“La neve nell’armadio”: spiegare “la vergogna del mondo”

 

Marianna Abbate

ROMA – “La storia/ quella vera/ che nessuno studia/ che oggi ai più da soltanto fastidio”: Sono questi i primi tristi versi della poesia di Nelo Risi che Mottinelli ha scelto per intitolare il suo saggio “La neve nell’armadio” Auschwitz e la “vergogna del mondo” edito da Giuntina.

Vi riporto questi versi perché io stessa ho sperimentato il fastidio delle persone al mio ennesimo ritorno sulla questione dei campi di concentramento: è un’ossessione, mi dicono, sei depressa e ti crogioli nella tragedia. Ci ho riflettuto a lungo su queste parole. Perché sì, è vero che parlo di Auschwitz spesso. Lo riporto alla memoria di chi porta la croce celtica al collo, di chi osa dire che Mussolini era un grand’uomo, di chi difende il fascismo o accusa gli ebrei. Lo ricordo a chi tranquillamente non cambia canale quando in televisione torturano qualcuno, a chi non mostra pietà per le vittime delle tragedie quotidiane.

Questa tragedia abita il mio cuore, è vero. Ma non è un’ossessione: è un obbligo morale.

Mottinelli ci avvicina ad Auschwitz in una direzione nuova: l’analisi della vergogna. Una vergogna innominata che aleggia su tutti gli eventi che riguardano la Shoah. E una vergogna che inspiegabilmente non appartiene ai carnefici ma alle vittime, che ferisce ulteriormente chi già ha subito le peggiori torture del mondo.

L’autore ci spiega come questa vergogna cambi volto nelle diverse rappresentazioni del campo di concentramento. La vergogna quasi completamente assente come parola nel documentario, lungo oltre 9 ore, di Lanzmann Shoah, pronunciata una volta sola: eppure pienamente presente in ogni immagine, nei silenzi e negli occhi di chi racconta la sua testimonianza, incalzato dal meticoloso regista.

La stessa vergogna si può ritrovare nei racconti di testimoni, nei loro scritti. “Provavo vergogna per loro, per come ci avevano ridotte” dice Goti Bauer. Con un semplice transfer la colpa passa dal carnefice alla vittima, secondo lo stesso meccanismo che segna di peccato l’oggetto di una violenza carnale. E’ il torturato stesso a cercare in sé improbabili colpe, per giustificare la terribile pena che ha subito.

La vergogna ha mille volti: quello del Sonderkommando che non ha saputo ribellarsi al terribile compito, quello di chi non ha saputo guardare in faccia l’assassino, di chi non ha alzato la voce quando davanti ai suoi occhi uccidevano un bambino. La vergogna ha il volto di chi è tornato e non lo meritava, insultato in faccia da chi aspettava che tornasse l’altro. Ha il volto di quello che non riesce a guardarsi allo specchio, ripensando agli atroci martiri che ha subito, alle umiliazioni che ha sopportato.

Ha il volto di Primo Levi, che si guardava disgustato della propria bassezza quando supplicava per un tozzo di pane. Quella stessa vergogna che lo portava a chiudere con attenzione i polsini delle camicie per non mostrare quell’orribile tatuaggio. Quel numero che era impresso nelle sue viscere, e che ormai era il suo vero nome.

La vergogna ha un peso. Forse il più insopportabile.

Come spiegare altrimenti i lunghi silenzi dei salvati? La fatica a trovare le parole che potessero spiegare quello che si è vissuto? Come far capire Auschwitz?

Quel campo per molti è diventata l’unica casa possibile, l’unico posto da abitare. Il luogo dove si sentivano compresi.

Fuori da queste mura non c’è un posto da vivere per chi ha “vergogna del mondo”.

 

 

“Le confessioni di Noa Weber”. Gerusalemme diventa Manhattan

Marianna Abbate
ROMA – Una carriera di successo, la fama e il benessere. Una vita passata tra l’elite culturale di Gerusalemme, mille amori e una figlia. Sembrerebbe quasi la trama di un telefilm americano.

E invece è un libro, “Le confessioni di Noa Weber” e tutto si svolge a Gerusalemme. Come è facile immaginare l’ambientazione stravolge completamente la visione del romanzo e con essa la vita della protagonista. A partire dal fatto che ha dovuto sposarsi giovanissima per evitare il servizio militare (questo non sarebbe mai potuto succedere a New York).

Eppure i sentimenti sono gli stessi in tutto il mondo e l’amore adora fare scherzi inopportuni. Così Noa, la donna amata e ammirata da tutti, è schiava di una storia antica- di un amore finito e forse mai iniziato.

