I nostri libri per l’estate 2013

CHRONICALIBRI al mareOSTIA – Siamo andati al mare. Per consigliarvi le letture per questa tanto attesa estate 2013, abbiamo affrontato il vento e la salsedine. Abbiamo scelto per voi e per le vostre vacanze – in montagna o al mare, in collina o in campagna, al lago o a pochi passi dal fiume, in città o in un tranquillo eremo – dei libri che per qualche motivo ci sono piaciuti o hanno attirato la nostra attenzione. Sono libri di diverso genere: romanzi, libri per ragazzi, saggi e racconti di viaggio che percorrono strade e storie che in qualche modo ci hanno affascinato. Per motivi televisivi abbiamo dovuto fare una selezione, ma seguendo le nostre recensioni e le video-interviste realizzate con iTvRome potete scegliere liberamente il tipo di libro che preferite.

 

1. “La leggerezza perduta” di Cristina Bellemo, Topipittori

2. “Parigi on ice – Tre amiche sul ghiaccio” di Mathilde Bonetti, Piemme

3. “Musa Enferma” di Luna Miguel, Damocle Edizioni

4. “Vienna è un viaggio in carrozza” di Michele Monina, Laurana

5. “Non è per cattiveria. Confessioni di un viaggiatore pigro” di Antonio Pascale, Laterza

6.  “Diario del viaggio in Spagna” di Francesco Guicciardini, Edizioni Studio Tesi

7. “L’Iguana” di Anna Maria Ortese, Adelphi

8. “Istemi” di Aleksej Nikitin, Voland

9. “IPAZIA. Vita e sogni di una scienziata” di Adriano Petta, La Lepre Edizioni

10. “…Ed era colma di felicità” di Paola Liotta, Armando Siciliano Editore

11. “L’ultimo ballo di Charlot” di Fabio Stassi, Sellerio

12. “Restare, partire” di Massimo Stragapede, Lupo Editore

13. “La confidenza” di Irene Nemirovksy (a cura di Antonio Castronovo), Via del Vento

14. “Narra un soldato e altre prose” di Robert Musil (a cura di Claudia Ciardi), Via del Vento

15. “Notte di Stelle. Le costellazioni fra scienza e mito: le più belle storie scritte nel cielo” di Margherita Hack e Viviano Domenici, Pickwick

 

Buone letture e buona estate. Torneremo a settembre con le video-interviste di ChrL on iTVRome

 

Puoi vedere QUI tutte le puntate di quest’anno.

Trattato di culinaria per donne tristi

ROMA “Trattato di culinaria per donne tristi” è il libro di Héctor Abad Faciolince pubblicato da Sellerio.

Un ricettario per donne tristi o afflitte da problemi: se l’amato è lontano o ha tradito, se la giovinezza se ne va e il viso appare stanco, se non dormi o sei in ansia, ecco i rimedi che risollevano le signore a dieta di felicità, salse, bevande, piatti gustosi, semplici decotti. E dalla sua pagina si solleva intensa, facendosi spazio tra la leggerezza e l’ironia, un’intelligenza, e un bisogno di ragionar con chi legge di filosofia.
Traduzione dallo spagnolo di Eleonora Mogavero
Titolo originale: Tratado de culinaria para mujeres tristes
«La mia ambizione è cercare una soluzione alla tua malinconia e il vero cammino me lo indicò un grande poeta della fredda Inghilterra, colui che fece dire a uno dei suoi personaggi, quasi pazzo per eccesso di senno, “Dammi un’oncia di muschio, buon farmacista, per profumare la mia immaginazione”. Io non vorrei essere niente di diverso da questo, un buono speziale, un farmacista, il padrone delle ricette per profumare la tua fantasia». Dunque, in questo ricettario, il vero nutrimento, per le signore a dieta di felicità, saranno le pillole di saggezza che le ricette trasmettono. Ciascuna di loro risponde a un’esigenza che non è della pancia: la prima ricetta è destinata a quella che dell’amato patisce «il peso invisibile dell’assenza», l’ultima per chi «un giorno sentirà, se non è ancora arrivata, la tremenda desolazione della convivenza». E (esempio a caso) per l’insonnia e per l’oblio non si offre alcuna ricetta, perché per dormire e dimenticare i rimedi sono troppo simili alla morte che non ha bisogno di nutrirsi. Invece esiste il rimedio per la dama ammalata di parole: «se un giorno ti ammalerai di parole… se avrai la nausea quando senti “orribile” o “fantastico”».
L’autore, il colombiano Faciolince, avvolge questo libro, evidentemente da leggere nei pomeriggi oziosi, in un’ironia affettuosa che fa pensare davvero ai boudoir delle signore di una volta. Eppure, dalla sua pagina si solleva intensa, facendosi spazio tra la leggerezza e l’ironia, un’intelligenza, e un bisogno di ragionar con chi legge di filosofia (forse stoicismo, forse Spinoza, forse le quintessenziali futilità eterne da Borges).

