“Un grande artista, mesdames, non è mai povero”.

Giulio Gasperini
AOSTA – Saper raccontare storie è un dono; un’abilità che, come le Mille e una notte insegnano, può persino salvare la vita. E sicuramente offre un’opportunità inestimabile di non perdersi ed esser ricordati. Karen Blixen sapeva raccontare storie. Sapeva costruire personaggi. Sapeva calibrare dialoghi, ricchi ma essenziali, dove neppure una parola – neanche una virgola – era fuori posto, né superflua. E uno dei massimi capolavori della sua arte di tessitrice di storie è senza dubbio “Il pranzo di Babette”, scritto nel 1958.
Babette è una misteriosa donna francese che, fuggita dalla Parigi dove era fallita la scommessa rivoluzionaria della Comune del 1871, si rifugia in un fiordo della Norvegia, assente anche dalle carte geografiche; lì, indirizzata da un suo conoscente francese, il noto cantante d’opera Achille Papin, va a cercare aiuto da Martina e Filippa, due anziane signore, figlie di un famoso decano protestante che, negli anni addietro, aveva fondato un movimento religioso di grande successo.
La vita di Babette si cristallizza così, per più di dieci anni. Mai un evento a rompere la quiete sonnolenta del borgo, mai un incontro, una parola che non fosse strettamente necessaria, mai un ricordo della sua patria, la Francia lontana, dove aveva perso tutti i suoi cari e il suo misterioso lavoro. Ma ben presto arriverà il momento, anche per Babette, di tornare a brillare, anche solo per un istante.
La storia di Babette è una deliziosa metafora della vita dell’artista, declinata – come non avrebbe potuto fare altrimenti – nella figura di una donna. Babette è cuoca: a Parigi era stata chef, caso quanto mai raro a quei tempi, e lavorava nel ristorante più rinomato della città. La sua creatività, il suo estro culinario (che si confonde con quello artistico) le avevano persino fatto creare dei piatti nuovi, assolutamente unici, inconfondibili. E sono quegli stessi che il generale Lowenhielm – l’unico a portare un po’ di colore ed emozione alla riunione dei puritani – riconosce e attraverso i quali si smarrisce ricordando il suo passato di giovanotto, quando i piaceri terreni erano i soli a esser ricercati ma anche quando la speranza per il futuro era la premessa della felicità.
Spenderà tutti i soldi vinti in una lotteria, Babette. Li spenderà perché è l’unico modo, quello, per poter tornare a essere la grande artista che era, un tempo; quella che riusciva a rendere felici gli uomini con i suoi pranzi; quella che, costretta all’esilio, non smette di essere un’artista ma sente sempre il bisogno, quasi un imperativo morale, di poter dare sempre il massimo; perché “un grande artista, mesdames, non è mai povero”.

“Il Paradiso delle signore”: Zola, lo shopping e Zara

Marianna Abbate – La passione per i libri, nel mio caso si accompagna con l’insostenibile passione per le serie tv, con particolare dedizione alle british di costume. A volte le mie due passioni si incontrano, sia in un verso che nell’altro. E così libri che ho amato sono diventati serie di culto, e serie che ho scoperto per caso mi hanno portato a leggere libri bellissimi: uno per tutti “The crimson petal and the white”, stupenda e commovente storia di una prostituta intelligente nell’Inghilterra del boom industriale di fine ‘800. Il caso del “Paradiso delle signore” è ancora più eclatante, perché, lo confesso, mai avevo sentito parlare di tale libro di Emile Zola, del quale ho letto parecchi pesantissimi mattoni, che per quanto notevolmente carichi di storia e patos sociale mi hanno lasciato sempre un po’ amareggiata. Direte giustamente: è proprio questo lo scopo della letteratura naturalista, mica ti aspetterai un romanzetto rosa dal grandissimo Emile Zola???

No, non mi aspettavo nessun romanzetto rosa dal padre del Naturalismo, dall’ispiratore del Verismo, dal più grande (forse) narratore sociale di tutti i tempi. Eppure eccolo qua.

Un romanzo rosa sociale signori miei.

Sostanzialmente la trama potrebbe svolgersi ai giorni d’oggi: gli elementi ci sono tutti. Il precariato, la crisi, il cambiamento l’innovazione il fiuto per gli affari. Viene quasi da pensare che il caro Emile sia resuscitato la settimana scorsa per produrre questo capolavoro di narrazione femminile dedicato alle commesse di Zara.

Perché come avete capito, il Paradiso delle Signore è un negozio. Un negozio bellissimo, enorme, carico di ogni elemento che potrebbe far felice una donna. Ci sono scarpe, tessuti, abiti preconfezionati, cappellini, foulard, bicchieri, piatti e posate. Tovagliame, tende vari calze, calzini e biancheria intima.

Un paradiso.

E poi c’è la commessa giovane, bella inesperta, ma con mille idee che le frullano per la testa. Un misterioso e intrigante proprietario del grande magazzino completa l’insieme. Ovviamente c’è anche la nobile fidanzata di lui, la direttrice altera del reparto abbigliamento, le colleghe con mille problemi e altri simpatici elementi che vi renderanno sempre più legati e curiosi a quel piccolo/enorme mondo che segna l’inizio dell’era del consumismo.

Bello, bello, bello. Leggetevi il libro e guardatevi la serie. Fatelo.