Quello studente anarchico, quel giovane promettente che l’ha sposata per solidarietà sociale ed è subito sparito dalla sua vita, è entrato nei suoi sogni, nei suoi pensieri e nel suo ventre. Perché quella figlia, così bella, non fa che ricordarle ogni giorno l’uomo perduto.

E non servono a nulla gli uomini che passano per caso dal suo letto, se non riescono ad aprire il suo cuore. Tra flash back e quotidiano riviviamo passo dopo passo i fatti e le sensazioni che l’hanno portata ad un oggi nostalgico e agguerrito. Noa non si arrende: aspetta ogni istante il momento del ritorno di quel ragazzo, ormai adulto, che le ha rubato il sonno tanto tempo fa. Un amore che diventa ossessione, pensiero fisso- martellante.

Capitoli brevi, sussultori- un paio di pagine appena, molti dei quali portano il nome di Alek, quasi a scandire il tempo passato lontano e quello passato insieme- fosse anche solo nei pensieri.

Una narrazione emotiva e coinvolgente che ha fatto di Gail Hareven una scrittrice pluripremiata tra Israele e Stati Uniti. E ora grazie a Giuntina, possiamo leggerla anche in Italia.

 

Storia e astrologia in “Gli ebrei di Saturno”


Silvia Notarangelo

ROMAMoshe Idel è uno dei maggiori esperti di mistica e pensiero ebraico. Il suo nuovo saggio, “Gli ebrei di Saturno”, edito da Giuntina, è il risultato di un lavoro lungo e meticoloso che ha l’obiettivo di sviscerare, attraverso un’attenta analisi filologica e semiotica, il suggestivo legame tra il popolo ebraico e il Pianeta di Saturno.
Un rapporto che, nel corso del tempo, è stato oggetto di riflessione da parte di molteplici discipline e che continua, ancora oggi, a suscitare interesse e curiosità. Lo studioso, mediante numerosissime testimonianze sia edite sia inedite, recupera elementi del paganesimo antico e, in particolare, dell’astrologia, riuscendo ad evidenziare magistralmente le loro ripercussioni sulla dottrina ebraica e sulla sua percezione esterna.
Inizialmente le fonti citate pongono l’accento sugli attributi e le caratteristiche negative del dio-pianeta, su quegli aspetti più sinistri in virtù dei quali era attribuita agli ebrei la pratica di forme e rituali magici. Poi si registra un’evoluzione: a partire dal XII secolo viene riconosciuta a Saturno una “struttura concettuale positiva” legata a doti particolari, quali la genialità, la sapienza, la profezia. Tutte qualità che risulteranno decisive nella vicenda personale di Shabbetay Tzvi, il più celebre dei Messia ebrei “nel bene e nel male”. Al centro degli studi più recenti vi è, invece, la peculiare relazione tra il Pianeta e la malinconia, uno stato d’animo che può condurre anche a gesti estremi e che, talvolta, è stato considerato “quasi congenito al giudaismo”.
Pur esprimendo, in alcuni casi, dei giudizi abbastanza definitivi – la presunta correlazione ebraismo-malinconia, ad esempio, è ritenuta da Idel una forzatura connessa a “strutture culturali o all’influenza di determinati testi” – lo studioso si dice comunque convinto della necessità di continuare ad approfondire le tematiche da lui esaminate, in primis attraverso “un’analisi corretta dei materiali ebraici”. Si augura, soprattutto, che sia possibile sviluppare una concezione della storia in grado di ammettere “una varietà di correnti concomitanti diverse, che si sovrappongono e si oppongono simultaneamente”, nell’ottica di “un approccio interdisciplinare che rifletta la dinamica dell’evoluzione storica”.

“10 Libri dell’Estate da Editore… Giuntina”

ROMA – Dopo il successo della scorsa estate, ChronicaLibri apre nuovamente le porte agli editori per un’estate tutta da leggere. ChronicaLibri è letture, recensioni e interviste. ChronicaLibri è un punto di vista sulla letteratura  e sul mondo editoriale, un posto privilegiato dal quale parlare di libri e per i libri con i lettori, gli scrittori e le case editrici. Proprio a quest’ultime, il nostro giornale vuole offrire una vetrina per “suggerire” ai lettori quali libri portare in vacanza.

 

 

Cominciamo oggi con i suggerimenti de La Giuntina, la casa editrice fiorentina nata nel 1980.

