“La terra chiama”: storia di un’emancipazione razziale e di una rivoluzione socialista fra blues e campi di mais

La terra chiama_Habanero edizioniGiorgia Sbuelz
ROMA – Nei primi decenni del Novecento, sebbene l’esercito nordista abbia avuto la meglio nella Guerra Civile, l’integrazione fra bianchi e neri, fra padroni e servitori, è pura utopia.

La schiavitù esiste ancora, nelle sferzate, nei salari da fame, nelle minacce e nei pestaggi inferti ai braccianti di colore. Negli Stati del Sud, dove le idee di Lincoln sono state accolte come un insulto ad un’intera cultura e recepite come un calcio all’economia latifondista, le ritorsioni del Klan sono più efferate, e i corpi dei neri ribelli penzolano dagli alberi in risposta all’emancipazione afroamericana.
Il popolo nero controbatte aggregandosi e suonando il blues.
La terra chiama, il romanzo di Luca Impellizzeri edito da Habanero, è la storia di una rappresaglia e di un sogno di libertà. Sonny Porter, un bracciante di Paxsonville, è un nero arrabbiato e ben informato su quanto accaduto con la Rivoluzione d’ottobre, consapevole del progresso tecnologico di quegli anni e con un forte senso di rivalsa.
Con un pugno di compagni, Sonny organizza il sequestro della signora Coleman, sorella di un senatore, nonché proprietaria dei campi di granoturco dove l’uomo si spezza la schiena ogni giorno, per pochi soldi e parecchie frustate. In cambio della donna, chiede rifugio negli Stati del Nord e pretende un’apparecchiatura da cinematografo. In città si scatena l’inferno: non solo i bianchi, ma anche i neri piegati dal sistema, si organizzano per scalzare il gruppo di sovversivi barricati nella tenuta della stessa Coleman. Fra sparatorie, spargimenti di sangue e melodie suonate con il dobro, emerge il coraggio di un gruppo di uomini e donne disposti a rischiare la loro vita per ribaltare uno status quo inaccettabile, “Poiché il vero crimine è quando si uccide la volontà di un uomo, non quando lo si elimina fisicamente”.

Possono diciassette persone tenere testa e sopravvivere a una città e a un sistema che li vuole “merce”? Perché è così che si sente Sonny. Merce. Solo il blues non è merce, perché il blues è della terra. L’unica democratica. La terra che lega gli uomini negri e gli uomini bianchi, perché è l’unica che alla fine seppellirà tutti. Un protagonista crudo, realista, sincero. Uno schietto pensatore dalle espressioni triviali, che usa il linguaggio e le movenze dei negri dei bassifondi, ma conosce il cinematografo e il potere intrinseco di quel mezzo, uno che vuole un film per i negri, uno che vuole spargere idee. Uno che ha una propria giustizia, che non è quella dei tribunali bianchi razzisti. Uno che cova il risentimento, ma lo struttura, che non perde il lume della ragione perché non perde il patto che lo lega alla terra, che lo guida e lo chiama. La terra che di giorno lo massacra e su cui di notte fa l’amore.
Sonny è la parte nera del bianco, ed è la parte bianca fra i neri. Sonny disorienta, Sonny osa e spera.

Un romanzo che ti fa immergere in una causa che è quella di tutte le vittime di soprusi, che ti trascina in un’epoca e in un conflitto, che è sempre lo stesso, che sempre è stato e che sempre sarà, fra  oppresso e oppressore, fra “coloro che  possiedono il potere di sopraffare e di decidere per l’altro, l’altro che si definisce tale poiché è quello stesso potere a volerlo e ad averlo sempre voluto”.

Struggente come un pezzo blues, La terra chiama è un romanzo che ti stritola, che ti trascina nelle notti calde ma sensuali del Sud degli Stati Uniti, che ti congiunge ad una cultura forte, nata dal legame con la terra e dal ricordo delle catene, per questo più conscia del significato racchiuso nei termini di uguaglianza e libertà.

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