“Come poteva essere una storia d’amore” due voci di Giuliano Bugani per Bébert

come poteva essere una storia d'amore_recensione_buganiGiulia Siena
BOLOGNA
– “Sai in fondo dovevo aspettarmelo: la nostra vita, le nostre vite, sono sempre state legate, anche se parte dei nostri anni siamo stati lontani. Ma io me l’aspettavo, come poteva la nostra storia essere una storia d’amore”. Forse lo è stata, forse no; forse sono solo ricordi, rancori e rimorsi. Forse i due protagonisti della penna di Giuliano Bugani sono solamente due esseri in cerca di ascolto dopo un lungo silenzio. Comincia così Come poteva essere una storia d’amore, il primo dei due racconti contenuto nell’omonimo libro targato Bébert Edizioni che, con Imeacht brònach. Una miserevole uscita, inaugura la collana Gli Irrisolti della casa editrice bolognese.

“Dopo tanti anni, cosa resta di una storia cominciata su idee che per sempre credevamo incancellabili?”. Si chiede lui. Lui, il cinquantenne divorziato è scettico, timoroso e disilluso quando riceve la lettera di Lei. “Siamo nati per parlare e adesso invece mi sembra la cosa più difficile da fare” dice Lei, tentanto una strada interrotta anni prima, quella del dialogo. Loro hanno un figlio ormai grande e ora, dopo anni di silenzio, tornano a parlare attraverso una fitta corrispondenza. Le cose sono cambiate e stanno cambiando e questo non potrebbe essere che un segno del destino per farli incontrare ancora. Perché ora hanno messo da parte le ostilità e la rabbia, sono alle prese con una nuova età, con la fragilità e la paura. Ora sono pronti a farsi avanti, a guardarsi con occhi nuovi e, forse, a dirsi addio.

 

Donnarkica, il secondo dei due racconti contenuto in Come poteva essere una storia d’amore è la storia dei Desaparecidos dell’America Latina. “Uccidere un pensiero ha necessità di uccidere una persona. Se si uccidono tante persone, si uccide un ideale” è questo quello che è stato fatto in Cile. Per questo Maria Esteban, Rosaura Guanda, Margarita Huanderamo e le altre madri continuano a urlare il loro dolore per quei giovani figli persi. Lo fanno per coltivare la memoria, affinché i sogni spezzati, gli ideali uccisi e le lotte zittite di quei figli reclusi e fatti sparire non siano vani e dimenticati. David, Anita e Francisco, infatti, avevano commesso il grave errore di credere di poter cambiare il mondo con le proprie armi: lo studio, la conoscenza e la cultura. A loro non fu permesso perché vennero catturati, torturati e fatti sparire. Per decenni si fece finta di nulla; ora sono le madri che tengono vivo il ricordo.

 

Con questo libro l’operaio, scrittore e regista Giuliano Bugani firma due racconti ricchi di pathos e poesia. In queste pagine la vita vissuta si intreccia al passato: l’amore e la quotidianità vengono raccontate con un coinvolgimento emotivo che riesce a trascinare il lettore nella fitta trama di parole e descrizioni. Il passato, il dolore e l’attualità diventano storia da non dimenticare grazie a una scrittura intensa e commovente (sembra quasi che il racconto dei Desaparecidos sia in presa diretta, lì nelle piazze cilene e nelle carceri dove avvengono i massacri). Due racconti diversi e simili. Entrambi hanno una straordinaria capacità di farsi leggere ed emozionare.

 

“Sono passati venticinque anni, e da quella notte, David Esteban, per il mondo intero non esiste più. Non esiste per questo Paese, non esiste per questa America Latina, non esiste per nessuno. Desaparecido”. 

 

 

“Terzo Tempo”, Quindici storie di sport per raccontare trent’anni di vita

TERZO_TEMPO-chronicalibriGiulia Siena
BOLOGNA
“No, non si può vivere tutta la vita in un giorno solo, ma in un giorno solo la si può raccontare se hai la pazienza di aspettare e poi di raccogliere”. Questo è quello che ha fatto Felice Panico con “Terzo Tempo. Quindici storie di sport”. Pubblicato da Caracò Editore (collana Singoli), il libro è un viaggio che l’autore intraprende nel passato attraverso storie di sport. Lo sport, anche se solamente guardato, è stato per Panico – attore, autore e regista teatrale – il metronomo della propria esistenza. Una sera, a tredici anni, Felice si accorge che quell’anno, la sua estate, sarebbe stata segnata da un grande evento: i mondiali di calcio. E’ il 1994 e, per un caso fortuito, quella stessa sera si accorgerà che il coinvolgimento, la passione e il trasporto per quel calcio stellare era lì, prima di lui. In soffitta, suo padre aveva conservato in una cesta, una maglia color arancio, la numero tredici; la maglia di Neeskens, uno degli undici leoni dell’Olanda del ’74, la stessa squadra che gli aveva dato i brividi nel documentario trasmesso quella sera, venti anni dopo.