1. 1948 di Yoram Kaniuk
2. Il ghetto di Varsavia lotta di Erek Edelman
3. Il Fantasma del ghetto di Jacquot Grunewald
4. Il terzo Testamento di Luigi Spagnolo
5. L’Affaire Dreyfus di Emilie Zola
6. Salta, corri, canta! di Lizzie Doron
7. La foto sulla spiaggia di Roberto Riccardi
8. Le sante dello scandalo di Erri De Luca
9. Stazioni intermedie di Vladimir Vertlib
10. L’Ebreo errante di Elie Wiesel

 

ChrL intervista Roberto Riccardi, autore de “La foto sulla spiaggia”

ROMA – Quando leggi un libro ti chiedi spesso – quasi sempre – come quel libro sia nato, a quali storie si sia ispirato, se sia stato frutto di immaginazione, studio o coincidenze. Molte volte, leggendo un buon libro, il lettore diventa curioso: vuole (pretende quasi) conoscere lo scrittore, capire come sia arrivato a dare vita a un romanzo. Con “La foto sulla spiaggia” le domande, per il lettore, si moltiplicano; perché dietro al libro pubblicato da Giuntina c’è un uomo che è scrittore, giornalista e colonnello dei Carabinieri. Allora la curiosità aumenta: perché Roberto Riccardi sceglie la foto di una bambina ebrea per costruire un grande romanzo storico? Io, da lettrice-giornalista curiosa, ho voluto intervistarlo.

Dopo “Sono stato un numero. Alberto Sed racconta” Roberto Riccardi torna sulla tematica della Shoah; come mai questa scelta?
I motivi sono tanti. Il primo è che, dopo aver conosciuto Sed, la Shoah è diventata una parte importante di me. Conoscere un ex deportato fa una bella differenza rispetto allo studio della Storia: ti cambia la vita. A me è successo, almeno. Da allora leggo tutto ciò che riguarda i lager, guardo i film, seguo i dibattiti, approfondisco. Dunque per me è stato naturale tornare sull’argomento e ho scelto di farlo con la narrativa. In una vicenda di fantasia possiamo mettere più facilmente noi stessi, era ciò che volevo fare.

Lei ha dichiarato che “il libro “La foto sulla spiaggia” è un cerchio che si chiude”. Ci spiega il perché?
Perché, quando volevo scrivere il mio primo libro, cioè la biografia di Sed, mi sono rivolto alla casa editrice Giuntina, specializzata sul tema, e ho conosciuto Daniel Vogelmann, il fondatore e direttore editoriale. Lui mi ha raccontato della sua sorellina mancata, Sissel, morta ad Auschwitz a otto anni. Il romanzo è dedicato a lei, parla della vita che Sissel poteva vivere ma le è stata negata.
“A cosa era servito percorrere tanta strada per andare a morire in un lager infame?” Secondo Lei, a settant’anni di distanza, ci si pone ancora questa domanda oppure ora si comincia a dimenticare?
Dimenticare Auschwitz è impossibile, per chi ha avuto la disgrazia di entrarci. Ognuno di loro ha ferite che non si possono rimarginare. Il 27 gennaio si celebra il Giorno della Memoria per ricordare quando, nel 1945, i cancelli del lager furono aperti e i pochi prigionieri rimasti, fra cui Primo Levi, tornarono liberi. Purtroppo quell’evento non ha potuto rendere la libertà alle coscienze, ai cuori, alle menti dei sopravvissuti. La stessa tragica fine di Levi, quarantadue anni dopo quel giorno, lo dimostra.
Il romanzo procede seguendo due storie parallele e da più punti di vista. Quanto conta l’intreccio narrativo in un libro?
Conta tanto, senza quello non c’è il libro, se l’intreccio non funziona il lettore va via a pagina 20. Utilizzare più punti di vista, più livelli di narrazione, è una tecnica molto diffusa nella letteratura contemporanea. Deriva dalla forte contaminazione fra le storie e le loro trasposizioni sullo schermo, tipica del nostro tempo. Mi sembra che questo funzioni, che piaccia.
Da scrittore quali sono le 3 parole che preferisce?
Il sogno di chi scrive (definirmi scrittore mi sembra eccessivo) è raggiungere la “magia delle parole”: quella che permette, con gli stessi vocaboli che tutti usiamo ogni giorno, di creare qualcosa che vada più lontano. Il valore aggiunto dell’arte. Così, tutte le parole sono importanti. Ma se devo scegliere, le mie tre sono: vita, amore, destino.

“La foto sulla spiaggia” e l’immortalità della Storia

Giulia Siena
ROMA
“Sara adesso era lì. Tutta la sua vita era lì, davanti a una porta chiusa. Sulle labbra una preghiera, nel cuore l’ansia e la speranza, due pulsioni che spesso si accompagnavano. Aspettando che qualcuno le aprisse, ogni istante divenne per lei interminabile”.


