Patrick Modiano, Premio Nobel per la Letteratura 2014

NObelROMA – Patrick Modiano, scrittore francese classe 1945, è il nuovo Premio Nobel per la Letteratura. Figlio di Albert Modiano, un ebreo francese di origini italiane, e di Louisa Colpijn, un’attrice belga di etnia fiamminga, Modiano è tra i più importanti narratori francesi contemporanei. Introdotto giovanissimo nel mondo letterario da Raymond Queneau, conosce e collabora con l’Editore Gallimard. Del 1967 è il suo primo romanzo, La Place de l’Etoile, che gli vale il Premio Roger Nimier. Con Rue des boutiques obscures, nel 1978, vince il Goncourt. Negli anni, mentre continua a scrivere, è documentarista per Carlo Ponti e paroliere per Françoise Hardy. Nei suoi romanzi, per lo più ambientati nella Parigi occupata dai nazisti e costruiti intorno alla figura dello straniero, dell’esule, dell’ebreo, si intrecciano una vena disperata di ascendenza esistenzialista ed il gusto della rievocazione. L’autore rievoca molto spesso, nei personaggi dei suoi romanzi, l’ambigua figura del padre, un ebreo vittima del Nazismo, che, arrestato nel 1943, si dimostrò pronto a tutto per sopravvivere.

MODIANOTra i suoi libri tradotti in italiano ricordiamo “Caterina Certezza” (Donzelli, 2014), “L’orizzonte” (Einaudi, 2012),”Dora Bruder” (Guanda, 2011), “Bijou” (Einaudi, 2005) , “Un pedigree” (Einaudi, 2006) e “Nel caffè della gioventù perduta” (Einaudi, 2010).

 

 

“Ho sempre pensato che certi angoli delle vie siano degli amanti e che si venga attirati da loro se si cammina nei paraggi”.
(Dans le café de la jeunesse perdue)

Nobel letteratura assegnato al cinese Mo Yan

STOCCOLMA“Che con un realismo allucinatorio fonde racconti popolari, storia e contemporaneità”. Questa la motivazione dell’Accademia Svedese nel conferire il Premio Nobel per la letteratura 2012 allo scrittore cinese Mo Yan. Il premio, vinto dallo scrittore, è pari a 8 milioni di corone (1,2 milioni di euro). Mo Yan è autore di sette romanzi, tra cui Sorgo rosso, una dozzina di racconti e numerose storie brevi. Dai primi due capitoli di Sorgo rosso ha ricavato la sceneggiatura per l’omonimo film di Zhāng Yìmóu, vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino nel 1988. Ha scritto la sceneggiatura del film Addio mia concubina e di Chen Kaige.
Il Nobel per la letteratura è il quarto di premi assegnati quest’anno, istituiti per la prima volta nel 1901 per volere di Alfred Nobel, inventore della dinamite.

La pace nel fiume

sidStefano Billi

ROMA – Alcuni sono convinti che esistano libri belli e libri brutti. O meglio, che alcuni libri siano più belli di altri. Come dar loro torto?

E’ innegabile che ci siano dei testi che sanno emozionare ogni uomo nel suo io più profondo, e che inoltre sappiano far aprire gli occhi al lettore. Perché l’individuo del nostro tempo spesso non vede, o vede male. E anche se osserva il mondo, spesso non lo capisce.

Ecco che allora la letteratura – quella che eleva lo spirito – diviene il faro che rischiarai giorni bui, il grimaldello che scardina la volgarità culturale che accompagna questo tempo di crisi di valori.

All’interno di quella letteratura, fulgido esempio è “Siddharta”, insostituibile romanzo di Herman Hesse, edito in Italia da Adelphi.

A voler dare una descrizione sommaria del libro, si potrebbe riassumerlo nella storia di un giovane indiano che fatica a trovare il senso della propria esistenza. Ma questa sarebbe davvero una descrizione sommaria, e sicuramente riduttiva.

“Siddharta” è qualcosa di più: è la narrazione dei profondi travagli interiori di un uomo, che scopre la fragilità della sua purezza giovanile, che sperimenta il dolore provocato dalla perdizione morale.

Adolescente in cerca del sapere profondo, il protagonista della vicenda – il cui nome rispecchia il titolo del racconto – lascia la casa del padre per diventare adulto, ma al passare degli anni non corrisponde una simultanea crescita della coscienza, e così Siddharta assaggia il sapore amarissimo del fallimento, della mancata realizzazione di quello che si sarebbe voluti essere.

Ma proprio sull’orlo del declino, il protagonista ritroverà se stesso, segno che il cammino verso la saggezza è lungo ma raggiungibile, al volenteroso che lo intraprende.