 

 

Così Felice Panico comincia a raccontare e raccontarsi. E’ il 4 luglio 1981 quando sull’erba di Wimbledon si affrontano “l’Orso e lo Sbruffone”, Borg e McEnroe; dall’altra parte dello schermo, a duemilacinquecento chilometri di distanza, seduta a guardare quella partita, c’è una giovane coppia di Pomigliano d’Arco. Lei, la ragazza, da lì a pochi minuti darà alla luce Felice, giusto in tempo per vedere l’ultimo punto di McEnroe. E da questa partita parte un viaggio trentennale fatto di sport e musica, umanità, sconfitte, sfide e scommesse, drammi, gioie e cambiamenti. Arriveranno gli slalom di Alberto Tomba, i sogni giamaicani nel bob, le partite al San Paolo, le speranze del Camerun, l’antica disputa tra Coppi e Bartali, il dramma dell’Heysel e la tragedia delle Torri Gemelle. Con “Terzo Tempo” si percorre tutto questo; ma accanto ai racconti, parallelamente, viene narrata una storia. La storia è ambientata negli anni Settanta, quando due giovani della provincia italiana vivono di sogni, speranze, idoli, ideali e realtà. Questa realtà, poi, si trasforma in famiglia, una famiglia che non abbandona i sogni per crescere il futuro.
“Terzo Tempo” è una piccola scatola preziosa. E’ un dono lasciato in soffitta – come la maglia in lanolina del piccolo Felice – che, togliendo il coperchio, si perde la cognizione del tempo e si viene magicamente catapultati nel passato. Il passato, però, viene dosato, filtrato e riproposto in maniera eccellente: i ricordi si fanno veicolo delle emozioni del narratore. Di queste emozioni – grazie alla bravura di Panico – ci sentiamo un po’ tutti parte; anche perché lo sport ha un pregio: è di tutti.

A Natale, storie russe sotto l’albero

Marianna Abbate

ROMA – Cechov ci raccontò la storia dello sfortunato zio Vanja in un complesso dramma di quattro atti. Luigi Mancuso decostruisce la struttura teatrale dell’opera, trasformandola in narrativa, per regalare anche ai lettori più piccoli l’atmosfera irripetibile della campagna russa. Lo zio Vanja diventa così un racconto, molto più fruibile, per chi ancora non è abile nella lettura, ma anche per chi vuole soltanto dilettarsi con una bella storia, tè e biscottini.

Lo zio Vanja e altre storie russe” pubblicato da Nuove Edizioni Romane, è il regalo ideale per grandi e piccini.

Il libro ci regala altre due storie, questa volta atti unici: “Una proposta di matrimonio” e “Le nozze”. Inconfondibile il sapore della Russia di fine ‘800, in bilico tra modernità e tradizioni, tra gusto del passato e sete di modernità.

Come sempre, attraverso un libro possiamo aiutare i bambini a comprendere la realtà odierna, le contraddizioni e i problemi che da sempre accompagnano un popolo in gara con l’Occidente. E se anche non vogliamo addentrarci in dietrologie, possiamo sempre deliziarci con una bella storia magistralmente narrata.

