’ è affidato al racconto: Sherazad vince la morte descrivendo mille vite, una dentro l’altra. Mille mondi. Quello è il mondo arabo a cui faccio riferimento: imperfetto e umano, atmosferico e sensazionale.
Riguardo alla Fallaci, non conosco la sua particolare teoria su caso e destino. Né ho letto i suoi romanzi ambientati in Medioriente. Oriana Fallaci ha raccontato per una vita, e con passione, quella terra che entrambi amiamo. Ma del mondo arabo abbiamo due visioni totalmente opposte. Quello che ho descritto io non è affatto lo stesso mondo, lei lo vedeva un po’ come una minaccia, per rimanere in tema ‘destino’… A mio avviso così facendo si alimenta il fuoco della paura, esotizzando il mondo arabo inutilmente. Io credo che il ‘destino’ dell’umanità sia creare ponti, e percorrerli in entrambe le direzioni. Onestamente non ho mai compreso questa sua paura di una “islamizzazione dell’Occidente”, mi piace vedere la contaminazione culturale come un valore, che può farci crescere tutti, creando significati nuovi e più ricchi. È un processo che dura da millenni…



Io non credo al destino. La trovo una presuntuosa maniera, dell’uomo, di scaricarsi di responsabilità: come se ci si volesse smarcare dal potere dell’iniziativa e dalla nostra capacità di saper contrastare le situazioni, sia avverse che alleate. Potresti esporci la tua personale visione del caso e del destino?
Sono d’accordo con te. Non ci credo nemmeno io, al destino; sono convinto che sia solo l’individuo l’artefice del proprio futuro. Però credo alle coincidenze. Di quelle il mondo è pieno. Di ‘casualità’. E se guardiamo la terra come una rete fittissima di connessioni, le coincidenze si spiegano facilmente. Niente metafisica o escatologia. Io sono una di quelle persone a cui si è inceppata la “sospensione del giudizio”. Non credo a niente che possa muoversi senza essere mosso. Non amo la fantascienza, nemmeno al cinema, non mi coinvolge.
‘Destino’ è una parola di cui si fa grande uso. Il romanzo ne è pieno. Nella mia mente, comunque, caso e destino differiscono solo per significante. “La fortuna è questione di geografia”.
Nella narrazione ‘caso’ e ‘destino’ hanno molta importanza. Sono le infinite combinazioni foto-chimiche di un’immagine, le infinite strade che si possono percorrere durante un viaggio. Sono le strade prese e quelle perse. È la consapevolezza che in un rullino ci siano concesse solo 36 foto.
Nella camera oscura, come nella finzione letteraria, non c’è limite, non c’è destino. C’è inventio e dispositio. Tecnica e sensiblità. Quello è il bello…


Questi tuoi personaggi, così distanti e manichei, a un certo punto si incontrano nella dimensione del viaggio, in quell’esperienza che Kapuscinski avrebbe definito del “varcare la frontiera”. Quanto ti sei divertito a immaginare i viaggi dei tuoi eroi? E ancora, quanto ti sei divertito (e ti diverti) tu in primis, a viaggiare?
Adoro Kapuscinski. Lui è uno che il mondo lo ha percorso per davvero, e con curiosità. Mi ha insegnato che il “Varcare la frontiera” non è solo un movimento del corpo. C’è un universo intero dentro quelle parole.
Il viaggio ‘vero’ mi dà dipendenza non perché mi diverte, ma perché mi arricchisce. Io visiterei qualunque paese del mondo, senza fermarmi mai, se solo potessi. Viaggiare soddisfa la mia curiosità, ma è una droga sottile ed efficace, difficile smettere.
I viaggi dei miei eroi li ho immaginati, li ho percorsi, li ho fotografati, li ho desiderati, per molti anni.
A piccole dosi. Progettare, descrivere e raccontare un viaggio immaginario, un viaggio di altri, è stato bizzarro. È un’attività emozionalmente complessa. Da un lato, la vertigine di libertà data dal poter raccontare, potenzialmente, di qualunque paese del mondo. Quindi in un certo senso ‘visitarli’. Anche quelli più sperduti, o in cui nessuno si sognerebbe mai di andare. Dall’altro lato, la frustrazione che evocare certi luoghi provoca, perché a furia raccontarli ci si affeziona, e ci si vuole andare davvero, e al più presto… Per cui si scende a compromessi, luoghi ed esperienze vissute e accessibili…
Scrivere di viaggi altrui è un po’ come lavorare per un’agenzia turistica: gratifica, apre l’immaginazione ma fa rosicare.