 

È un “dolce sollievo la scomparsa”, per Sarah Braunstein.

Michael Dialley
AOSTA – Le vite sono delle storie da raccontare, e non fanno eccezione quelle di Paul, Judith, Sam, Hank, Bea, Byron, ma soprattutto quella di Leonora, la bambina che accompagna il lettore in tutto il romanzo di Sarah Braunstein, “Il dolce sollievo della scomparsa” edito da 66thand2nd nel 2012.
Sono storie che non risultano mai banali, tutte hanno un qualcosa di nascosto che cattura il lettore, sono particolari, difficili spesso. Vite di amore, rinunce, passioni sfrenate, sincerità, ma anche menzogne; e i protagonisti sono soprattutto bambini, con la loro innocenza ma anche con il loro non sapersi sottrarre alle pulsioni, alle passioni e con la voglia di libertà. I personaggi si raccontano, sono apparentemente estranei e lontani, ma poi nella narrazione alcuni si incrociano e, in età adulta, si troveranno a ricordare, rivivere momenti dell’infanzia, e a volte arriveranno a riscattare ciò che in passato non hanno potuto vivere, offrendoci spunti di riflessione e importanti lezioni di vita.
Leonora è il centro, ma al contempo periferia, di tutto il romanzo e ci fa imparare una cosa molto importante: le persone non sempre sono come sembrano e nelle situazioni estreme emergono forza, capacità, determinazione e, soprattutto, forza di volontà. È questo un insegnamento che lei ha ricevuto, a sua volta, dal babbo, e che si troverà a mettere in pratica negli ultimi istanti della sua vita: soffre, Leonora, nella stanza dove la tengono segregata, con il gattino che farà la sua stessa fine, ma a un certo punto ricorda le parole del padre – “Tieni duro!” – e poi riconosce un grande albero che ha visto ogni giorno per molto tempo: tutto questo le darà la forza di affrontare il suo destino; e lo farà totalmente sollevata.
I bambini sono innocenti, ma proprio per questa loro spensieratezza sono costantemente attratti dal male; il maligno è una calamita che attrae facendo leva sulla voglia di libertà e sull’elemento ribelle che c’è in ogni uomo. Scappare diventa una liberazione, così come lo è l’essere lontano da ogni legame; essere in un mondo di sconosciuti, essere totalmente svincolati da tutto e tutti dà, effettivamente, un dolce sollievo. Quante volte vorremmo scappare da tutto e tutti e stare con noi stessi? Spesso.
I bambini e i futuri adulti di questa storia hanno potuto provare questo distacco: chi volontariamente, chi involontariamente. Ma per tutti è stata, senza dubbio, un’esperienza fondante.

“The true adventures of Rolling Stones”

Dalila Sansone
GRAZ – Non è una biografia in senso proprio: dietro i vent’anni di Mick Jagger sulla copertina patinata dell’edizione riproposta per i cinquant’ anni della rock band non c’è la storia dei Rolling Stones. Troppo facile. Gli Stones non ci si sono mai del tutto prestati alla categoria del “facile”. Sfuggenti, taglienti, capaci di creare l’aspettativa e risponderle ancora meglio. Stanley Booth invece era un giornalista, scriveva di musica negli anni ’60. Un’idea: scrivere la loro biografia; ed è per questo che li segue nella tournée statunitense del ’69. Gli ci vorranno quindici anni per concludere una delle più graffianti auto confessioni di un’epoca. Le ragioni di una genesi così lunga stanno lì, in fondo al libro, incastonate nella postfazione come una pietra rara: un’analisi retrospettiva talmente lucida da valere tutte le parole, le immagini e le sensazioni che il loro intreccio precedente aveva evocato. A distanza, una distanza che impreziosisce la prospettiva.
Ci vuole tempo a capire le sovrapposizioni della narrazione, il collegamento con l’epigrafe all’inizio di ogni capitolo, le parole della madre del già annegato-in-piscina Brian Jones, i voli da un college all’altro, gli Hell’s Angels, il dente di coguaro che dondola all’orecchio di Keith Richards, nomi, tanti nomi, marijuana, alcool, il ritratto sbiadito di Jagger provato dalla stanchezza e convinto di essere ormai vicino al declino: – Sono otto anni che facciamo questa vita, quanto volete possa ancora durare?!
Si alternano una storia, polverizzata in mille storie, e la cronaca degli ultimi mesi di un periodo destinato a frantumarsi e implodere su se stesso allo scadere dell’appuntamento con il nuovo decennio. Gli Stones una delle metafore possibili. “The true adventures” (1984)si apre e si chiude con Altamon, 6 dicembre 1969. La promessa di una nuova Woodstock, al termine di una tournée folgorante che celebrava il riscatto di quelli che tre anni prima erano stati dati per finiti davanti agli scranni dei tribunali dell’Inghilterra perbenista. Fu l’emblema della fine degli anni ’60. Un declino che trapuntava con fili sottili le contraddizioni, le contestazioni, quel senso illusorio di libertà di espressione che, nonostante la polizia, i poteri forti, il Vietnam, si aveva la presunzione di possedere. Eppure Booth la provava quella nausea; non erano sufficienti le droghe, il ritmo, era lì, tutte le volte che Mick lanciava petali di rosa in chiusura sulle note di “I’m free”. Liberi? Liberi dentro le mura di una palestra? Liberi di suonare per gli studenti in libera uscita? Liberi circondati dagli Hell’s Angels ? Liberi di credersi liberi?
Quell’anno muore Kerouac. Una telefonata. La notizia. L’illusione si spezza e, solo a questo punto, ti accorgi che stai leggendo la STORIA. La fine è macchiata di sangue. Niente sarebbe stato più lo stesso, nemmeno gli Stones. Non guidavano, né erano il simbolo di nessuna protesta: erano giovani della periferia anonima di Londra, come tutti gli altri, come tutti i protagonisti dimenticati e senza nome che hanno fatto degli anni ’60 quello che sono stati fuori dalle analisi ufficiali e dalle cronache; la generazione di passaggio verso una società destinata a rimodellarsi continuamente in realtà che avrebbero, di li a poco, continuato a mutare credo e definizione (o presunti tali) vertiginosamente.
L’orrore collettivo di Altamon fu l’incubo che precede quei risvegli bruschi dalle percezioni dilatate in maniera straniante, fuori dal sogno, distanti dalla realtà. Una terra di nessuno dei sensi e di mancanza di riferimenti per certe coscienze. Booth ebbe bisogno di ridefinire se stesso, gli Stones avrebbero costruito pezzo su pezzo la loro identità, la loro di realtà consacrandola all’immortalità. Eppure nella musica di quegli anni la senti vibrare ancora quell’urgenza vitale di esistere, la rivendicazione di libertà, l’assoluta affermazione si sé stessi attraverso la negazione di adeguamento a qualunque schema precostituito. È lì che affondano le radici della leggenda. La rottura ha in sé le premesse della riorganizzazione dopo l’urto. Si sceglie se riutilizzare i pezzi e di quali fare le colonne portanti della ricostruzione. Non è riuscito a tutti bene. Ai protagonisti di questo racconto nella storia, voce narrante e personaggi principali, invece si. No, non avrebbero mai potuto trovare soddisfazione. Erano di quelli destinati a non provarla mai.