“L’amore negato” e il presunto diritto alla felicità.

Giulio Gasperini
ROMA – Vero o presunto è il diritto alla felicità? È dovuto o supposto? Esigibile o auspicabile? La Dichiarazione d’Indipendenza americana, già nel 1776, sancì, con forza, che gli uomini, creati eguali, sono stati dotati di alcuni diritti inalienabili “by their Creator”, tra i quali “life, liberty and the pursuit of happiness”; vita-libertà-ricerca-della-felicità. Il diritto alla felicità è anche l’assillante esigenza che muove Severa, la protagonista de “L’amore negato”, l’ultimo romanzo della ahimè dimenticata Maria Messina, edito nel 1928 dall’editore Ceschina. È così urgente la sua pretesa di felicità da soffocare gli altri istinti, da reprimerli inconsciamente, pensando unicamente al fare, all’agire, alla “roba”; proprio quella “roba” di verghiana memoria. Se, infatti, Maria Messina non può iscriversi nell’ambito della letteratura verista, è pur vero che Verga fu l’unico personaggio del mondo letterario col quale la giovane donna ebbe contatti. Maria Messina nacque, guarda caso, a Palermo, fu siciliana: sicché non le fu estranea la “filosofia della roba”, così magistralmente teorizzata soprattutto nelle novelle verghiane. Colpisce, il romanzo, infatti, soprattutto per la spietatezza della vicenda, per l’ineluttabilità dei comportamenti, per il disincanto che la vita oramai pare aver gettato nel cuore di una giovane donna e scrittrice, già consapevole che la sua malattia, la sclerosi multipla, l’avrebbe condotta a una morte attesa e prevedibile; che fu da tutti ignorata.
Severa (che bell’invenzione, il nome!, così altero e austero) disdegna la madre, la sorella, il fratello un po’ picchiato, che finisce per annegare, chissà quanto casualmente, in un fiume tumultuoso. Disdegna la loro vita di povere, le confina nelle stanze che un tempo furon ripostigli, perché il resto della casa le serve per fondare e guidare un’impresa di sartoria: soprattutto di cappellini che, all’inizio, le signore altolocate corron a comprare e farsi fare su misura; poi, virata la sorte, se ne vanno altrove, e a Severa resta l’umiliazione di veder fallire l’impresa nella quale aveva investito ogni più misero soldo di un’eredità ricevuta per grazia d’una vecchia, malata immaginaria ma abbandonata, accudita non per sincero spirito caritatevole, né per mutuo soccorso, ma per gelido tornaconto.
Fallisce, Severa, per causa sua: per la rudezza dei suoi modi, per gli scostanti atti, per una naturale superbia che le derivava dal suo pretendere, senza il minimo dubbio, la felicità. Fu troppo convinta di meritarsela, ché la sua vita era stata indefessa e rigidamente rivolta alla conquista della felicità stessa (che non si può chiamare in altro modo), in un circolo di cause ed effetti che subito, senza troppe illusione, collassò nel dolore. E anche l’amore la stordì: si illuse d’un legame mai allacciato, d’un sentimento mai provato, d’una passione mai esplosa. Si illuse e illudendosi si scoprì fragile, vulnerabile, esposta all’assedio e facile da espugnare: tutto quello che di lei non avrebbe mai voluto né vedere (lei stessa) né rivelare (agli altri).
E per vendetta, nei confronti del mondo, non si concederà la capitolazione, non si accorderà la resa; fuggirà ogni legame, soprattutto quelli familiari, e si negherà ogni altro possibile amore.