Herman Hesse crea così un romanzo indimenticabile, la cui lettura riesce a forgiare soprattutto gli animi dei giovani. Difatti, attraverso le pagine immortali di “Siddharta”, proprio i ragazzi possono capire tutto il disagio di chi ha smarrito se stesso, in cerca di un’emancipazione che poi si è rivelata soltanto un abbandono della propria purezza. E così “Siddharta” può educare il lettore a comprendere se stesso, ascoltando il rumore del fiume e del mondo, che poi è il senso della rinnovata meditazione del protagonista della storia. Allora davvero si fa chiaro come anche un barcaiolo, un umile personaggio fluviale, possa diventare un maestro che spinge alla profonda meditazione sul senso della vita.

Asciutto nei dettagli, ma chiarissimo nella sua scrittura, questo libro merita comunque di essere letto, a qualunque età, perché ha il grande merito di lasciare una sensazione di appagante serenità. Quella stessa letizia che è cardine delle filosofie orientali e in particolar modo della religione buddista, sottofondo di tutta la vita del protagonista.

“Siddharta” è uno di quei bei libri che andrebbero assolutamente letti, ed auspicabilmente riletti, come una tappa fondamentale nella vita di ogni uomo. Perché non ci si improvvisa adulti, né tantomeno si cresce solo dal punto di vista anagrafico. Proprio per questo Herman Hesse ha regalato all’umanità una storia di crescita interiore. Proprio per questo, tra le tante cianfrusaglie che circondano i vasi degli alberi di Natale, “Siddharta” può rappresentare il dono più straordinario che si possa ricevere.

"Sia dato credito alla poesia", ovvero come si allacciano realtà e interiorità.

Giulio Gasperini
ROMA –
Tutti noi, generalmente, ricordiamo qualche Premio Nobel, soprattutto della letteratura: sia perché qualcheduno lo studiamo pure a scuola, sia perché è il Premio, tra i tanti, forse più accessibile, più immediato. Il giorno dopo, entrando in una libreria, ci troviamo già sommersi dai titoli dello scrittore vincitore pubblicati in traduzione, decorati con fascette e richiami luccicanti da casinò. Non so, però, quanti di noi sanno che ogni premiato, durante la cerimonia, deve tenere un discorso: e che tali discorsi, in molti casi, son diventati opere illuminanti, frammenti di grandezza, umana e/o poetica, assolutamente imprescindibili per conoscere meglio un autore e la sua produzione intera. È il caso del discorso del Premio Nobel del 1995, il poeta irlandese Seamus Heaney, che lesse un appassionato testo intitolato (in traduzione) “Sia dato credito alla poesia” (Archinto, 1997).


Se Montale, trent’anni esatti prima (era il 1975), ritirò il premio chiedendo provocatoriamente a sé stesso e al mondo se la poesia avesse ancora un ruolo nella società, Heaney rispose non solo affermativamente ma con grande decisione e senza nessun tentennamento: la poesia ha un ruolo fondamentale, una funzione imprescindibile. L’uomo non può progredire senza la poesia; non può definirsi tale, l’uomo, né pensare di poter sviluppare le sue capacità più sane e meritevoli, senza confrontarsi con la parola poetica. Perché la parola, per Heaney, ha una funzione reale, concreta, deittica: di relazione, ovvero, diretta con la realtà, col mondo vissuto, coll’umanità che giornalmente, praticamente, si trova a vivere e a sopravvivere. La Poesia, “onesta e fedele” (come anche sostenne Saba), ha “pietà del pianeta”, perché riesce a “creare un ordine fedele all’impatto della realtà esterna e rispondente alle leggi interne dell’essere del poeta”. La poesia è, infatti, “nave e ancora”, riuscendo, nello stesso istante, a rispondere in maniera compiuta e degna a due esigenze profonde (e dolorose) dell’uomo e dell’umanità intera: “Il bisogno, da un lato, di dire la verità, dura e punitiva; dall’altro, di non indurire la mente al punto di rinnegare il proprio desiderio di dolcezza e di fiducia”. Carne e spirito, dunque, per Heaney: ognuno portato ai massimi estremi ma mai lasciato estremizzare.
Il discorso di Heaney si fa ancora più profondo quando riesce, con una leggerezza e una perizia miracolose, a saldare la sua teoria poetica con la realtà quotidiana (“quel secchio nel retrocucina, cinquant’anni fa”) ma anche storica in cui lui si trovò a crescere: quella, ovvero, della sua Irlanda straziata, negli anni ’70, dagli scontri feroci nell’Ulster, tra cattolici e protestanti (“Il tempo di guerra, in altre parole, fu per me tempo anteriore alla riflessione”). E arrivò alla conclusione che “A volte è difficile allontanare il pensiero che la storia sia istruttiva quasi come un mattatoio”. Ma laddove la storia può fallire, arriva la poesia a smascherare l’inganno e a ripristinare le giuste rotte di navigazione.