Come te, adoro i suq. Mi sono smarrito in quello di Gerusalemme, coi suoi quattro quartieri, sempre cogli occhi rivolti al cielo, ai colori, ai suoni e agli odori; mi son divertito in quello di Luxor, trattando per l’acquisto di due bellissime sciarpe di seta; ho mangiato il kebab più buono della mia vita in quello di Betlemme, in Palestina. Io cerco sempre di descrivere (e far capire) agli altri il fascino di questi luoghi, ma certe volte non son convinto di riuscirci. Tu come tenti, di solito, di stupire il prossimo nella scoperta di un luogo?L’unica soluzione è “mandarli a quel paese”. Nel vero senso della parola, intendo. Non c’è modo migliore, per comprendere le atmosfere del Medioriente, che andarci. Fare il passaporto e prendere un volo. A parole è difficile. Le foto un po’ aiutano, ma è l’esperienza diretta che colpisce. Il vento della Palestina, l’odore di Damasco, la vitalità del Cairo… le parole non bastano per raccontarli, non trovi? Occorre andarci di persona. Perdercisi dentro. Poi ne riparliamo. Per questo spero che il mio romanzo venga visto come un “invito al viaggio”, al valicare la frontiera…


Ps.: a Betlemme fanno anche l’hummus migliore di tutto il Medioriente!


Sai che la geografia sta letteralmente sparendo dai programmi scolastici? Come me provi un incontenibile moto di disgusto per queste infauste decisioni (io, tanto per dire, tengo appesa a una parete della mia stanza un enorme planisfero anticato della Terra)?
Sono contento che tu mi faccia questa domanda. La questione della geografia è preoccupante. Sono un appassionato di cartografia, sto facendo un dottorato sulle mappe e l’immagine della città, la mia è una sorta di perversione iconica per le mappe. Ne ho di ogni forma e colore, e sapere che faranno la fine dei vinili, dimenticati e schiacciati dalle tecnologie, mi rattristisce molto. Quando sfoglio un atlante provo le stesse sensazioni che si hanno guardando un animale in via di estinzione, destinato a diventare vintage e chissà pure un po’ chic.
A mio avviso il recente attacco alla geografia nelle scuole pubbliche è uno dei tanti simboli del degrado culturale che l’Italia sta vivendo negli ultimi anni. Mi piace come hai definito la tua reazione, “incontenibile moto di disgusto”. Ecco, i termini sono quelli. La geografia dovrebbe essere una conoscenza propedeutica a qualunque studio, ma nel trivio e quadrivio dell’Italia non c’è spazio per queste conoscenze. Ma se ci pensi la tecnica funziona. Meglio non sapere che quasi condividiamo più cose col mondo arabo che con gli inglesi, meglio lasciare le città mediorientali nel retro delle nostre mappe mentali, nella parte più nascosta possibile, così continueranno a farci sempre più paura; meglio ignorare chi ci sta attorno, meglio lasciare la ragione al suo sonno, così i mostri saranno sempre più avvincenti…
Mi rendo conto che la geografia non sia proprio il problema principale del nostro paese, però è l’ennesima frustrazione.
Nonostante il mondo sia sempre più a portata di mano di chiunque, nonostante ora sia possibile in qualunque momento ottenere informazioni su tutti i meandri del mondo, la conoscenza della geografia è diventata obsoleta, retrò. Gli unici posti che appartengono alle nostre mappe mentali sono vaghi scenari di guerra e bombe, villaggi vacanze tutti uguali e città di cui si ha letto qualcosa. Per questo motivo ho voluto dare tanta carica simbolica alle mie descrizioni del Medioriente. Volevo aggiungere un pezzo alla mappa mentale dei miei lettori. Come ogni mappa offrendo una visione parziale e mediata, ma per una volta dalla curiosità piuttosto che dalla paura. Ho messo il mio. Almeno ci ho provato…
Tornando alla geografia, la società moderna ci ha illusi di conoscere il mondo solo perché abbiamo le tecnologie più moderne per attingere a dati e informazioni, in ogni momento. Ma la conoscenza del mondo è altro. Il mondo è fatto di connessioni, di contaminazioni, di storie, di significati, difficilmente inferibili con l’iPhone. Non c’è niente attorno alla mappa di Google Earth consultabile anche seduti sul water. Hic sunt leones. Tutta arabia, quella…


Luigi, adesso una domanda che noi di ChronicaLibri rivolgiamo spesso agli scrittori: quali sono le tue tre parole preferite?
Ma intendi per suono o significato?
Per il significato “contaminazione”, “chilometri” e “oriente”
Per il suono la mia preferita è “sicché”, anche se non la uso mai, e dovrei.