Parte da lontano Roberto Riccardi per raccontare “La foto sulla spiaggia”, il suo ultimo romanzo pubblicato da Giuntina. Parte da una foto, quella Sissel Vogelmann, scattata su una spiaggia molti anni prima. Dallo sguardo della bambina di otto anni che il 30 gennaio 1944 partì dalla stazione di Milano per arrivare ad Auschwitz, prende spunto questo nuovo e avvincente romanzo. Riccardi comincia il suo racconto su due binari paralleli e distanti: Bari e Auschwitz, due mondi e momenti diversi. Bari, anni Cinquanta: qui si incontrano e crescono insieme Alba e Nicola tra la voglia di ricominciare e la quiete del mare. Nonostante siano così diversi, i due giovani si sentono vicini, uniti da un legame che è amicizia e complicità. Alba è una ragazza di ottima famiglia e il suo affetto per Nicola, il nipote della “serva”, è strano, quasi impossibile agli occhi dei suoi amici. Ma Alba sta cambiando, tutto quello che la circonda sembra che non le appartenga, una vitauna alternativa alla sua vera vita. Simone è ad Auschwitz, aspettando di sapere quando morirà. Simone vorrebbe rivedere sua moglie e la loro piccola Sara. Il pensiero di aver perso la sua bambina rende le giornate in quell’inferno uno strazio costante.

Ma perché Alba e Simone, due voci lontane anche negli anni? Le loro storie parallele e concomitanti forse, tra le pagine, dovranno incontrarsi.

Roberto Riccardi costruisce un romanzo delicato, coinvolgente e ricco. Un romanzo storico pertinente con i fatti e denso di emozioni.

“Era una sensazione frustrante, come mettersi i vestiti di sempre e ritrovarseli addosso alla rovescia”.

Giuntina: "Le sante dello scandalo" di Erri De Luca

Giulia Siena

ROMA “Vanno contro le regole e sacrificano la loro eccezione. Il loro slancio è più solido di quello dei profeti, sono le sante dello scandalo. Non hanno nessun potere, né rango, eppure governano il tempo.” Oggi, nel giorno del compleanno di Erri De Luca, parliamo di un suo recentissimo libro. “Le sante dello scandalo”, pubblicato da qualche settimana dalla casa editrice  Giuntina, è la breve opera che sintetizza le figure di cinque donne alle quali si deve la “vita” del monoteismo. Di loro, donne coraggiose che hanno avuto la forza di abbandonare le proprie terre e credenze per seguire gli uomini, lo scrittore partenopeo descrive la tenacia, la bellezza e la modestia. Tamàr, Rahav, Rut, Betsabea e Maria rappresentano il punto di forza della storia del Cristianesimo poiché sono madri e “le madri sanno, poi subito dimenticano, ma in quel punto sanno dei figli il sanguigno destino”. Come conoscitore esperto dei testi biblici e della grammatica ebraica, Erri De Luca parte dalla spiegazione della profonda semplicità delle Scritture per sottolinare i ruoli ben distinti di donne e uomini e la diversa natura dei due generi.


“Mi basta sapere che non c’è volontà divina di punire quella prima donna, vertice di perfezione, con un maligno dolore. Mi basta sapere che il dito/grilletto puntato dai pulpiti, tu donna partorirai con dolore, è scarico, senza mandante.”

“Brodo senza pollo”, da Giuntina un doloroso diario di vita

Alessia Sità
ROMA – Il dramma della Shoah, un rapporto madre-figlio tormentato e determinante, una continua ricerca di riscatto per un’esistenza ingiusta e dolorosa.
Partendo dalla propria esperienza personale, Frans Pointl in “Brodo senza pollo”, edito nel 2011 da Giuntina, nella collana Diaspora, ci offre una raccolta di racconti di vita sofferti, ma continuamente venati da una disperata ricerca di speranza e di riscatto. Fra ricordi, incontri, e fantasie necessarie per poter continuare a vivere, David Blumenthal ripercorre la propria esistenza, soffermandosi sulla tragedia dell’invasione tedesca dell’Olanda e le conseguenze che questa triste pagina di storia ebbe su ogni componente della propria famiglia.
Attraverso numerosi flashback, il protagonista ricostruisce la propria vita e la propria sofferenza, in cui resta centrale il dramma della madre, sopravvissuta ai campi di concentramento e mai più riavutasi da quella tragedia umana.
Un diario che viaggia nel tempo, in cui passato e presente si mescolano di continuo, delineando gradualmente un’amara vicenda individuale.
Lentamente, il lettore riesce ad inquadrare i singoli personaggi con tutti i loro trascorsi, le loro esasperazioni e i loro drastici cambiamenti.
Un senso di solitudine e di tristezza pervade ogni pagina. L’impossibilità di mettere la parola ‘fine’ ad un passato troppo doloroso è sempre presente.

Frans Pointl ci regala un racconto di vita sofferto, ma abbastanza lucido nel ricordo della ormai lontana tradizione ebraica e nella descrizione di una società indifferente ed egoista