Carnismo: perché mangiamo gli animali


Silvia Notarangelo
ROMA – A tutto c’è una spiegazione. E quella che fornisce la psicologa Melanie Joy è di quelle che non possono lasciare indifferenti. La questione è relativamente semplice ed emerge, con forza, già da un titolo capace di riassumerne l’essenza: “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche”(Edizioni Sonda).

Carnismo. È così che Melanie Joy definisce quell’insieme di credenze che ci portano a mangiare alcuni animali, rifiutandone altri. È un’ideologia violenta, un sistema “crivellato di assurdità, incongruenze e paradossi (…) rafforzato da una complessa rete di difese che ci permettono di credere senza dubitare, di conoscere senza pensare e di agire senza sentire”.
Dai suoi studenti, interrogati sugli atteggiamenti che nutrono verso gli animali, l’autrice si sente ripetere sempre la stessa risposta:“Le cose stanno così”. In effetti, l’unica risposta (in)sensata che si riesce a dare è proprio questa. Non c’è un vero perché. O meglio, possibili argomentazioni non mancano, ma è il loro fondamento a lasciare molte perplessità. Perché allora si continua a perpetuare, in silenzio e quasi inconsapevolmente, un simile sterminio? Il carnismo ha messo in atto una serie di difese per tutelarsi e garantire la propria sopravvivenza, prima tra tutte l’invisibilità. Eppure “non vedere” non significa necessariamente “non sapere”. Ed è proprio qui che entra in gioco, secondo la psicologa, un altro meccanismo ancora più insidioso: si può essere a conoscenza di una verità spiacevole e continuare a far finta di niente, conservando inalterate false convinzioni. Si mangiano alcuni animali perché non si considerano tali e se ne prendono le distanze. Si pensa a loro come ad oggetti inanimati, privi di individualità, riducendosi a classificarli secondo un’asettica dicotomia: commestibile o non commestibile.
La chiave di svolta, ciò che potrebbe determinare un cambiamento nella comune percezione della realtà, ha un nome: empatia. L’autrice ne è convinta. Per porre fine al carnismo occorre recuperare la giusta sintonia con l’universo animale, lasciandosi trasportare da quell’innata capacità del genere umano di provare emozioni e, magari, renderle pubbliche con la forza della propria testimonianza.
Qualunque sia il personale punto di vista, questo saggio ha il merito, non scontato, di far riflettere, di approfondire con un’analisi meticolosa una tematica delicata, senza nasconderne gli aspetti “più provocatori, controversi e talvolta profondamente disturbanti”.

Novità letteratura per ragazzi: un nuovo anno di letture!

ROMA– Sono tante le novità che le case editrici per ragazzi riservano ai loro giovani lettori. Romanzi classici, libri di avventura, racconti di fantascienza o storia per una proposta che non lascerà nessuno insoddisfatto. Allora cominciamo a vedere le proposte di alcune case editrici.

Le Nuove Edizioni Romane cominciano il 2013 proponendo diverse nuove uscite: “Piccole donne oggi” ha nel titolo un classico della letteratura, ma quello scritto da Angela Nanetti è un racconto ambientato nell’attualità: Marta, Isabella, Margherita e Diana sono quattro sorelle molto diverse tra loro che si confrontano con i problemi reali della società 2.0. Qual è la sorpresa che riserva questo libro? La scrittura della Nanetti è così scorrevole e sorprendente che è un vero piacere leggere. Amori e illusioni del grande Cechov rivivono in “Zio Vania e altre storie russe” di Luigi Mancuso. La stessa casa editrice propone la nuova edizione di un best seller dal sapore spiccatamente letterario: “In una selva oscura… Il racconto di Dante” di Ermanno Detti.