Riscoprire una morale nella giustizia tra le pagine di Alfonso de Liguori

Stefano Billi
Roma – L’immaginario collettivo di ogni società spesso si contraddistingue per una spiccata propensione al pregiudizio, come ad esempio avviene quando si parla di coloro che, per professione, sono chiamati ad amministrare la giustizia.
E così, ragionando sugli avvocati, li si raffigura come artisti della verbosità, propensi al litigio e assolutamente lontani da ogni minima forma di verità.
Per fugare questa volgare credenza, basterebbe ricordare il fulgido esempio di Giorgio Ambrosoli o di Fulvio Croce, entrambi martiri per la legalità: ma spesso si dimentica la storia facilmente.
Ancora, i giudici vengono spesso indicati come soggetti rapiti dalla “sindrome della condanna”, quasi che una forza misteriosa li avesse investiti della possibilità di scegliere cosa sia, in Terra, il Bene e il Male.

In realtà, il sacrificio di sangue di eroi come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino risuonerà a lungo per risvegliare la società, nel malaugurato caso in cui si scordasse cosa significhi “servire lo stato”.
Dunque è possibile amministrare bene la giustizia, e fugare quel pregiudizio popolare che comunque non si può non riconoscere essere fondato (a chi ritenesse il contrario, vale la pena suggerire una “passeggiata” nelle aule dei tribunali dello stivale)
Ma una classe di buoni amministratori non cresce dal nulla; è necessario istruirla e dotarla degli strumenti indispensabili per svolgere quella che sicuramente è la professione più difficile al mondo: l’applicazione giusta delle regole.
In tal senso, diviene illuminante uno scritto, sicuramente datato ma dal pregio inestimabile, come il libello di Alfonso de’ Liguori, intitolato “Degli obblighi de’ giudici, avvocati, accusatori e rei”.
Il testo, ormai quasi introvabile e risalente alla seconda metà del XVIII secolo, è pubblicato dalla casa editrice palermitana Sellerio e si presenta come una collezione di scritti di Alfonso de Liguori, tutti riguardanti il tema dell’etica nell’ambito dell’amministrazione della giustizia.
L’opera, che non dovrebbe mai mancare dagli scaffali delle biblioteche personali di ogni giurista (o studente in tale materia), può essere considerata come un vademecum morale per quelle figure professionali che, nella vita quotidiana, sono chiamate a giudicare il comportamento di altri uomini, o a difenderlo, o ad incriminarlo.
Infatti. è indispensabile che il giudice, l’avvocato o il pubblico ministero, oltre alle conoscenze giuridiche, abbiano approfondito e assorbito nozioni sull’etica e sui valori professionali.
Perché si può amministrare la legge in maniera “giusta”, soltanto qualora si abbia immerso il proprio animo nell’apprendimento di cosa sia giusto.
Sebbene Alfonso de Liguori fosse ispirato da un profondo sentimento religioso, comunque le sue riflessioni e i suoi insegnamenti meritano di essere metabolizzati in maniera sincera da ogni cultore del diritto.
Anche perché, se malauguratamente le pagine del de Liguori divenissero lettera morta, il risultato di ciò sarebbe un detrimento culturale di inimmaginabili proporzioni , a danno dell’umanità, che ha bisogno di servitori fedeli della Giustizia.
Lo stile narrativo della trattazione, pur sicuramente datato, risulta tuttavia scorrevole ed agevolmente comprensibile; l’obiettivo dell’autore era infatti quello di scrivere per poter essere letto e compreso da tutti, nella più alta e nobile finalità di insegnare e trasmettere valori a quanti più uomini possibili.
“Degli obblighi de’ giudici, avvocati, accusatori e rei” è un’opera brillante, così preziosa che andrebbe assaporata continuamente, scoprendo tutti quegli aspetti che soltanto nelle letture successive alla prima possono essere appresi.
Allora proprio la testimonianza di Alfonso de Liguori può essere il volano per un cambiamento sociale e valoriale che, oggigiorno, si presenta come inevitabile.