Dalila Sansone
AREZZO – Ci sono molti modi di dire addio. E molti modi per riuscire a pronunciare la parola addio, accettarla. “Paula” (1994) è il difficilissimo percorso del più complicato degli addii: quello di una madre alla figlia. E’ la prova più impegnativa di Isabel Allende, già scrittrice di successo e testimone di avvenimenti enormi, capaci di schiacciare la vita di uomo. Invece non è vero, a tutto si sopravvive, abbandoni, povertà, colpi di stato, atrocità ma solo di fronte alla perdita imminente tutto vacilla e perde di senso. Nasce come àncora nel corridoio dei passi perduti, l’anticamera della terapia intensiva di un ospedale di Madrid, questo libro. Una lettera per Paula perché al risveglio dal coma improvviso, causato da una malattia rarissima, recuperi spigoli, angoli e lunghe curve dei momenti di vita assente e trascorsa. Lentamente la lettera diventa racconto, secondo una tradizione consolidata delle donne di famiglia, quella di raccontarsi l’una all’altra da lontano, attraverso lettere da conservare gelosamente. Il bisogno di scrivere per non andare alla deriva, l’ansia di comunicare con la figlia vicina eppure distante, si intrecciano e si trasformano in una sorta di memorie della vita e dei romanzi di Isabel, intrecciate alle sorti di un Paese lontano, il Cile, e di un continente devastato dal passo imperante del lato truce della storia, quella dalla “S” maiuscola.
Paula non si risveglierà da quel lungo sonno. Sua madre riesce a maturare l’addio cercando nella scrittura la forza necessaria a separarsi da lei. Al bisogno fisico di combattere al posto di Paula per non cedere alla rassegnazione, subentra, col passo lento del dolore che matura, la consapevolezza della direzione di questo percorso. Dall’ospedale di Madrid, senza accenni di cambiamento del suo stato, Paula torna a casa, il luogo degli affetti privati, dall’altra parte dell’oceano. Resta sospesa nella stessa stanza dove con la stessa partecipazione e lo stesso amore con cui aveva preso parte alla nascita della nipote, Isabel lascerà andare via poi sua figlia.
Quando la tragedia, qualunque essa sia, assume la connotazione della dimensione personale e privata, induce sempre una misteriosa empatia, anche quando i particolari non trovano nessuna rispondenza nelle vite di chi osserva o chi legge. Quella parentesi di esistenza ha i tratti di una figura completamente nuda e fragile, in cui i difetti e debolezze dominano incontrastate e dove la linearità scompare fagocitata dal disordine interiore. Il mondo, umano e magico nelle stesso tempo, della narrativa della Allende rivive di nomi e accadimenti di vita vissuta e proprio questa commistione di umano e magico si scopre lo strumento, personalissimo, attraverso cui accettare l’addio. E’ una religione laica quella di Isabel, costruita sulla passione per la vita e il bisogno di lasciarsi travolgere dalle emozioni fino a vivere attraverso di esse, negando la possibilità che si possa, al contrario, vivere dominandole. Una religione ”umana” che riconosce il potere sovrannaturale dei legami, e di quelle circostanze inspiegabili, quasi magiche, che spesso accadono e che bisogna solo essere capaci di vedere. Non serve a nessuno dimostrare che si tratti di pura suggestione. Non ha alcuna importanza, in nome del diritto di ciascuno a trovare il proprio unico modo di scandire la più definitiva delle parole. L’accettazione interiore diventa liberazione dal volto angosciante del dolore: rimane il vuoto, col quale solo l’amore provato e ricambiato consente di convivere. Ed è proprio allora che anche Paula si arrende, lasciando questa verità in eredità a colei che, dandole la vita, per prima l’aveva iniziata al potere assoluto dell’amore.
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“Diario di Zlata”: lo sguardo di una bambina su Sarajevo.
Giulio Gasperini
AOSTA – “La mia realtà attuale è fatta di cantine, paura, granate, fuoco”. Persi nei ricordi i giorni della scuola, delle uscite con le amiche, delle prime cotte, delle prime libertà di bambini che diventano adulti con dolcezza. Zlata Filipović aveva appena 11 anni quando iniziò quel vergognoso massacro che fu la guerra di Bosnia, al termine della quale si contarono più di 100.000 morti e 1,8 milioni di sfollati. Il “Diario di Zlata”, edito in Italia da Rizzoli nel 1994 (dopo esser stato pubblicato in Francia l’anno prima per interessamento di alcuni giornalisti), ebbe sette edizioni in soli tre mesi. A quel tempo l’interesse per il conflitto era alto e il punto di vista di una bambina sulla guerra sedusse i lettori: un po’ come il celeberrimo diario di Anna Frank o come “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino, calarsi in una guerra nei panni di un bambino permette di scorgere delle aperture, degli spiragli, di cogliere delle angolazioni che nelle prospettive “adulte” finiscono per essere trascurati o ignorati.
Il diario comincia con le registrazioni banali e prevedibili dei cantanti preferiti, dei piccoli litigi con le amiche, dei voti scolastici. Fino a quando non si apre al mondo e scopre i dolori della guerra. In tutta questa narrazione, in questo quotidiano bollettino di guerra, Zlata alterna scritture di guerra e i suoi bisogni di bambina che cresce, in uno stridore di situazioni che rendono ancora più agghiacciante la sua infanzia violata, la sua adolescenza menomata: “Da ieri la gente è entrata nel Parlamento […] Abbiamo portato il mio televisore in sala, così ora guardo il primo canale da una parte e Good Vibrations dall’altra”. Finché, a un certo punto si accorge di essersi oramai dimenticata di parlare di sé. Come se nella guerra lei, i suoi bisogni di bambina, le piccole cose che a quell’età paiono le più importanti e inderogabili, non fossero importante: “È un po’ che non ti racconto più niente di me. Ti parlo solo di guerra, morte, feriti, granate, tristezza e disperazione”. Un vocabolario che non dovrebbe competere a una bambina di 11 anni. Un vocabolario che la spinge in una serie di domande senza risposta, di dubbi laceranti, di invocazioni che si perdono nel rumore dei colpi e nello schianto delle bombe: “Io amavo la mia infanzia e ora una terribile guerra mi sta portando via tutto. Perché?”.
Tramite il suo diario, tramite la catarsi della scrittura, Zlata cerca di trovare tutte le risposte che le occorrono per non arrendersi, per poter continuare a sperare una salvezza. Sono soprattutto i piccoli gesti che vengono esaltati, dei quali ci si stupisce perché paiono così fuori luogo nel contesto dei bombardamenti e degli spari, degli attentati e dell’assedio furioso a Sarajevo. Ma sono proprio questi piccoli gesti che riscoprono l’umanità, che la riavvicinano al prossimo, che la commuovono e la convincono di quella che una bambina, prima di lei, definì “l’intima bontà dell’uomo”: “Quando è scoppiato l’incendio stavano partorendo due donne. I bambini sono vivi. Dio mio, qui la gente viene uccisa, muore, gli edifici vengono bruciati e scompaiono. E nonostante tutto, dalle fiamme nascono nuove vite”.