 

“A bomba!” è il titolo che inaugura Leggimi teens della Sinnos. Il libro di Catherine Forde racconta di tre amici e compagni di scuola (Al, Mel e ) sono alle prese con acrobazie e filmati su Youtube e fanno di tutto per poter partecipare allo show televisivo Crazy Stunts. Sinnos propone anche il nuovo romanzo di Luisa Mattia, l’autrice che dopo il successo de “La scelta” torna in libreria con “Noi siamo così”, un romanzo rivolto agli adolescenti. Il libro, come scrive l’autrice nella postfazione, è “nato per per ostinazione, avviato con cautela, cresciuto con allegria e concluso con entusiasmo”.

 

Libri dedicati all’ecologia e alle tematiche ambientalisti sono quelli pubblicati dalla casa editrice Sassi Junior. Tra le novità in catalogo troviamo “La fattoria” e “Caccia ai numeri” nella collana Libri-gioco Puzzle e i titoli “I libretti del Mare”, “I libretti dei Colori”, “I libretti dei Veicoli”, “I libretti dei Cuccioli” nella collana Le Torrette per imparare attraverso 10 semplici e piccoli libri scritti in rima il mondo del mare e dei colori, degli animali e dei mezzi di locomozione. 

 

Le Edizioni Sonda mescolano storia e avventura, emozioni e fantasia e lo fanno anche per questo 2013 con “L’angelo di Hitler”, il libro di William Osborne ambientato nell’Europa del 1941. In Germania Hitler è all’apice del potere. Due ragazzi, Otto e Leni, sono costretti a fuggire in Gran Bretagna e da qui comincia la loro avventura. Tema diverso ma allo stesso modo difficile è affrontato da Cristina Petit in “Un buco nel cielo”. Ale, il protagonista di questo libro, dopo la morte del suo migliore amico perde ogni voglia di vivere e solo dopo aver ricordato le parole della sua maestra elementare, riuscirà a buttare fuori tutto il dolore. Ironico, sarcastico e fantascientifico è invece “La scuola è finita!” di Yves Grevet: il racconto è ambientato nel 2028 quando solo i figli dei ricchi frequenteranno le scuole private; tutti gli altri verranno subito avviati al lavoro nelle aziende, dove sono costretti a sopportare turni massacranti e mansioni difficili. “Salentini. Guida ai migliori difetti e alle peggiori virtù” di Piero Manni. Per l’autore i salentini sono ufàni e l’ufanerìa è poi l’ostentazione esagerata o delle proprie ricchezze o del proprio potere o delle proprie qualità e, soprattutto, delle proprie amicizie. Forse per questo, secondo l’autore, i quali credono di saper tutto e di saper fare tutto.

 

Gallucci editore porte in libreria diversi titoli: il terribile lupo Fenrìs è protagonista di “Fenrìs”, il libro di Jean-François Chabas con i disegni di David Sala. La mitologia nordica entra in una storia spaventosa, tenera e istruttiva.
Hans-Georg Noack è l’autore di “Benvenuto” (con prefazione di Eraldo Affinati), ma Benvenuto è anche il nome di un ragazzo in gamba dell’Italia del Sud, che negli Anni Settanta emigra in Germania insieme alla famiglia insieme alla famiglia per inseguire il sogno di una nuova vita. Un libro perfetto per ogni genere di lettore: gli adulti apprezzeranno l’eleganza vibrante dei colori e la raffinatezza della composizione, mentre i bambini si lasceranno coinvolgere da una favola che insegna loro ad apprezzare la diversità; questo è “Che strano uccellino!”, con i testi e i disegni di Jennifer Yerkes.

66THAND2ND: John Graham Davies ha battuto Berlusconi

Giulia Siena
ROMA
– Lo abbiamo incontrato a Roma in occasione di Più Libri Più Liberi e quando lo senti parlare capisci che potresti rimanere impigliato nella fitta rete che crea la sua voce. Sì, perché con la voce John Graham Davies si è guadagnato il successo negli anni Settanta come attore teatrale. Oggi, dopo un passato sulle tavole del palcoscenico e come drammaturgo, l’attore britannico veste i panni di scrittore e arriva in Italia con “Ho battuto Berlusconi! Racconto in due tempi (più supplementari e rigori)”. Il libro, pubblicato dalla casa editrice romana 66THAND2ND, è una felice commistione di ironia e quotidianità, politica, passione e sarcasmo. Il protagonista del racconto, Kenny Noonan è un tifoso sfegatato del Liverpool e segue la sua squadra fino a Istanbul per la finale di Champions League contro il Milan. Allo stadio Olimpico Atatürk, Kenny si trova rocambolescamente seduto accanto a Silvio Berlusconi. Da qui parte un racconto che usa le parole del calcio per arrivare alla storia, alla politica e alle lotte che ha dovuto affrontare Liverpool e un uomo come Kenny.

 

ChronicaLibri intervista l’autore di “Ho battuto Berlusconi!”,  John Graham Davies.