 

Le tante “Corde” delle nostre vite.

cordeGiulio Gasperini
AOSTA – I 14 racconti di Dario Bellucco, editi da Lupo Editore (2013) nella collana Incipit, sono delle incursioni sapide in vite al limite, in esistenze accelerate verso una capitolazione tutt’altro che eroica. Queste storie sono popolate di droghe, alcol, dipendenze, rapporti malati e fraintesi, prospettive deviate e legami spezzati: tutte “Corde”, tanti lacci, che imprigionano, che costringono, imbavagliano e disarticolano. I protagonisti dei racconti sono moderni inetti, ovvero personaggi che si dibattono in una vita nella quale stanno come passivamente, trasportati dalla corrente furiosa, incapaci di reagire; si tratta spesso di finto godimento, di illusioni e fate morgane che allettano per il tempo di un errore ma che lasciano poi amari e delusi. Ci sono tutte le inquietudini, le insicurezze, i timori dei nostri nuovi anni; ci sono le crisi, i traumi, i tentativi goffi e fallimentari che intere generazioni avevano creduto di aver trovato per combattere quello che spaventava e che tuttora spaventa. Le città, a volte tratteggiate altre volte descritte quasi carnalmente, diventano il setting correlato alle vicende frammentarie ma dure, difficili in certi punti da leggere, perché feroci nella loro asprezza.
Le vite durano poco, sono trattate come merce di scambio, senza valore. Sono in tanti che muoiono, spesso per scelte volontarie, magari esasperate, come accade in “Un’ultima volta”. Anche i rapporti familiari non riescono a significare queste esistenze spesso definite dall’errore stesso, senza nessuna possibilità di redenzione (“Scusa, papà” e “Una buona causa”). La gioventù è devastata, distrutta in un’ansia di incognito: sono così i ragazzi protagonisti di tanti racconti, da “Racconto giovanile di un tragico evento” a “I ragazzi che dovettero pagare”, in cui per divertirsi si è pure pronti a pagare un dazio tremendamente alto. Neanche l’amore serve a nulla, è un sentimento che punisce e fa soffrire, che non dà nessun piacere, nessuna gioia, nessun orgoglio, come si racconta in “Dobbiamo giocare con le spade” e “Amore”. L’ansia e la fame di Dio covano nel profondo, alimentando una ricerca che pare superficiale ma in realtà è metodica e interessata. Nel racconto “Dio” il piano del male pare assumere il sopravvento, fino a un epilogo dove l’accelerazione all’autopunizione esplode in un gesto estremo, radicale. Il linguaggio è scarno, essenziale, quasi a riflettere i caratteri delle maschere in scena. Tutto in sottrazione, dove i silenzi, i suggerimenti, contano forse anche più degli svelamenti. Tanto si immagina, in queste storie, tanto si congettura: l’incognita crea ancora più ansia, più angoscia soffocante.
In tutti questi racconti non pare esserci una consolazione, né la possibilità di una fuga. Mostrano però le colpe della nostra società, i suoi punti di forza, le irresistibili tentazioni, e parallelamente ne suggerisce anche le colpe, le aperte strategie. E, per combattere e opporsi, la prima regola è sempre scoprire i punti deboli.

“Certe strade semideserte” sono piene di vita

Marianna Abbate

ROMA – Sicilia. Una parola carica di emozioni, di sensazioni e di profumi. Un sottofondo leggero di musica dal vivo, colori accesi, arance, afa, silenzio. In “Certe strade semideserte” non succede nulla, eppure accade di tutto.

Prende spunto dal verso di Thomas Stearns Eliot, questa antologia di otto racconti pubblicata nella collana Le stanze di L.E.I.MA., la nuova casa editrice palermitana.

Racconti, tutti diversi nello stile, nel messaggio e nel significato. Accomunati da un unico e forte senso dell’immagine. Piccoli quadri, scorci, ritratti e paesaggi. Sogni materializzati e realtà illusorie sono il punto focale di questa curiosa ed elaborata raccolta.

Gli autori hanno un bagaglio culturale molto vario: ci sono i giornalisti/scrittori Giacomo Cacciatore e Valentina Gebbia, il libraio Alessandro Locatelli e Fabio Ceraulo scrittore/blogger che lavora nel campo del turismo, Marco Pomar impegnato tra sport e legalità. C’è anche un’eclettica artista che crede nella contaminazione dei linguaggi Elvira Seminara, Maria Grazia Sclafani presidente di un’associazione di volontariato e Alessandro Savona, di professione architetto, ma scrittore di successo per passione.

Autori molto diversi tra loro, accomunati da un forte talento per la scrittura e dalla passione per la propria terra d’origine.

Le storie sono molto brevi, quanto basta per affezionarsi al protagonista, per poi salutarlo in tutta fretta e innamorarsi di quello successivo.

 

Un libro costruito ad arte, adatto ad una lettura frammentaria, come anche ad essere divorato tutto insieme, come in un variegato menù di letture.