 

Una delle peggiori figure della politica italiana entra in un libro di un attore-autore inglese: Berlusconi è un buon personaggio per un libro come il Suo?
Come tantissime persone grandi e potenti anche Berlusconi può ribaltarsi – e alle volte si ribalta – in una caricatura di se stesso; io sono britannico e penso a Margaret Thatcher che per alcuni versi assomigliava al politico italiano, la Thatcher, infatti, negli anni Ottanta è diventata la caricatura di se stessa. Sono personaggi talmente trabocchevoli che perdono la loro credibilità e diventano personaggi perfetti per un libro.

 

John Graham Davies prima di “Ho battuto Berlusconi” è un attore e la Sua professionalità in questo settore è entrata nel libro. Infatti Kenny, il protagonista del racconto, ha la forza narrativa di un attore e si esprime in un monologo che percorre tutta la storia. Come è avvenuto il passaggio dal palcoscenico alla scrittura?
Quando ero ancora attore ho scritto un monologo, quando poi ho cominciato a scrivere questo la prima cosa che mi è balzata in mente è stata l’importanza della voce, il modo di parlare, il ritmo e il ritmo mi piace moltissimo. Quando l’attore parla in maniera diretta è perché si crea una vera intimità; scrivendo questo libro che è appunto un monologo, più andavo avanti e più mi rendevo conto che la formula del monologo poteva funzionale.

 


Nel libro parla di Liverpool, di quei giovani che tenevano molto alla politica e ai propri diritti. Non pensa che la Liverpool di oggi sia cambiata? In che direzione sta andando la nuova Inghilterra?
Sono d’accordo in parte perché sì, certo, è vero: oggi i giovani di Liverpool non si sentono più parte di un movimento organizzato perché queste forme di aggregazione sono state superate e distrutte così da rendere difficile, per esempio, mettere inpiedi una resistenza contro il processo di privatizzazione che sta andando avanti. Dall’altra parte, però, ci sono prese di posizione: le manifestazioni di dicembre a Liverpool per protestare contro la privatizzazione della sanità era piena di giovani. Dal mio punto di vista c’è molto desiderio, anche da parte dei giovani, di resistere, l’unico problema è trovare modi nuovi e adatti al giorno d’oggi per attuare questa resistenza.

 

C’è una città italiana che le ricorda Liverpool?
Sicuramente non conosco così bene il vostro Paese per stabilire un paragone, forse potrebbe aiutarmi Lei, dovrebbe essere comunque una città portuale come Genova o Livorno perché le città portuali sono aperte sul mondo e sono abituate ad accogliere gente e quindi abituate alla mescolanza e alla tolleranza.

 

Io Le dico che leggendo “Ho battuto Berlusconi” vedevo un po’ degli scorci di Genova, ma se dovessimo guardare al futuro, a un nuovo libro cosa pubblicherebbe per il mercato italiano?
Credo che un libro a quattro mani con un amico funzionerebbe nel mercato editoriale italiano. Ora sto scrivendo nuovamente di un uomo di Liverpool dei primi dell’Ottocento, un uomo che ha combattuto la schiavitù e a forza di lavorare nelle navi e aiutare gli schiavi a scappare, contrae una malattia che lo rende cieco. Per il resto della vita, quindi, quest’uomo continua a combattere le varie forme di schiavitù. Chissà se questa trama potrebbe coinvolgere i lettori italiani…

 

Noi, allora, aspettiamo il nuovo libro!

 

I 10 Libri di un 2013 con Cavallo di Ferro

ROMA  – Un anno in compagnia dei libri. Ma in questo 2013 come orientarci nel trafficato e ricco mercato editoriale? Entrando in libreria troviamo i 10 Libri di Cavallo di Ferro editore. La casa editrice romana nasce con l’intento di divulgare la letteratura lusofona in Italia, privilegiando autori di fama internazionale già pubblicati all’estero e una selezione di autori italiani. Ecco, allora, alcuni dei loro titoli in catalogo… scegliete il libro che fa per voi!

 

1. L’astrologo di Fernando Pessoa, a cura di P.Cardoso e J.Pizarro
(pp.320, euro 16.00)

Un imperdibile inedito che svela l’insospettata passione di Pessoa per l’astrologia. Intellettuale e persona con interessi diversificati, Fernando Pessoa è stato poeta, saggista, narratore, drammaturgo, scrittore di gialli, filosofo. Ma la sua personalità eccentrica ha avuto anche un forte interesse per l’esoterismo e l’astrologia. In questo sorprendente libro si riuniscono e interpretano per la prima volta le più significative carte astrologiche che Fernando Pessoa ha fatto su se stesso, sui suoi eteronimi e sui grandi personaggi della storia della letteratura, della cultura, e della politica dell’epoca, come William Shakespeare, Victor Hugo, Oscar Wilde, e poi Napoleone, il Re d’Italia e Mussolini.

 

2. Il tempo degli amori perfetti di Tiago Rebelo
(BEAT, edizione originale Cavallo di Ferro, pp.496, euro 9 traduzione dal portoghese di Cinzia Buffa e Luca Quadrio)

Un’appassionante storia d’amore e una puntuale ricostruzione storica dell’Angola di fine Ottocento e dei suoi colonizzatori portoghesi. Carlos, giovane ufficiale portoghese, e Leonor, figlia del governatore di Luanda, si conoscono sulla nave che li porta in Angola e vengono subito travolti da una lacerante passione. La loro storia d’amore verrà però ostacolata non solo dalla famiglia di lei, ma anche dai continui conflitti tra colonizzatori portoghesi e indigeni. Tiago Rebelo riscrive brillantemente, in un misto di finzione e realtà storica, lo splendido ambiente del romanticismo di fine secolo nel quale fa rivivere personaggi unici, davvero indimenticabili.

 

3. Una giornata con Tabucchi di Di Paolo, Maraini, Petri, Riccarelli
( pp.128, euro 12.90)

Il grande scrittore italiano, recentemente scomparso, raccontato dai suoi amici. In omaggio allo scrittore che consideravano un maestro, Dacia Maraini, Paolo Di Paolo, Romana Petri e Ugo Riccarelli raccontano Antonio Tabucchi e il legame che con lui avevano attraverso racconti inediti, lettere, testi­monianze, conversazioni. Con affetto e un po’ di nostalgia, i suoi amici aprono per noi le porte su un Tabucchi intimo e sconosciuto. Una giornata con Tabucchi è un racconto a più voci nato per onorare il grande autore italiano, che, evocato dalle parole di amici e colleghi, ricompare come fosse la presenza fantasmatica di una delle sue storie.

 

4. Io venìa pien d’angoscia a rimirarti di Michele Mari
(pp.140, euro 12.90)

Un autentico gioiello d’autore, un libro che tutti dovrebbero leggere. Recanati, 1813. In un austero palazzo nobiliare, il giovane Orazio Carlo tiene un diario nel quale riporta le parole e le azioni del fratello maggiore, Tardegardo Giacomo. Ad attirare l’attenzione del ragazzo è il comportamento misterioso di Tardegardo, che non solo si diletta di poesia e ha tranquille abitudini da erudito, ma è anche roso da una sconvolgente irrequietezza. Si alternano così la rivisitazione della vita e delle opere di un giovane poeta e gli elementi di un romanzo nero, con delitti efferati, strane simbologie e antiche vicende di sangue.

 

5. Verrà il giorno di Gabriela Adamesteanu
(pp.384, euro 18.00)

L’educazione sentimentale di una popolazione alla vigilia della dittatura. Letitia abita con sua madre e lo zio in una cittadina della provincia romena. Vivono tutti e tre in una stanza in affitto perché suo padre è stato arrestato e lo zio, che aveva davanti a sé una brillante carriera da intellettuale, è stato trasferito in una piccola scuola di paese. La vita quotidiana è dura e monotona, così Letitia comincia a temere che non le succederà mai nulla di speciale. Dopo il diploma sarà finalmente il momento di trasferirsi a Bucarest per l’università, in mezzo ad altre ragazze come lei, lì dove ci sono biblioteche, caffè, ragazzi, sale da ballo. Tuttavia, per una giovane di provincia, con un dossier politico familiare come il suo, non è facile integrarsi, fare le scelte giuste, non perdere il passo con un mondo più moderno plasmato sull’ideale comunista che ha portato la Romania alla dittatura di Ceausescu.

 

6. Lettino di Martha Medeiros
(BEAT, edizione originale Cavallo di Ferro, pp.128, euro 9)

Il percorso della protagonista è il paradigma della vita di moltissime donne, che potranno riconoscersi in questa storia e trovare il coraggio di cambiare la propria vita. Bella, quarantenne, ricca, felicemente sposata, madre di due splendidi figli ormai grandi,
Mercedes non sa bene, alla prima seduta dallo psicanalista, la ragione di questa sua scelta. Ma man mano che il suo percorso prosegue (ogni capitolo corrisponde a una seduta), la sua vita, lentamente, le si sgretola davanti agli occhi. Lo splendido marito è in realtà un amore corroso dal tempo, la sua vita professionale un autentico fallimento, la morte di sua madre un dolore mai superato, l’infanzia una zona nera, la giovinezza un malinteso, la vita sessuale un cimento.
Il mondo le crolla addosso mentre acquista fiducia nel suo psicanalista, e a lui dice cose che non ha mai detto apertamente nemmeno a se stessa, davanti a lui ride e piange disperatamente, fino a riprendere possesso della propria vita e a trovare il coraggio di
cambiarla.

 

7. Lo strano furto di Savile Row di Vincenzo Monfrecola
(pp.272, euro 15.00)

Una comica caccia al ladro fra suffragette e giornalisti improvvisati nella Londra di inizio Novecento: una commedia paradossale, in cui lo humour inglese si fonde brillantemente con quello partenopeo.
Londra 1910. Quando dalla sartoria Goodge & Son di Savile Row sparisce la giacca portata a riparare dal Primo Ministro, toccherà al giornalista alle prime armi Peter Daleslow occuparsi di una notizia che a prima vista sembra destinata a finire in un trafiletto a fondo pagina. La faccenda però prende tutta un’altra piega quando Daleslow arriva sul posto e Eliodoro Rivabella, il commesso italiano della sartoria, gli svela alcuni particolari del furto che ne fanno un caso a metà tra il surreale e il dannatamente serio. Così, mentre il novellino mette a segno il suo primo, inconsapevole scoop, Eliodoro decide di diventare anche lui un giornalista e, nella sua comica improvvisazione, sceglie come fonti cinque donne, una più bizzarra dell’altra, che condividono la causa delle suffragette. Da qui prende il via una serie di equivoci a catena che trascinerà tutti, incluso il Primo Ministro, in un’enorme e spassosa caccia al ladro.

 

8. Lussuria di João Ubaldo Ribeiro
(BEAT, edizione originale Cavallo di Ferro, pp.144, euro 7)

Impudico, piccante e provocatore, Joao Ubaldo Ribeiro ha scritto un libro senza censure, provando che sotto l’Equatore il peccato non esiste… Questo romanzo, dedicato alla Lussuria, è il quarto volume della famosa serie sui Sette Peccati Capitali, promossa dalla casa editrice brasiliana Objetiva. E’ la storia intrigante e affascinante di una donna di 68 anni di Rio de Janeiro, che nella sua vita non si è mai tirata indietro quando si è trattato dei piaceri e delle infinite possibilità offerte dal sesso.

 

9. La sesta stagione di Carlo Pedini
(.704, euro 19.90)

Selezionato fra i 12 candidati al Premio Strega 2012, La sesta stagione è un’opera maestosa che nel segno dei Buddenbrook di Thomas Mann intreccia tanti destini sullo sfondo della storia d’Italia del XX secolo. È il 1934. A Civita Turrita, sull’Appennino toscano, si inaugura con solennità il nuovo santuario, e proprio nel momento di massimo fulgore di questo paese inizia la storia della sua decadenza.
Nelle vicende profondamente umane dei tre seminaristi Piero, Ottavio e Oreste, e dei loro superiori, amici, avversari, irrompono gli eventi principali del nostro Novecento, dalla Seconda guerra mondiale al Sessantotto, e oltre fino agli Anni di piombo. Nella vita della piccola comunità di Civita Turrita si rispecchiano dunque i mutamenti della nazione, in una parabola di cinquant’anni dove tutti – religiosi e laici – subiscono l’incedere della modernità. E fra i grandi giochi di potere si rivelano le debolezze di una Chiesa che fati­ca a tenere il passo con un’epoca sem­pre più veloce.

 

10. Einstein e la formula di Dio di José Rodrigues dos Santos
(pp.560, euro 19.50)

Basato sulle ultime e più avanzate scoperte scientifiche nei campi della fisica, della cosmologia e della matematica, Einstein e la formula di Dio non è soltanto un thriller mozzafiato ma anche un libro che unisce il pensiero scientifico e quello religioso, le teorie fisiche dell’occidente con le religioni orientali. Sulle scale del museo Egizio del Cairo, Tomás Noronha viene avvicinato da una sconosciuta. Il suo nome è Ariana Pakravan, è iraniana ed è in possesso della copia di un documento inedito, un antico manoscritto dal contenuto enigmatico. Questo incontro condurrà Tomas Noronha nei misteri della crisi nucleare iraniana e lo porterà, attraverso l’incontro con i più importanti scienziati e pensatori del tempo, ad investigare su uno dei più grandi misteri dell’umanità: la prova scientifica dell’esistenza di Dio.

I cento anni del “Pigmalione”

Dalila Sansone
GRAZ – “Piantala di fare l’idiota (…), se non sei in grado di apprezzare quello che hai ottenuto allora vedi di procurarti quello che sai apprezzare”. A volte in un giorno di pioggia vorrei muovermi dentro il tempo, aprire gli occhi e trovarmi di fronte Covent Garden, Londra, un centinaio di anni fa. Lì dove Eliza Doolittle ha incontrato la prima volta Henry Higgins. Inizia così “Pigmalione” di Bernard Shaw: la pioggia, persone che si riparano dietro le colonne di un portico, una misteriosa figura che prende appunti su un taccuino. Cento anni dalla prima pubblicazione: l’assoluta certezza che Shaw abbia scritto un testo senza tempo. Fuori dall’ambientazione, oltre la narrazione della storia della fioraia con il suo cockney dei bassifondi e dell’erudito professore di fonetica Mr Higgins, sono il modellarsi del rapporto, la mutevolezza delle forme e la potenza dei legami che prendono forma. Sarebbe facile cadere in errore e farne una riduzione sentimentale. La finezza di Shaw sta nel non cedere alla banalità. Perché i casi della vita raramente rispondono a tale definizione e se lo fanno sono destinati a non inciderla. Mai.
Eliza si presenta all’uomo che l’aveva terrorizzata la sera prima, ripetendo esattamente ogni suono uscito dalla sua bocca: vuole che le insegni un corretto inglese. L’unico modo per vincere i pregiudizi, lavorare in un negozio di fiori e smettere di farlo per strada. Il primo scontro titanico. La mediazione del colonnello Pickering lo trasforma in una scommessa: sei mesi per riuscire a far passare Eliza per una duchessa. Un tempo in cui lei si scopre nelle cose che apprende e che diventano sue. Non cambia, riordina un essere se stessa senza bisogno di definizioni e inconsapevole, con la naturalezza delle cose non cercate che si delineano più velocemente di quanto le si possa cogliere, si crea il legame. Ed è quel legame a rivelarsi prepotentemente nel riaccendersi dell’istinto, quando la scommessa è vinta e Higgins è solo sollevato di non dover continuare con un affare così noioso mentre Eliza non sa più chi è. Lui non si accorge nemmeno di lei, troppo occupato a chiedersi dove siano le sue ciabatte. Lei decide esattamente in quell’istante chi è e gliele lancia contro, quelle ciabatte, prima di andarsene e non tornare. Non tornare più come prima, né quella di prima. La consapevolezza di sé ha il suo prezzo. L’indipendenza emotiva anche ma richiede uno strappo per essere capita. Per capire che è li dentro che sta un’identità che, invece, non avevi mai del tutto compreso.
Higgins potrebbe nascondersi nel passato di chiunque, tutti potremmo essere stati delle fioraie con i confini del mondo chiusi dentro un cesto di viole e un terribile accento da strapparsi di dosso per seguire un qualche destino. La scoperta di sé, il valore consapevole della dignità che si trascina dietro, scavano un angolo intoccabile e lasciano un segno indelebile sulla pelle. Si tratta di occasioni che possono capitare, oppure no e le conseguenze non gli dipendono necessariamente: la svolta non appartiene a nessun altro se non a chi decide di compierla. Ma restano anche i segni, quelli invisibili agli sguardi. Quelli che ricordano l’attimo esatto in cui qualcosa è cambiato. Il perimetro sottile del punto di non ritorno, quando non c’è stato nessuno a dirti chi eri e dove saresti andato.
C’è un alone di malinconia, non di tristezza, nei brividi dietro il calare improvviso di un’ombra che capita si allunghi nell’animo di un’umile fioraia ma non tocca mai quello del suo pigmalione. Potrebbe succedere di domandarsi tutta la vita se a lui, invece, sia rimasto non un segno, anche solo un graffio di lei, lasciato nell’urto con quell’occasione.
Il senso comune si infrange contro i vetri opachi che separano le emozioni da tutto il resto. Lasciano appena intravedere e proteggono quello che ci appartiene dal tentativo di volerlo spiegare: ciò che veramente ci appartiene non ha bisogno di essere compreso, non ha nulla da pretendere se non l’essere lasciato intatto.
Henry Higgins ha fatto di Eliza Doolittle una donna. Lui lo sa. E la risposta alla domanda quella donna la conosce dall’alto della sua dignità e di quella inspiegabile commistione di riconoscenza e di affetto che non si sceglie, si può solo provare. Nonostante tutto.

Negli “African graffiti” l’unicità d’un continente.

Giulio Gasperini
AOSTA – Non si può raccontare l’Africa se si prescinde dalle persone. Forse nessun altro continente, come l’Africa, affida ancora la sua storia a quelle singole degli individui: lì non esiste, almeno fin adesso, l’idea del destino comune, della meccanizzazione dei destini, dell’inviolabilità del futuro. Forse perché in Africa il futuro ha ben poca importanza in confronto all’adesso, a quello che sta accadendo nell’attimo in cui si parla. E anche perché le incognite, le variabili, non sono preventivate: l’uomo non può immaginarsi ogni casualità, ogni possibile futuro; perché allora doversene preoccupare?
“African graffiti”, la raccolta di storie di Marco Aime, edita da Stampa Alternativa – Nuovi Equilibri (2012), è tutto questo: una galleria di volti, di persone, di nomi precisi, di gesti identificabili. Marco Aime, nei suoi lunghi anni di studio come antropologo delle terre africane, sa che non si può parlare di futuro, per l’Africa, in termini universali, generici. È troppo grande, l’Africa; è troppo composita, varia, multiforme. L’unico modo per capire l’Africa è cercare di capirne i singoli frammenti, i tanti tasselli che la formano. L’Africa ancora non è collettività anonima, industriale, riconducibile a calcoli matematici ed economici. L’Africa è ancora un intreccio e un collegamento di comunità, di nuclei umani. Sicché l’umanità è qualcosa da cui non si può prescindere per descriverla e per capirla.
A cominciare dall’unicità dei cartelloni pubblicitari e delle insegne commerciali: “Sono dipinte a mano, ognuna con un suo stile, colori suoi. Al contrario delle nostre insegne standardizzate, che rimandano a marchi industriali, queste sono dei veri non-loghi, perché sono estremamente personalizzate. Non ce ne sono due uguali”. L’Africa è così, proprio come le sue insegna: è la terra per eccellenza del no-logo, della personalizzazione, dell’esclusività. È una terra dove ancora alcuni valori riescono a sopravvivere, dove ancora si ascolta e dove ancora l’uomo non è soggiogato al tempo incalzante e prepotente.
E la galleria di ritratti che Marco Aime ha messo diligentemente insieme ci conferma tale sensazione. Lui stesso è consapevole di quanto il suo lavoro possa apparire inutile e sterile, di quanto corrompa il pensiero e di quanto si rischi, insistendo, di perdere la meraviglia dagli occhi e dalla mente, non lasciandosi più sorprendere da nulla e attendendosi già tutto. Ma è anche consapevole, Marco Aime, che l’Africa sa sempre come riprendersi la rivincita e come offrire sempre un nuovo motivo, un nuovo gesto, un nuovo sguardo, per far sorprendere, per rimanere ancora una volta senza fiato, e chiedersi qual è quel potere che incatena l’uomo. Che fa stancare dell’Africa il secondo giorno che vi si sbarca ma che la fa mancare, perdutamente, già al secondo giorno del rientro in Italia.